31/12/17

Uno studio dimostra che fu l'austerità a facilitare l'ascesa dei Nazisti al potere

Come riportato da Vox, secondo un recente studio di storici dell'economia esiste una correlazione statistica forte e diretta tra le misure di austerità di Bruning tra il 1930 e 1932 in Germania e l'ascesa al potere del nazismo. L'austerità aiuta colmare le lacune delle tesi classiche sull'affermazione del nazismo, anche se, a detta degli stessi autori, non fu certamente l'unica causa. Questo studio rappresenta comunque un avvertimento per la situazione  attuale dell'eurozona:  a parità di condizioni, l'austerità favorisce il successo di politiche radicali di destra . 

 

 

 

di Dylan Matthews, 12 dicembre 2017

 

Migliaia di storici, economisti, sociologi e altri ricercatori hanno trascorso più di 80 anni cercando di dare un senso all'improvvisa ascesa al potere del partito nazista.

 

La spiegazione standard è che gli elettori tedeschi si riversarono sul partito nel 1932 e nel 1933 in risposta alle sofferenze della Grande Depressione, alla quale i partiti convenzionali non riuscirono a porre fine. Ma altri hanno cercato di spiegare il colpo di stato di Hitler, in tutto o in parte, facendo riferimento all'ossessione della cultura tedesca per l'ordine e l'autorità, a secoli di virulento antisemitismo tedesco e alla popolarità delle associazioni locali come quelle dei veterani, i circoli di scacchi e di canto corale che i nazisti usarono per facilitare il reclutamento.

 

Un nuovo articolo di un gruppo di storici dell'economia si concentra su un altro colpevole: l'austerità, e in particolare il pacchetto di duri tagli alle spese e di aumenti delle tasse che il cancelliere conservatore tedesco Heinrich Brüning promulgò tra il 1930 e il 1932.

 

Nel documento, pubblicato dall'Ufficio Nazionale di Ricerca Economica, Gregori Galofré-Vilà dell'Università Bocconi, Christopher M. Meissner della UC Davis, Martin McKee della London School of Hygiene & Tropical Medicine e David Stuckler della Bocconi chiariscono come essi non ritengano che l'austerità possa spiegare tutto. È un fattore in mezzo a molti altri. Ma pensano che l'austerità aiuti a colmare le lacune della narrazione tradizionale sull'ascesa dei nazisti incentrata sulla Grande Depressione.

 

C'è un vuoto da colmare nella classica tesi secondo cui la Grande Depressione spiega l'ascesa del nazismo: anche molti altri paesi hanno sofferto durante la Depressione, senza sprofondare in dittature totalitarie.

 

"Durante gli anni '20 non vi erano differenze sostanziali nell'andamento dell'economia  delle nazioni che, a metà degli anni '30, erano regimi democratici o dittature", osservano gli autori. "La profondità della depressione in Germania fu solo leggermente maggiore rispetto a quanto accadde in Francia o nei Paesi Bassi, mentre in Austria (e in altre nazioni dell'Europa orientale) e negli Stati Uniti fu anche peggiore ". Tra questi paesi, anche l'Austria vide  l'ascesa al potere di una dittatura di estrema destra, sotto Engelbert Dollfuss, nel 1932. Ma la Francia, i Paesi Bassi e gli Stati Uniti non videro andare al governo partiti di estrema destra.

 

Anche il fatto che i disoccupati non erano particolarmente propensi a votare per i nazisti  risulta problematico ai fini di una spiegazione economica più semplicistica. Gli autori citano valanghe di ricerche che dimostrano che i disoccupati erano più propensi a votare per i comunisti o i socialdemocratici. "Non è che Hitler non abbia cercato di appellarsi alle masse di disoccupati", notano, "anzi il Partito Comunista era percepito come il partito che tradizionalmente rappresentava gli interessi dei lavoratori".

 

Un fattore squisitamente tedesco che potrebbe aiutare a spiegare l'ascesa dei nazisti sono le dure riparazioni di guerra, pari al 260% del PIL della Germania nel 1913, che i vincitori della Prima Guerra Mondiale imposero col Trattato di Versailles. Già nel 1920, John Maynard Keynes avvertiva che la sofferenza economica causata dal costringere la Germania a pagare quel debito poteva portare all'ascesa di una dittatura.

 

Ma gli autori osservano che il debito della Germania per lo più non fu ripagato; il Presidente degli Stati Uniti Herbert Hoover annunciò una moratoria sui pagamenti nel 1931, che infine furono sospesi dagli Alleati alla Conferenza di Losanna nel 1932. Gli autori non rigettano l'idea che le riparazioni abbiano avuto un ruolo, in particolare dopo che Brüning, nel suo ruolo di cancelliere, denunciò pubblicamente il sistema delle riparazioni nel 1931, cosa che indusse i mercati internazionali dei capitali a temere che la Germania non avrebbe rimborsato i suoi debiti, e rese più difficile per il paese l'accesso al credito. Gli autori semplicemente non pensano che le riparazioni, e la stessa Grande Depressione, siano spiegazioni sufficienti.

 

È qui che entra in gioco l'austerità. La portata dei tagli che Brüning attuò dal 1930 al 1932 è davvero sbalorditiva. Gli autori stimano che tra il 1930 e il 1932 Brüning tagliò le spese del governo tedesco di circa il 15%, al netto dell'inflazione. Alzò le imposte sul reddito in media del 10% per i percettori di redditi più alti e tagliò le indennità di disoccupazione, le pensioni e le prestazioni sociali.

 

Le conseguenze economiche furono terribili. Il PIL diminuì del 15%, così come le entrate del governo. La disoccupazione aumentò dal 22,7% al 43,8%. Brüning divenne famoso come il "Cancelliere della fame".

 

"Sebbene la Germania non sia stata l'unico paese colpito dalla Depressione, è stato l'unico grande paese ad attuare misure di austerità prolungate e profonde", scrivono gli autori. La Gran Bretagna, al contrario, durante questo periodo in realtà aumentò la spesa pubblica.

 

Galofré-Vilà, Meissner, McKee e Stuckler non sono certo i primi a collegare le sofferenze causate dall'austerità all'ascesa dei nazisti, ma sono tra i pochi ad aver provato a quantificarne l'effetto. Per prima cosa stimano il livello di austerità in ogni stato e distretto tedesco utilizzando l'aliquota fiscale media di ciascuna area locale. Mentre il governo di Brüning aumentava le imposte sul reddito a livello generale, la maggior parte delle imposte sul reddito erano locali, quindi gli aumenti delle tasse federali provocarono inasprimenti fiscali di dimensioni differenti in aree differenti. E, secondo gli autori, le aree che hanno visto gli aumenti più consistenti nelle aliquote fiscali medie hanno anche registrato la maggior quota di voti al partito nazista nelle elezioni del luglio 1932, del novembre 1932 e del marzo del 1933.

 

Gli autori trovano risultati simili anche se si considera l'austerità dal punto di vista dei tagli alla spesa pubblica statale e locale, oppure combinando sia i tagli alla spesa che le variazioni nelle aliquote fiscali o salariali. "Indipendentemente da come misuriamo l'austerità, la stima del nesso tra l'austerità e il voto ai nazisti è positiva e statisticamente significativa nella maggior parte dei modelli, considerando le diverse elezioni tra il 1930 e il 1933", concludono.

 

Secondo le stime, un aumento dell'1% dei tagli alla spesa è associato a un aumento di 1,825 punti percentuali nella quota parte di voti andati ai nazisti. I risultati sono ancora più robusti se si considerano solo i tagli alle pensioni elargite dalle municipalità locali, al sostegno alla disoccupazione e all'assistenza sanitaria e reggono anche se si usa come variabile dipendente l'appartenenza al partito nazista, piuttosto che la quota parte di voto ai nazisti.

 

"Al limite massimo di questi valori percentuali", scrivono gli autori, "è plausibile sostenere che i nazisti non sarebbero mai riusciti a prendere il potere nel marzo 1933, dal momento che ciò avrebbe richiesto ai partner della coalizione di arrivare all'11% dei voti". In realtà, dopo le elezioni di marzo (durante le quali Hitler era già Cancelliere) i nazisti mantennero la loro coalizione con il Partito Popolare Nazionale Tedesco (Deutschnationale Volkspartei, o DNVP), che controllava circa l'8% dei voti nel Reichstag.

 

La differenza tra l'8% e l'11% necessario per avere la maggioranza nel Reichstag potrebbe non sembrare molto grande. E, certamente, è possibile che Hitler sarebbe stato in grado di mantenere il cancellierato anche se avesse avuto un numero leggermente inferiore di seggi al Reichstag. La sua ascesa al potere non fu puramente elettorale: l'elezione del 1933 fu caratterizzata da diffuse intimidazioni violente da parte delle milizie naziste, rivolte in particolare ai socialdemocratici e ai comunisti.

 

Al momento dell'elezione, il Presidente tedesco Paul von Hindenburg aveva già emanato il "decreto dell'incendio del Reichstag", dando a Hitler vasti poteri per sopprimere il dissenso. Alla fine Hitler avrebbe usato quei poteri per arrestare tutti i comunisti e alcuni membri socialdemocratici del Reichstag, permettendo, dopo poche settimane dalle elezioni, l'approvazione del "decreto dei pieni poteri" e lo sprofondamento totale della Germania nella dittatura. Forse Hitler avrebbe potuto usare gli stessi poteri per prendere il controllo dello stato tedesco anche con meno voti.

 

Ma i risultati sono nondimeno un promemoria di quanto fosse traballante la coalizione parlamentare di Hitler, e di come un'oscillazione di pochi punti percentuali nel voto avrebbe potuto minacciare di porre fine al suo mandato di cancelliere a meno di due mesi dal suo inizio.

 

Quindi perché furono i nazisti, piuttosto che i comunisti o i socialdemocratici, a beneficiare del fervore anti-austerità? Bene, per prima cosa, i socialdemocratici erano l'alleato di minoranza del Partito di Centro di Brüning nella coalizione di governo, e di conseguenza furono puniti per le sofferenze dell'austerità. I comunisti raccolsero molti voti, in particolare tra i disoccupati e le classi lavoratrici, nello stesso periodo in cui i nazisti stavano crescendo.

 

Sebbene gli autori non diano una risposta definitiva, notano che i nazisti proponevano una piattaforma anti-austerità, complementare ai loro temi ipernazionalisti e antisemitici. Promisero agevolazioni fiscali, per "mantenere il sistema di previdenza sociale", per assicurare "una generosa espansione del sostegno agli anziani" e per espandere gli investimenti nelle rete stradale.

 

Ciò non scatenò il sostegno ai nazisti tra i disoccupati e le classi inferiori, che invece si riversarono sui comunisti. Ma ebbe risonanza, scrivono gli autori, "tra le classi medio-alte che, pur nella profondità della Depressione (ovvero, dopo aver tenuto sotto controllo i livelli di produzione e occupazione) avevano ancora qualcosa da perdere." Inoltre, questi segmenti di classe media avrebbero potuto risentire del fatto che dopo l'austerità le prestazioni sociali ai poveri e ai disoccupati venissero ancora drasticamente ridotte. Anche le classi medie e alte stavano soffrendo, senza molto sostegno da parte del governo. I nazisti promisero loro di cambiare tutto questo.

 

Come chiarisce lo studio, l'austerità è un fattore tra i molti e non è la causa principale dell'ondata di sostegno ai nazisti. Le grandezze delle stime degli autori non sono così alte. E generalizzando a partire dal caso tedesco, il consenso per i movimenti radicali di destra al giorno d'oggi a volte nasce da una profonda austerità, ma a volte no. La depressione in Grecia e i duri pacchetti di austerità hanno aiutato l'ascesa del partito apertamente neo-nazista Alba Dorata, mentre la Spagna, che pure ha sofferto di austerità per anni, non ha avuto attività di estrema destra di cui parlare.

 

Intanto, gli Stati Uniti sono l'unico grande paese occidentale degli ultimi dieci anni ad avere un capo di governo populista di destra, un capo di governo eletto a seguito di misure di austerità come il sequestro la restituzione dei tagli fiscali di Bush che erano, in prospettiva internazionale, piuttosto miti.

 

Ma il documento è comunque un avvertimento che l'austerità potrebbe, a parità di condizioni, rendere più facile il successo di una politica radicale di destra. Potrebbe non essere una condizione sufficiente o addirittura necessaria. Eppure è un fattore che vale la pena esaminare più attentamente.

22/12/17

Shashi Tharoor - Il prezzo dell'impero

Proponiamo un commento di Shashi Tharoor, una delle voci più autorevoli dell'India moderna, sulla recente presa di coscienza dell'India riguardo i crimini perpetrati dalla Gran Bretagna nel sub-continente asiatico. Gli inglesi si impadronirono di uno dei paesi più ricchi del mondo, che nel 1700 rappresentava il 27% del PIL globale, e dopo due secoli di dominio coloniale lo ridussero ad uno dei più poveri al mondo. Oggi che l'India rappresenta nuovamente una superpotenza economica, davanti alla quale la stessa Gran Bretagna è costretta a chinarsi per ottenere necessari finanziamenti, gli indiani, che pur non hanno mai espresso sentimenti ostili verso gli ex padroni, ottengono la rivincita per le umiliazioni subite. Una lezione storica e morale da non sottovalutare, in un mondo che rimane sempre caratterizzato, anche in Europa, dalle tendenze espansionistiche e imperialistiche di paesi atavicamente coloniali, e che si riassume in un semplice concetto: i popoli oppressi non dimenticano mai le ingiustizie subite.

 

 

 

Di Shashi Tharoor, 20 febbraio 2017

 

 

NUOVA DELHI - Gli indiani tendono a non soffermarsi sul passato coloniale del paese. Forse a causa della loro forza come nazione, o forse per via della debolezza del senso civile, l'India ha a lungo rifiutato di nutrire rancore contro la Gran Bretagna per 200 anni di asservimento imperiale, saccheggio e sfruttamento. Ma l'equanimità degli indiani riguardo al passato non annulla ciò che è stato fatto.

 

 

Il ritiro simbolico della Gran Bretagna dall'India nel 1947, dopo due secoli di dominio imperiale, comportò una selvaggia spaccatura che diede origine al Pakistan. Ma curiosamente ciò non ha originato alcun rancore verso la Gran Bretagna. L'India scelse di stare nel Commonwealth come repubblica e mantenne relazioni cordiali con i suoi ex padroni.

 

 

Alcuni anni dopo, Winston Churchill chiese al primo ministro Jawaharlal Nehru, che aveva passato quasi un decennio della sua vita nelle carceri britanniche, la ragione della sua apparente assenza di rancore. Nehru rispose che "un grande uomo", Mahatma Gandhi, aveva insegnato agli indiani "a non temere né odiare mai".

 

 

Ma, nonostante le apparenze contrarie, le cicatrici del colonialismo non si sono del tutto rimarginate. L'ho imparato di persona nell'estate del 2015, quando ho pronunciato un discorso alla Oxford Union denunciando le iniquità del colonialismo britannico - un discorso che, con mia sorpresa, ha suscitato forti reazioni in tutta l'India.

 

 

Il discorso è diventato rapidamente virale sui social media, dove un post ha registrato più di tre milioni di visite in sole 48 ore, ed è stato ripubblicato su siti Web di tutto il mondo. Persino i miei avversari di destra hanno smesso di trollarmi sui social media per il tempo sufficiente a salutare il mio discorso. La portavoce del Lok Sabha, Sumitra Mahajan, si è sperticata a farmi i complimenti durante un evento a cui partecipava il Primo Ministro Narendra Modi, che poi si è congratulato pubblicamente con me per aver detto "le cose giuste nel posto giusto".

 

 

Scuole ed università hanno mostrato il discorso ai loro studenti. Un'università, la Central University of Jammu, ha organizzato un seminario di un giorno, durante il quale eminenti studiosi affrontavano specifici punti che avevo sollevato. Centinaia di articoli sono stati scritti in risposta, sia a sostegno che contro le mie dichiarazioni.

 

 

Due anni dopo, vengo ancora avvicinato in luoghi pubblici da sconosciuti che elogiano il mio "discorso di Oxford". Il mio libro sullo stesso tema, An Era of Darkness, è saldo nelle classifiche dei bestseller indiani fin dalla sua pubblicazione alcuni mesi fa. L'edizione inglese, Inglorious Empire: What the British Did to India, sarà pubblicata prossimamente.

 

 

Tenendo conto del tradizionale atteggiamento dell'India verso il colonialismo, non mi aspettavo una simile accoglienza. Ma forse avrei dovuto. Dopotutto, gli inglesi si impadronirono di uno dei paesi più ricchi del mondo - che rappresentava il 27% del PIL globale nel 1700 - e, in 200 anni di dominio coloniale, lo ridussero ad uno dei più poveri del mondo.

 

 

La Gran Bretagna distrusse l'India attraverso il saccheggio, l'esproprio ed il vero e proprio furto - tutti condotti con uno spirito di profondo razzismo e cinismo amorale. Gli inglesi giustificavano le loro azioni, compiute con la forza bruta, con un'ipocrisia e supponenza sconcertanti. Lo storico americano Will Durant definisce la sottomissione coloniale britannica dell'India "il più grande crimine di tutta la storia". Che si sia d'accordo o meno, una cosa è chiara: l'imperialismo non è stato, come hanno sostenuto alcuni insulsi apologeti britannici, un'impresa altruistica.

 

 

La Gran Bretagna ha sofferto di una sorta di amnesia storica sul colonialismo. Come recentemente sottolineava Moni Mohsin, uno scrittore pakistano, il colonialismo britannico è largamente assente dai programmi scolastici del Regno Unito. I due figli di Mohsin, nonostante frequentino le migliori scuole di Londra, non hanno mai seguito una sola lezione sulla storia coloniale.

 

 

I londinesi sono fieri della loro magnifica città, ma sanno ben poco della rapacità e del saccheggio che l'hanno resa tale. Molti britannici sono sinceramente inconsapevoli delle atrocità commesse dai loro antenati, e alcuni vivono nella beata illusione che l'impero britannico sia stato una sorta di missione civilizzatrice per elevare i selvaggi nativi.

 

 

Questo apre la strada alla manipolazione delle narrazioni storiche. Le soap opera televisive, con la loro stucchevole romanticizzazione del "Raj", forniscono un'immagine edulcorata dell'era coloniale. Diversi storici britannici hanno scritto libri di enorme successo esaltando le presunte virtù dell'impero. Nell'ultimo paio di decenni, in particolare, famosi resoconti sull'Impero britannico, scritti da storici del calibro di Niall Ferguson e Lawrence James, lo hanno descritto in termini entusiastici. Tali racconti non riconoscono l'atrocità, lo sfruttamento, il saccheggio e il razzismo che hanno sostenuto l'impresa imperiale.

 

 

Tutto questo spiega - ma non scusa - l'ignoranza dei britannici. Se il presente non può essere inteso in termini di semplici analogie storiche, è anche vero che le lezioni della storia non possono essere ignorate. Se non si è coscienti delle proprie origini, come si può apprezzare dove si è diretti?

 

 

Questo non vale solo per gli inglesi, ma anche per i miei connazionali indiani, che hanno dimostrato una straordinaria capacità nel perdonare e dimenticare. Ma, se è giusto perdonare, non dovremmo mai dimenticare. In questo senso, la formidabile reazione al mio discorso del 2015 alla Oxford Union è incoraggiante.

 

 

Le relazioni moderne tra la Gran Bretagna e l'India - due paesi sovrani e uguali - sono chiaramente molto diverse dalla relazione coloniale del passato. Quando il mio libro è apparso nelle librerie a Delhi, il primo ministro britannico Theresa May era attesa pochi giorni dopo in visita per cercare investitori indiani. Come ho spesso sostenuto, non è necessario cercare vendetta per la storia. È la storia stessa a vendicarsi.

 

 

 

 

 

Shashi Tharoor, ex vicesegretario generale delle Nazioni Unite ed ex ministro indiano per lo sviluppo delle risorse umane e ministro di Stato per gli affari esteri, è attualmente deputato al Congresso nazionale indiano e presidente della commissione parlamentare permanente per gli affari esteri. È l'autore di "Pax Indica: India and the World of the 21st Century".

21/12/17

Intervista a Barba e Pivetti su “La scomparsa della Sinistra in Europa” (con una nostra domanda)

Dal Collettivo Aristoteles, un gruppo di giovani torinesi che si occupano di tematiche economiche e politiche, abbiamo ricevuto questa intervista, da loro realizzata, agli autori del testo "La scomparsa della sinistra in Europa", e diamo corso volentieri alla pubblicazione. Gli autori denunciano il suicidio politico della sinistra, che aderendo al progetto mondialista di libera circolazione di merci, persone e capitali, con ciò stesso si è posta nell'impossibilità di promuovere le politiche economiche espansive di piena occupazione a tutela del lavoro, a causa del potente "vincolo esterno" della bilancia dei pagamenti. Così facendo, la sinistra è venuta meno alla sua funzione e di conseguenza sta scomparendo dal panorama politico. Gli autori indicano una via e affermano con coraggio che un paese potrebbe "andare anche da solo" nella direzione delle politiche espansive, a patto di attuare un opportuno regime di controlli delle transazioni con l'estero, e sottolineano anche l'effetto domino che si produrrebbe verso gli altri partner, capace di innescare un circolo virtuoso di coordinamento espansivo. L'analisi prosegue poi con riguardo al problema della immigrazione, considerato anch'esso centrale nella perdita di consensi della sinistra.

 

All'intervista, dal nostro punto di vista, vorremmo aggiungere una domanda diretta sull'importanza data dagli autori - e anche dagli intervistatori -  al fatto, di cui non si parla in maniera diretta ma che in realtà ci appare macroscopico, dell'euro e della fissità del cambio, dato che accanto al regime di controlli dei movimenti di merci, persone e capitali, altro elemento fondamentale nell'aggiustamento della bilancia dei pagamenti è il meccanismo di riequilibrio automatico fornito dalla flessibilità del cambio, e dato che è proprio la sostenibilità dell'euro e del cambio fisso che obbliga l'unione monetaria a porre quei vincoli di bilancio pubblico che qui sono considerati la causa primaria che impedisce le politiche di piena occupazione.

Forse si dà per scontato che il ritorno alla sovranità nazionale monetaria e fiscale porterebbe necessariamente all'uscita dall'euro?
O forse si ritiene che si possa riuscire a condurre politiche espansive anche restando nella moneta unica? Poniamo questa domanda, e speriamo di ricevere risposta, allo scopo di fare chiarezza e favorire quella aperta circolazione delle idee la cui mancanza, tra le altre cose, ha contribuito così tanto alla morte della sinistra che molti lamentano. Sarebbe meglio parlarne...


 

 

 

Intervista a Aldo Barba e Massimo Pivetti, autori di “La scomparsa della Sinistra in Europa” (Imprimatur, 2016).

 

1. Non possiamo vivere al di sopra delle nostre possibilità, dicono alcuni dai loro yacht. Non possiamo scaricare il peso del debito sulle future generazioni, affermano politici 'responsabili' e tecnici 'obiettivi'. Il debito, sostenete invece voi, è una questione intra-generazionale, non tra generazioni: è una questione che riguarda chi possiede le cartelle del debito pubblico e chi invece paga per onorarne il servizio. Oggi in Italia chi possiede le cartelle e chi le paga?

 

Il debito pubblico, in Italia come in ogni altro paese industrialmente avanzato, è in parte debito esterno, ossia debito detenuto da soggetti esteri, ma per la maggior parte debito interno. Quindi le cartelle del debito pubblico sono possedute principalmente da famiglie e imprese (in primo luogo banche) nazionali, che incassano annualmente gli interessi e ne ottengono il rimborso alla scadenza. Anche se il debito pubblico interno può considerarsi come “un debito della mano destra verso la mano sinistra”, il problema è che, specialmente in Italia, le due mani, quella che paga e quella che riceve, non appartengono al medesimo corpo. Attraverso la finanza pubblica e il sistema fiscale ha luogo una sistematica e massiccia redistribuzione dalla fasce di reddito medio-basse a quelle più elevate nelle cui mani è concentrato, direttamente o più indirettamente attraverso le imprese finanziare, il possesso delle cartelle. La riduzione della progressività dell’imposizione fiscale e il fenomeno dell’evasione acuiscono questa redistribuzione: il ricco che paga poche tasse può prestare allo Stato il maggior reddito che gli resta disponibile e in tal modo conseguire un doppio guadagno (le tasse non pagate più gli interessi sul prestito di questa ‘mancata imposizione’ allo Stato). Questa redistribuzione dai redditi medio-bassi ai redditi alti contribuisce poi, attraverso i suoi effetti depressivi sulla domanda aggregata, alla persistenza di una disoccupazione involontaria di massa. È solo per questo motivo che l’indebitamento pubblico può effettivamente “ipotecare il futuro” della nazione. La disoccupazione corrente provoca infatti un danno irreversibile anche alle generazioni future attraverso la mancata produzione corrente di case, impianti e attrezzature – un processo cumulativo di mancata crescita dello stock di capitale della nazione e, potremmo aggiungere, di mancata crescita sociale e di coscienza di classe, per la quale le generazioni future dovranno ringraziare i governanti dei loro nonni e bisnonni.

 

2. Oggi quindi, come dovremmo gestire il nostro debito pubblico (salito al 132% del PIL a causa dell'austerità), mettendolo al servizio di una seria politica economica?

 

Una gestione del nostro debito pubblico funzionale a una distribuzione più equa del reddito e al riassorbimento della disoccupazione non può ovviamente consistere di tagli alle voci principali della spesa pubblica per beni e servizi: sanità, istruzione, pensioni, trasporti, edilizia. Dovrebbe piuttosto concentrarsi sulle forme del loro finanziamento e sul livello dei tassi di interesse a cui viene servito il debito. Il contenimento nel tempo della sua crescita e degli effetti distributivi perversi della finanza pubblica sopra ricordati andrebbe perseguito attraverso il ripristino di una marcata progressività del sistema impositivo, il controllo persistente dei tassi di interesse interni e il recupero della possibilità di monetizzare in tutto o in parte i disavanzi pubblici necessari al riassorbimento della disoccupazione. Ciò in pratica significa guardare alla sovranità monetaria e fiscale del paese come alla condizione necessaria di una gestione del debito pubblico appropriata alla redistribuzione del reddito prodotto e alla sua crescita stabile. Il ruolo della crescita stabile è di importanza fondamentale: essa non soltanto tende a ridurre il rapporto tra debito pubblico e PIL accrescendo il denominatore, ma è fonte di entrate tributarie addizionali in grado di finanziare in larga parte la spesa complessiva. Oggi in Italia, sommando i disoccupati e le forze di lavoro scoraggiate, le persone che vorrebbero lavorare sono pari a 6,5 milioni. Vi sono poi da considerare i sotto-occupati involontari. Con un prodotto per occupato di circa 65 mila euro, l’impiego di anche solo 3 milioni di lavoratori assicurerebbe nuova produzione per 200 miliardi di euro, e, a sistema di prelievo invariato, nuove imposte per almeno 100 miliardi di euro. Si tratta di un'indicazione di massima, utile tuttavia a chiarire che la strada che conduce alla riduzione del rapporto tra debito pubblico e PIL è proprio la spesa pubblica in disavanzo, non l'austerità che finisce di fatto per ridurre il PIL più di quanto riduca il ricorso al debito pubblico.

 

3. Cosa ci impedisce di fare quanto proponete? I vincoli europei, i rapporti di forza sfavorevoli con l'estero, la mancanza da parte dei politici di una visione alternativa delle cose?

 

Da una parte i vincoli europei e la mancanza di una reale volontà da parte di tutta la classe politica italiana di emanciparsi da quei vincoli. Dall’altra, e più in generale, il fatto che una seria politica economica di pieno impiego e redistributiva oggi solleverebbe comunque, se non sufficientemente condivisa dai principali partner commerciali del paese, problemi di bilancia dei pagamenti tali da imporne l’abbandono a meno di controlli severi delle transazioni con il resto del mondo. Ma il liberismo è ormai così profondamente radicato che una politica non ortodossa di gestione del vincolo esterno è oggi pressoché da tutti respinta come “protezionistica”, essendo percepita come l'avvio di una china autarchica che condurrebbe inesorabilmente il paese ad un Medioevo economico e sociale. Questo modo terroristico di porre la questione occulta il fatto che un regime di controlli delle transazioni con l'estero non implica un disperato isolamento autarchico in cui finiremmo per privarci di tutti i beni che oggi importiamo. Parte di essi sarebbero prodotti all'interno; di altra parte faremmo a meno senza troppa fatica; di altra parte ancora (ciò che non possiamo produrre ma di cui abbiamo necessità) ci riforniremmo importando. Bisogna insomma tornare a far prevalere l'idea che tutto ciò che possiamo produrre all'interno deve essere prodotto dalle nostre forze di lavoro. Parlare di politiche di pieno impiego negando questa premessa significa parlare del nulla.

 

4. Rimaniamo sulle relazioni con l'estero, che nella vostra riflessione hanno un ruolo importante nel determinare il successo di una politica economica. Oggi un protezionismo temperato è utile? Può avere successo? Anche in un solo paese?

 

Non è semplicemente utile, è indispensabile se si vogliono appunto perseguire politiche di pieno impiego e redistributive. Ritorniamo sul punto centrale: quanto più solo fosse in Europa il paese che, magari costrettovi dalla necessità di contenere gravi rischi di instabilità sociale interna, decidesse di perseguire una seria politica di pieno impiego, tanto più severe dovrebbero essere le misure che quel paese dovrebbe adottare per limitare la libertà di movimento dei capitali, delle merci e della manodopera. Viceversa, restando comunque necessario il controllo dei movimenti di capitali e dell’immigrazione, la necessità di controlli delle transazioni commerciali sarebbe estremamente minore nel caso di un coordinamento in senso espansivo delle politiche economiche dei principali paesi europei. Questo perché, dato l’elevato grado di integrazione esistente tra le loro economie, ciascuno di essi potrebbe contare sulla maggiore crescita delle proprie esportazioni prodotta dall’orientamento espansivo impresso alla politica economica anche dagli altri. Al riguardo, un punto da non trascurare è che le condizioni politiche che consentirebbero di attuare una politica economica espansionistica in un singolo paese dotato di sufficiente peso ed influenza difficilmente non troverebbero eco in altri paesi. Agitando lo spauracchio dell' “andar da soli” si serra di fatto un blocco che impedisce ad uno e quindi a più paesi di svincolarsi.

 

5. L'espressione "interesse nazionale" è messa al bando da decenni. La sinistra la rifiuta in quanto "fascista", la destra liberale in quanto "datata", la destra radicale la rivendica ma senza uscire dal recinto di una logica neoliberale (basta leggere i programmi di partiti come Alternativa per la Germania e del Partito per la Libertà olandese). Di fronte a questa confusione come dobbiamo intendere l'interesse nazionale oggi?

 

Per interesse della nazione dovrebbe intendersi il benessere della maggioranza della sua popolazione. Questo non può essere perseguito in condizioni di svuotamento dei poteri dello Stato-nazione in campo economico, non compensato dalla costituzione di un potere sovranazionale politicamente responsabile del benessere delle diverse popolazioni coinvolte. Ora, se è vero che un potere sovranazionale politicamente responsabile è una chimera, è vero altresì che il recupero della sovranità nazionale non è che una condizione necessaria al benessere della maggioranza della popolazione, nel senso che senza sovranità nazionale in campo economico le cose che contano semplicemente non si possono fare. Da questo punto di vista, recuperare l'interesse nazionale significa null'altro che porre fine all'esclusione dei ceti popolari dalla gestione dell’indirizzo politico complessivo dello Stato. Oggi quando si parla di crisi dello Stato è per affermare l’idea che a monte vi sia la mondializzazione (identificata con il progresso) e che a valle vi sia la fine della rappresentanza democratica come conseguenza inevitabile. È un’idea falsa da rifiutare. La mondializzazione e il progresso non sono affatto la stessa cosa. E bisogna prendere consapevolezza del fatto che la crisi dello Stato inizia ‘dal basso’. Da questo rovesciamento di prospettiva discendono importanti conseguenze.  In primo luogo, che sono possibili diversi indirizzi politici complessivi, questa diversità dipendendo sostanzialmente dal grado di influenza politica che i ceti popolari riescono a conquistare.  In secondo luogo, che della ‘perdita di potere dello Stato’ sono responsabili proprio i partiti politici di sinistra, che dei ceti popolari avrebbero dovuto promuovere le istanze sino a condizionare l’indirizzo politico generale dello Stato, ma che invece si sono fatti fautori e gestori di un assetto che avrebbero dovuto avversare, con l’inevitabile conseguenza di vedersi infine privati anche del consenso. E' proprio perché neghiamo la presunta ineluttabile perdita di centralità della politica che noi richiamiamo la sinistra alle sue responsabilità.

 

6. La sinistra si è quindi suicidata, dimenticando più o meno consapevolmente lotta di classe e prospettiva nazionale. C'è qualcuno che oggi difenda le classi subalterne, in Italia ed in Europa? Lo fa coerentemente e con le ricette giuste?

 

In Italia sicuramente no. Negli altri principali paesi europei – in Francia, in Germania e in Inghilterra – c’è qualcosa tanto a sinistra che all’estrema destra dello spettro politico che però non riesce a coagularsi in un blocco consapevole, capace di imporre una svolta di 180 gradi nella politica economica nazionale. Tanto a sinistra che nella destra radicale, ad esempio, vi sono diffuse incertezze analitiche circa il progetto europeo, e, specialmente a sinistra, incertezze nei confronti del problema dell’immigrazione, ossia della dimensione della mondializzazione più immediatamente e ‘fisicamente’ percepita dai ceti popolari. Più in generale, manca la consapevolezza dell'impossibilità di perseguire politiche di pieno impiego nel quadro della libera circolazione di capitali, merci, uomini. Non si percepisce l'urgenza di riattivare un circuito virtuoso in cui Stato e lavoratori si rafforzano – invece che indebolirsi – l'uno con gli altri. In breve, manca anche solo un abbozzo di linea politica, ovvero un minimo di visione organica dei nessi fondamentali tra mercato del lavoro, ruolo dello Stato come regolatore dell'economia di mercato e relazioni economiche internazionali. Non stupisce come in questo vuoto politico e programmatico la difesa delle classi subalterne si sia trasformata nelle mance dei 'redditi minimi', miranti a comprare consenso a prezzi di saldo e rendere il regresso sociale compatibile con la stabilità sociale.

 

7.  I governi socialisti sono stati il primo esperimento "di sinistra di potere" nell’Italia repubblicana, sebbene all'insegna di un approccio spregiudicatamente industriale e confindustriale, e sono stati anche i primi governi favorevoli all’accoglienza senza se e senza ma. E’ però vero che l’Italia del 1990 era un paese che produceva, un Paese nel quale l'emigrante aveva una buona speranza di migliorare la propria condizione attraverso il lavoro. Oggi però gli immigrati arrivano in un Paese in cui il lavoro semplicemente non c'è. L’assenza di riflessione su questo punto ha fatto impazzire la sinistra che si è spaccata in due posizioni opposte, quella della boldriniana accoglienza per partito preso (accogliamo perché siamo di sinistra) e quella renziana di chiusura (in definitiva) totale. Quale potrebbe essere lo spunto per iniziare una riflessione organica sull’immigrazione, e per produrre una posizione di sinistra, al di là delle parole d’ordine e delle analisi improduttive dei salotti televisivi?

 

In realtà l’Italia non è mai stato un paese nel quale gli emigranti potevano trovare delle solide opportunità di migliorare stabilmente la loro condizione attraverso il lavoro. Non va perso di vista al riguardo che il nostro paese non ha mai conosciuto vere politiche di pieno impiego e che anche nel corso dei “Trenta gloriosi” la disoccupazione vi è sempre rimasta più elevata che nel resto del capitalismo avanzato. Certo, oggi la situazione è drammaticamente peggiorata e il lavoro, appunto, semplicemente non c’è. Noi pensiamo che una riflessione seria sull’immigrazione dovrebbe partire dal riconoscimento dell’ostilità nei confronti del fenomeno da parte dei ceti popolari di tutta Europa. Si tratta di un’ostilità ormai così evidente e a tal punto solidamente fondata nell’esperienza di vita quotidiana – sia in Francia e in Germania che in Inghilterra e in Italia – da potersi affermare che in Europa una rinascita della sinistra passa per la sua convinta conversione alla chiusura, ossia passa per il riconoscimento che l’arrivo di manodopera straniera è sì profittevole per le imprese ma proprio perché contribuisce a deprimere i salari e incide negativamente sulle condizioni di lavoro; inoltre, che esso mette sotto pressione la scuola e il sistema sanitario e abitativo, peggiorando sempre di più le condizioni di vita nei quartieri popolari. A partire da questo riconoscimento, l’attenzione dovrebbe quindi concentrarsi sui diversi tipi di misure che andrebbero prese, ossia su come concretamente realizzare la chiusura. Alle ‘sensibilità’ di sinistra che si scandalizzano di fronte a questi discorsi poniamo il seguente quesito: per quale motivo con circa 7 milioni di disoccupati abbiamo bisogno di alimentare con l’immigrazione un esercito di schiavi moderni super sfruttati e sottopagati?

 

8. Della “scomparsa della sinistra” è chiaro il come, dal vostro testo. Rimane ancora in parte oscuro il perché. Voi dite che non si trattò di semplice opportunismo politico né individuale, anche se la sinistra abbandonò la lotta in nome della “governabilità”. Il vago concetto di subalternità culturale non sembra però spiegare così bene i moventi che hanno portato la sinistra ad abbandonare i temi del lavoro e dei lavoratori. L'idea che una “seconda sinistra”, foucoultiana, concentrata sui diritti civili e digiuna di marxismo economico, abbia prevalso è interessante. È possibile che ci sia dietro anche però una semplice omologazione ad un più forte e pervasivo spirito dei tempi, individualista e antistatalista? Era inevitabile o in che misura è stato scelto?

 

Le basi culturali dell’azione politica di tutta la sinistra europea dalla fine della seconda guerra mondiale alla grande svolta di politica economica dei primi anni Ottanta furono contrassegnate da un’assenza di dimestichezza con la critica dell’economia politica e dalla scarsa conoscenza scientifica dei limiti del capitalismo. Ciò ostacolò seriamente la capacità della sinistra di prefigurare autonomamente dei rimedi per poi cercare di imporne l’adozione. Si può dire che nel primo trentennio postbellico principali elementi della forza della sinistra furono l’esistenza dell’URSS e le sue realizzazioni, e che essenzialmente alla minaccia della sovversione comunista si dovette dopo la guerra lo stesso prevalere in Europa di classi politiche e dirigenze statali progressiste, spesso capaci di fare buon uso di una cultura borghese illuminata di cui il keynesismo costituì la componente principale. La stessa sinistra con responsabilità di governo andò allora a rimorchio della cultura sociale della borghesia illuminata, contribuendo alla sua traduzione in impianti di politica economica. All’estinzione della minaccia della sovversione comunista si ‘estinse’ in Europa anche la borghesia illuminata, insieme alla sua cultura economica e sociale progressista. E non appena quella cultura finì definitivamente in soffitta all’inizio degli anni Ottanta, iniziò a sparire anche la sinistra: il neoliberismo della borghesia divenne anche la sua cultura, con l’aggiunta di qualche orpello multiculturalista e di qualche feticcio libertario di conflitto politico.

 

9. Uno dei vostri tanti obiettivi polemici, nel libro, è la teoria della decrescita. Il problema è ancora oggi, nel mondo dell'abbondanza (dove i poveri fanno la fame e contemporaneamente la coda per l'iPhone), crescere cioè produrre? Oppure redistribuire? Quali beni e servizi dovremmo produrre?

 

Anche il principale teorico della decrescita, il francese Serge Latouche, riconosce che un semplice rallentamento della crescita “sprofonda le nostre società nello sgomento, aumenta i tassi di disoccupazione e precipita l’abbandono dei programmi sociali, sanitari, educativi, culturali e ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita”. Insomma, se non c’è crescita per le classi popolari è una tragedia. Una società il cui modo di produzione fosse finalizzato al soddisfacimento dei bisogni della collettività, e non al profitto, potrebbe forse porsi il problema se, piuttosto che alla crescita economica, non sarebbe meglio puntare a una composizione della produzione e dei consumi il più consona possibile al miglioramento della qualità della vita e alla crescita culturale della popolazione. Ma una simile economia centralmente pianificata presuppone ovviamente la fuoriuscita dal sistema capitalistico, i cui limiti e contraddizioni, seppure mai come oggi così evidenti, non contribuiscono a rendere meno utopistica. Nel sistema capitalistico, crescita e redistribuzione sono due facce della stessa medaglia, risultando entrambe possibili solo in un contesto di accresciuto potere politico dei salariati. Con la crescita si riduce la disoccupazione, e con la riduzione della disoccupazione aumenta la possibilità per i salariati di esercitare più ampie pretese sul prodotto sociale (sia sul piano del salario diretto, che su quello del salario indirettamente percepito nella forma di trasferimenti e spesa pubblica). Questi mutamenti nella distribuzione favoriscono a loro volta, in un circuito virtuoso, la domanda aggregata e quindi la crescita. Naturalmente, l'innalzamento del tenore di vita come fenomeno socialmente diffuso è inevitabilmente anche fattore di generale innalzamento culturale, e quindi di qualificazione delle scelte di consumo. Oggi accade esattamente l'inverso. La crescita viene frenata dall'austerità per preservare e accrescere il mutamento distributivo avverso al lavoro che si è verificato nel corso degli ultimi decenni. All'aumentare della disoccupazione e della concentrazione dei redditi segue inevitabilmente l'arretramento sociale e culturale, e quindi il degrado degli stili di consumo, chiaramente visibile in tutti gli strati sociali, anche se per i ceti popolari ci sembra più opportuno parlare di bisogni primari insoddisfatti piuttosto che di scelte di consumo irresponsabili. In sintesi, la priorità è innescare un meccanismo di crescita economica e sociale: questo tenderà di per sé a produrre consumatori più consapevoli e responsabili.

 

10. Per concludere: la sinistra in Europa ha accompagnato lo sviluppo dei Trenta Gloriosi (1946-79) e favorito la regressione dei Quaranta Pietosi (1979-2017); ma né in un caso né nell'altro è stata determinante nell'innescare un cambiamento. Serve a qualcosa, allora, la sinistra? Da dove ripartire?

 

Mai come oggi servirebbe in Europa una sinistra capace di mettere al centro della sua attenzione le questioni di classe, la difesa dei salariati e dei ceti popolari attraverso il rilancio dello Stato e del pubblico. Il problema, come abbiamo già osservato, è che il capitalismo riuscì in passato a dare qualche buona prova di sé solo sotto la minaccia della sovversione comunista, che lo costrinse ad adoprarsi nella difesa dell’ordine borghese mostrando di essere in grado di curarne le principali piaghe storiche: disoccupazione di massa, enormi disuguaglianze, povertà diffusa. La presenza di questi fattori oggettivi di affermazione di istanze di riforma in senso socialista della società non sembra più in grado in Europa di tradursi in lotta politica consapevole. Nonostante la rinnovata esplosione delle disuguaglianze e il suo pessimo andamento, oggi il capitalismo non si sente più minacciato né dall’esterno né dal suo interno. Ciò che rimane è solo il fatto che, come insegna l’esperienza storica, ogni contesto può essere rapidamente cambiato da circostanze del tutto impreviste … sì, ma in che direzione?

 

Le armi passano di mano dalla CIA all’ISIS in meno di due mesi

Come documenta Zero Hedge, i media mainstream fingono di accorgersi solo oggi che le armi segretamente fornite dal governo USA ai ribelli siriani finivano regolarmente nelle mani dei terroristi islamici. Dopo aver ridicolizzato in passato qualsiasi legame tra il sostegno USA ai “ribelli moderati” e gli armamenti a disposizione dei terroristi, oggi riconoscono lo schema, riducendolo però a un disguido dovuto a carenze nei controlli. In realtà che il flusso di armi dal governo americano ai ribelli passasse da questi all’ISIS era noto almeno dal 2014, e nonostante ciò l’intelligence americana alla guida di Obama continuava ad alimentarlo, sperando che potesse servire per destabilizzare il legittimo governo siriano di Assad.

 

 

Di Zero Hedge, 15 Dicembre 2017

 

 

I media mainstream nel 2013: "Complottisti!"

I media mainstream nel 2017: "l’ISIS ha un potente missile acquistato dalla CIA!"

 

 

Con anni di ritardo, i media mainstream come USA Today, la Reuters e BuzzFeed pubblicano “attualissimi” ed “esclusivi” report che dettagliano come un vasto arsenale militare inviato in Siria dalla CIA in collaborazione con alleati USA ha alimentato la rapida crescita dell’ISIS. La storia raccontata da BuzzFeed si intitola “Effetto Boomerang: l’ISIS ha un potente missile che la CIA aveva segretamente acquistato in Bulgaria”, e comincia facendo riferimento a un “nuovo rapporto su come l’ISIS ha costruito il suo arsenale, che sottolinea come le munizione comprate dagli Stati Uniti, destinate ai ribelli siriani, siano finite nelle mani di gruppi di terroristi”.

 

La storia originale a cui fanno riferimento BuzzFeed e altri media arriva da una organizzazione indipendente di ricerca sugli armamenti con sede nel Regno Unito, nota come Ricerca sugli Armamenti dei Conflitti (CAR), che ha impiegato un team di esperti in armi e munizioni sul campo del Medio Oriente per anni, per esaminare armi ed equipaggiamenti recuperati dall’ISIS e da altri gruppi terroristi in Iraq e in Siria. Grazie ai numeri seriali, ai numeri di spedizione sugli imballaggi e ad altri dati affidabili disponibili, gli esperti del CAR hanno iniziato a determinare che fin dal 2013 e 2014 buona parte dei sistemi avanzati di armamenti dello Stato Islamico erano chiaramente stati acquistati dagli Stati Uniti e dall’Occidente.

 

“Il rifornimento di materiale nell’ambito del conflitto siriano da parte di paesi stranieri – in particolare gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita – ha permesso indirettamente all’ISIS di ottenere sostanziali quantità di munizioni anti-corazza” dice il rapporto del CAR. “Queste armi includono missili guidati anti-carro e molte varietà di razzi con doppie testate, progettate per penetrare le moderne corazze difensive”.



Fonte della foto: CAR



Un missile PG-9 modificato per adattarsi a un sistema lanciarazzi Modello 2. Prodotto nel 2016 in Romania, esportato negli Stati Uniti e ritrovato a Mosul nel Settembre 2017. Fonte: CAR

 

Lo studio rivela inoltre che in un caso particolare, la consegna di un sistema missilistico avanzato, le attrezzature sono passate di mano dall’intelligence USA ai gruppi “moderati” siriani e da questi all’ISIS in due mesi. Benché questo rapporto stia suscitando shock e confusione tra gli esperti, lo stesso gruppo di ricerca sugli armamenti in realtà aveva pubblicato rapporti simili e simili conclusioni riguardo al conflitto in Siria già anni fa.

 

Per esempio, un precedente rapporto del CAR del 2014 rivelava che missili anti-carro di origini balcaniche che erano stati recuperati da combattenti ISIS erano identici a quelli inviati nel 2013 a forze ribelli siriane nell’ambito di un programma della CIA.

 

E le schiaccianti pubblicazioni del CAR che rivelavano questi antipatici fatti sono andate avanti per anni, ma sono state per lo più ignorate e sottaciute dagli analisti e dai media mainstream, troppo occupati a celebrare il sostegno USA ai “ribelli” siriani, dipinti come romantici rivoluzionari che lottano per sconfiggere Assad e il suo governo di nazionalisti secolari. Naturalmente, questa storia è vecchia per chi legge Zero Hedge o gli innumerevoli rapporti indipendenti che hanno da tempo rivelato la verità riguardo alla “guerra sporca” segreta condotta in Siria fin dall’inizio.

 

Anche se all’improvviso è diventato accettabile e attraente ammettere – come fa un recente titolo della BBC (“I Jihadisti che pagate”) – che il programma segreto degli USA e dell’Arabia Saudita in Siria ha alimentato l’ascesa dell’ISIS e di altri gruppi terroristi legati ad Al-Qaeda, bisogna ricordare che solo poco tempo fa i media mainstream mettevano apertamente alla berlina gli analisti e gli scrittori che osavano mettere in relazione il massiccio e segreto programma occidentale di aiuto ai ribelli siriani con gli insorti di Al-Qaeda che ne avevano così chiaramente beneficiato.

 

Quando era giunta alla ribalta la notizia del rapporto della Defence Intelligence Agency del 2012 – che descriveva il “Principato Salafita” o lo “Stato Islamico” come una risorsa strategica che avrebbe potuto essere utilizzata dalla coalizione occidentale in Siria “per isolare il regime siriano”, i media americani respinsero quella che ai tempi venne etichettata come una “teoria complottistica” nonostante fosse provata da un rapporto dell’intelligence USA reso disponibile al pubblico.

 

Per esempio il Daily Beast  ridicolizzò quella che definì la “Teoria Complottistica ISIS che ha inghiottito il Web” – arrivando a descrivere coloro che analizzavano il documento di intelligence del Pentagono come degli squilibrati di estrema destra o estrema sinistra. E questo nonostante il documento venisse preso molto seriamente e analizzato in profondità da alcuni dei migliori esperti mondiali del Medio Oriente e da giornalisti investigativi di testate estere come il London Review of Books, The GuardianDer Spiegel , così come RT e Al Jazeera.

 



Gli errori del Daily Beast del 2015

 

E invece ancora una volta le “teorie complottiste” si sono confermate “fatti complottisti”: il nuovo report del CAR uscito questa settimana è il risultato di tre anni di indagini sul territorio che hanno prodotto prove su 40.000 oggetti militari recuperati dall’ISIS tra gli anni 2014 e 2017. Le sue conclusioni sono scientifiche, esaustive e irrefutabili.

 



 

Il lungo rapporto conferma quanto venne affermato da Alastair Crooke, ex spia dell’MI6 e diplomatico inglese – ossia che la CIA ha stabilito le basi per una sorta di “supermercato jihadista” – al quale l’ISIS ha un accesso semplice e immediato. Crooke notava che il programma di armamenti era impostato avendo in mente una “negazione plausibile”, il che avrebbe permesso ai suoi sponsor dell’intelligence americana di essere protetti da qualunque futura persecuzione legale o imbarazzo pubblico. In un’intervista del 2015 alla BBC, Crooke faceva notare che “l’occidente non consegna le armi direttamente ad al-Qaeda e nemmeno all’ISIS… ma il sistema che ha costruito ha precisamente questo fine”.

 

Questo meccanismo permette a BuzzFeedUSA Today, e altri di pubblicare la notizia bomba, ma di continuare a smorzare il suo significato, enfatizzando aspetti come le “carenze nella vigilanza e nella regolamentazione” e contemporaneamente sottolineando la natura “accidentale” del fatto che i missili forniti dagli USA siano “finiti” nelle mani dei terroristi dell’ISIS.

 

Il taglio dato da BuzzFeed del rapporto del CAR sugli armamenti è sintetizzato dall’introduzione al relativo articolo.

 

“Un missile anticarro teleguidato è finito nelle mani dei terroristi dell’ISIS meno di due mesi dopo che il governo USA l’aveva acquistato, alla fine del 2015 – fatto che evidenzia le carenze nella vigilanza e nella regolamentazione del programma segreto americano di armamenti, secondo le informazioni pubblicate giovedì dal gruppo di monitoraggio delle armi CAR.

 

Nonostante il rapporto dica che il missile è stato acquistato dall’esercito USA tramite un contrattista, BuzzFeed News ha appreso che il vero cliente sembra essere stato la CIA. Il missile fa parte dell’operazione top-secret dell’agenzia di spionaggio per armare i ribelli in Siria in opposizione alle forze del Presidente Siriano Bashar al-Assad. Il missile è finito nelle mani dei combattenti dell’ISIS in Iraq, secondo il rapporto.

 

La CIA non ha voluto rilasciare commenti riguardo al programma, risalente all’era Obama e che è stato cancellato dal Presidente Trump in luglio, di sostenere i ribelli siriani. Il Pentagono non ha fornito informazioni in tempo perché venissero pubblicate.

 

Il missile è il pezzo di un puzzle critico, che viene risolto solo ora che l’ISIS è in rotta: come ha fatto il vasto gruppo terrorista ad armare la sua macchina da guerra? Il CAR ha impiegato tre anni per seguire le tracce delle armi dell’ISIS quando venivano recuperate dalle forze di Iraq, Siria e dai Curdi – e ha scoperto che quanto avvenuto per il missile non è un’eccezione. Al contrario, il gruppo terroristico è riuscito a mettere le mani su “sostanziali quantità di munizioni anti-corazza” provenienti da armi fornite alle forze di opposizione siriane dagli USA o dall’Arabia Saudita”.

 



 

Il missile anti-carro recuperato dall’ISIS nel febbraio 2016. Veniva dall’esercito USA nel dicembre 2015. Fonte dell’immagine: CAR, “Armi dello Stato Islamico” via BuzzFeed

 

Ma qualche astuto osservatore potrebbe aver notato l’importanza della data di acquisto da parte della CIA del missile anti-carro in esame: “Un missile guidato anti-carro è finito nelle mani dei terroristi dell’ISIS meno di due mesi dopo che il governo USA l’aveva acquistato alla fine del 2015”. Come precedentemente sottolineato, il gruppo di esperti del CAR aveva già documentato il trend di armi consegnate dalla CIA sul territorio di guerra siriano e finite ai combattenti dell’ISIS fin dal settembre 2014. Oltre a questo studio del 2014, un flusso apparentemente infinito di articoli di anni prima, pubblicati da media indipendenti e internazionali, hanno sottolineato il fatto che l’ISIS cresceva e prosperava grazie alle spedizioni di armi segrete da parte dell’occidenti e degli stati del Golfo.

 

Ciò significa che la CIA e gli analisti del governo sapevano perfettamente dove finivano le armi in tempo reale, ma proseguivano ugualmente il loro programma. Come disse a Mehdi Hasan di Al Jazeera l’ex capo dell’intelligence del Pentagono Michael Flynn in un’intervista incredibilmente trasparente nell’estate del 2015 (molto prima che Flynn facesse parte della campagna di Trump), il sostegno della Casa Bianca ai radicali jihadisti (che sarebbero poi emersi come ISIS e al-Nusra/HTS) contro il governo siriano era quasi certamente “una decisione intenzionale”.

https://www.youtube.com/watch?v=y1oEoCRkLRI&feature=youtu.be

Perciò il generale Flynn nell’estate del 2015, nelle vesti di ufficiale militare da poco in pensione, metteva in guardia in maniera esplicita sul fatto che le armi fornite dagli USA in Siria stavano finendo all’ISIS, ad al-Qaeda, e ad altri jihadisti. Tutto questo era talmente noto a quei tempi che poteva essere dichiarato apertamente da un ufficiale di alto rango in pensione in un importante programma televisivo internazionale. Flynn dichiarò anche qualcosa di simile sia al Seymour Hersh, sia al New York Times nel 2015.

 

Ma cosa fecero la CIA e le agenzie di intelligence alleate? Continuarono ad armare gli insorti jihadisti in Siria, tentando di rovesciare Assad. Questa fu davvero una “decisione intenzionale” come affermato da Flynn a non semplicemente “carenze nella sorveglianza e nella regolamentazione” come BuzzFeed vorrebbe ora farci credere.

 

19/12/17

“È una bolla”: le autorità di regolamentazione avvertono “per comprare Bitcoin ormai vengono contratte ipoteche”

Zerohedge informa sui preoccupanti sviluppi del fenomeno Bitcoin negli Stati Uniti: la febbre dell'oro virtuale ha ormai raggiunto la soglia maniacale caratteristica delle bolle speculative, e comuni risparmiatori arrivano a ipotecare la casa per comprare criptovalute. Tra i mille interrogativi che pone una moneta avulsa da qualsiasi controllo statale, ora vi è anche capire quali potrebbero essere le conseguenze, e a chi gioverebbe una bolla speculativa di simili dimensioni, proprio adesso che si delineano tutti i segnali di un ulteriore prossimo crollo finanziario globale.

 

 

 

 

di Tyler Durden, 11 dicembre 2017

 

 

Mentre il mondo degli investimenti continua a discutere se i Bitcoin siano un’accettabile riserva di valore o nient'altro che un’enorme bolla, seconda soltanto alla bolla olandese dei tulipani del 1600, nuove informazioni rivelate dal Presidente del North American Securities Administrators Association tenderebbero a dare credito a quest'ultima ipotesi.

 

Joseph Borg, direttore della Alabama Securities Commission, ha affermato che il Bitcoin è chiaramente entrato nella sua “fase di bolla": ci sono persone che ora sottoscrivono prestiti al consumo con ipoteca e anticipi in contanti sulle carte di credito per acquistare la valuta digitale, nella speranza di arricchirsi velocemente.

"Abbiamo visto mutui contratti per comprare bitcoin... Le persone usano carte di credito, ipoteche sulla casa", ha detto Borg, presidente della North American Securities Administrators Association, un'organizzazione di volontariato rivolta alla protezione degli investitori. Borg è anche direttore della Alabama Securities Commission.

"Questo non è un tipo di investimento che dovrebbe interessare qualcuno che guadagna 100.000 dollari all'anno, ha un mutuo e due figli al college".

"Una volta arrivati su questa curva speculativa, prima o poi si giunge ad uno stallo. Le criptovalute sono un fatto acquisito, la Blockchain è un fenomeno destinato a durare nel tempo. Che sia Bitcoin o altro, non lo so" dice Borg in un'intervista a "Power Lunch".

 

Di certo c’è che, come abbiamo registrato alcuni mesi fa, Jamie Dimon di JP Morgan è stato tra i critici più espliciti del Bitcoin, e ha spesso espresso il suo scetticismo sul fatto che i governi internazionali possano permettere la sua sopravvivenza in modo significativo dopo che qualcuno inevitabilmente "ci resterà secco"...”

Parlando alla CNBC nel corso della giornata, Dimon ha dichiarato di essere scettico sul fatto che i governi permetteranno che una moneta possa esistere senza una supervisione statale: "Qualcuno si farà del male e a quel punto il governo interverrà", ha dichiarato. "Si è appena visto in Cina, i governi preferiscono controllare il loro denaro.”

"Stiamo sprecando tempo con Bitcoin! La moneta virtuale, se si chiama Bitcoin e non dollaro USA, verrà eliminata", ha affermato Dimon. "Nessun governo sosterrà mai una valuta virtuale che supera i confini e non è sottoposta agli stessi controlli. Non succederà.”

"Blockchain è come qualsiasi altra tecnologia. Se è più economica, efficace, funzionale e sicura, allora potrà servire. La tecnologia verrà utilizzata e potrebbe esserlo per le transazioni in valuta, ma saranno dollari, non Bitcoin".

 

...forse gli americani stanno facendo leva sul loro più grande asset nel bel mezzo di un'altra bolla immobiliare, solo per voltarsi indietro e acquistare quello che potrebbe benissimo diventare una bolla ancora più grande, sono queste le persone a cui Dimon si riferiva?

KTG - In una struggente lettera a Babbo Natale, un bambino greco chiede tanto da mangiare

Keep Talking Greece pubblica la lettera di un bambino greco di una scuola elementare di Patrasso, nella quale chiede a Babbo Natale molto cibo. La lettera è stata rilanciata via Facebook da un'organizzazione umanitaria, scatenando una gara di solidarietà. Ma la triste situazione, come ricordano i volontari, è che quella lettera rappresenta la situazione di oltre un terzo dei bambini in Grecia, un paese in cui la fame è tornata a essere un pericolo concreto.

 

 

di Keep Talking Greece, 15 dicembre 2017

 

Tutti i bambini a cui è stato chiesto di scrivere una letterina per Babbo Natale hanno chiesto probabilmente la cosa più ovvia: i giocattoli. Ad eccezione di un bambino, Alexis, di 8 anni.

 



 

"Caro Babbo Natale, sono Alexis e sto facendo la quarta elementare. Sono stato un bambino bravo. Quest'anno vorrei che mi portassi molto cibo, così la mia mamma non dovrà più piangere. Non ha il lavoro. Se non puoi, vorrei che portassi un giocattolo a mio fratello che sta male. Ti voglio tanto bene", ha scritto il ragazzino.

 

La struggente lettera per Babbo Natale è stata scritta da un bambino in una scuola elementare di Patrasso, nella parte occidentale della Grecia.

 

Secondo tempo24.gr la lettera di Alexis è stata pubblicata dalla ONG [Organizzazione Non-Governativa, NdT] Shining Star (Foteino Asteri) che si occupa del benessere dei bambini, sul suo account Facebook.

 

Molti greci si sono offerti di aiutare la famiglia di Alexis.

 

Ma la lettera è solo indicativa della triste situazione in cui si trovano molti bimbi in Grecia, dove il 36,7% dei bambini è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

 

C'è sempre un Alexis nel vostro quartiere, nell'appartamento di fianco al vostro, nella classe o nella scuola di vostro figlio. Aiutate Alexis o fate una donazione a un'organizzazione di volontariato.

 

17/12/17

Gli USA posero fine alla Guerra Fredda mentendo alla Russia, e i russi non lo dimenticano

Dal blog Fabius Maximus, un documentato excursus dei dibattiti, degli incontri e delle rassicurazioni che portarono alla riunificazione della Germania e alla fine della Guerra Fredda, entrambe basate su una promessa non mantenuta: che la Nato non si sarebbe espansa ad Est oltre la Germania Federale. Un tradimento che i russi non hanno mai dimenticato.

 

di Larry Kummer, 16 dicembre 2017

 

Ndt: i documenti desecretati citati nel presente articolo sono quelli presentati nell'articolo di Svetlana Savranskaya e Tom Blanton, "Nato Expansion: what Gorbachev heard" (L'espansione della NATO: quello che Gorbachev ascoltò) sul National Security Archive.

 

La famosa rassicurazione sull'espansione della NATO, "non un altro pollice verso est", da parte del Segretario di Stato James Baker nel suo incontro con il leader sovietico Mikhail Gorbachev, il 9 febbraio 1990, faceva parte di una serie di garanzie sulla sicurezza sovietica, fornite dai leader occidentali a Gorbachev e agli altri funzionari sovietici nel processo di unificazione tedesca nel 1990 e nel 1991, secondo documenti declassificati statunitensi, sovietici, tedeschi, britannici e francesi pubblicati oggi dall'archivio di sicurezza nazionale presso la George Washington University.

 

I documenti mostrano che molti leader nazionali stavano considerando e rifiutando l'adesione dell'Europa centrale e orientale alla NATO dall'inizio del 1990 e durante il 1991, che le discussioni della NATO nel contesto dei negoziati di unificazione tedesca nel 1990 non erano affatto limitate allo status del territorio della Germania Orientale, e che le successive denunce sovietiche e russe sull'essere ingannati riguardo all'espansione della NATO furono trovate in memorandum e comunicazioni coeve, scritte ai più alti livelli.

 

I documenti rafforzano le critiche dell'ex direttore della CIA Robert Gates di "portare avanti l'espansione della NATO verso est [negli anni '90], quando Gorbachev e altri furono portati a credere che non sarebbe accaduto". [1] La frase chiave, sostenuta dai documenti , è "portato a credere".

 

Il presidente George H.W. Bush aveva assicurato Gorbachev durante il vertice di Malta del dicembre 1989 che gli Stati Uniti non avrebbero approfittato ("Non sono saltato su e giù dal muro di Berlino") delle rivoluzioni nell'Europa orientale per danneggiare gli interessi sovietici; ma né Bush né Gorbachev in quel momento (o se è per questo, il cancelliere della Germania Ovest Helmut Kohl) si aspettavano così presto il collasso della Germania Est o la velocità dell'unificazione tedesca. [2]

 

Le prime assicurazioni concrete sulla NATO da parte dei leader occidentali iniziarono il 31 gennaio 1990, quando il ministro degli esteri della Germania Ovest Hans-Dietrich Genscher lanciò l'offerta con un importante discorso pubblico sull'unificazione tedesca a Tutzing, in Baviera. L'ambasciata americana a Bonn (si veda il documento 1) informò Washington che Genscher aveva chiarito "che i cambiamenti nell'Europa orientale e il processo di unificazione tedesca non devono portare a una 'menomazione degli interessi sovietici sulla sicurezza'". Pertanto, la NATO dovrebbe escludere un 'espansione verso est, ossia un avvicinamento ai confini sovietici". Il cablogramma di Bonn prendeva anche atto della proposta di Genscher di lasciare il territorio della Germania orientale fuori dalle strutture militari della NATO anche in una Germania unificata nella NATO. [3]

 

Quest'ultima idea di status speciale per il territorio della RDT è stata codificata nel trattato finale di unificazione tedesca firmato il 12 settembre 1990 dai ministri degli esteri del Due-Più-Quatto (cfr. Documento 25). L'idea precedente di "più vicino ai confini sovietici" non è scritta nei trattati ma in più memorandum di conversazione tra i sovietici e gli interlocutori occidentali di più alto livello (Genscher, Kohl, Baker, Gates, Bush, Mitterrand, Thatcher, Major, Woerner e altri), nelle quali per tutto il 1990 e anche nel 1991 venivano fornite garanzie sulla protezione degli interessi sovietici sulla sicurezza e l'inclusione dell'URSS nelle nuove strutture di sicurezza europee. I due temi erano in relazione, ma non uguali. Le analisi successive a volte li confondevano e sostenevano che la discussione non coinvolgesse tutta l'Europa. I documenti pubblicati di seguito mostrano chiaramente che non è così.

 

Nel 1990, la "formula di Tutzing" divenne immediatamente il centro di una raffica di importanti discussioni diplomatiche nel corso dei successivi 10 giorni, che portarono al cruciale incontro a Mosca tra Kohl e Gorbachev il 10 febbraio 1990, quando il leader della Germania Ovest ottenne l'assenso sovietico in linea di principio all'unificazione tedesca nella NATO, fintanto che la NATO non si fosse espansa verso est. I sovietici avrebbero avuto bisogno di molto più tempo per lavorare con la loro opinione pubblica interna (e gli aiuti finanziari dei tedeschi occidentali), prima di firmare ufficialmente l'accordo nel settembre 1990.

 

Le conversazioni, prima della garanzia di Kohl, coinvolgevano una esplicita discussione sull'espansione della NATO, i paesi dell'Europa centrale e orientale e come convincere i sovietici ad accettare l'unificazione. Ad esempio, il 6 febbraio 1990, quando Genscher incontrava il ministro degli Esteri britannico Douglas Hurd, le registrazioni britanniche mostrano Genscher che sostiene che "i russi devono avere la certezza che se, ad esempio, il governo polacco abbandonasse un giorno il Patto di Varsavia, non aderirebbe alla NATO il giorno successivo" (si veda il Documento 2).

 

Avendo incontrato Genscher sulla strada verso il dibattito con i sovietici, Baker ripeté esattamente la formulazione di Genscher nel suo incontro con il ministro degli Esteri Eduard Shevardnadze il 9 febbraio 1990 (si veda Documento 4); e ancora più importante, nel faccia a faccia con Gorbachev.

 

Non una, ma tre volte, Baker recitò la formula "non un altro pollice verso est" con Gorbachev nell'incontro del 9 febbraio 1990. Concordò con la dichiarazione di Gorbachev in risposta alle rassicurazioni secondo cui "l'espansione della NATO è inaccettabile". Baker rassicurò Gorbachev che "né il Presidente né io intendiamo estorcere vantaggi unilaterali dai processi in corso", e che gli americani capivano che "è importante non solo per l'Unione Sovietica, ma anche per altri paesi europei avere garanzie che se gli Stati Uniti mantengono la loro presenza in Germania all'interno della struttura della NATO, l'attuale giurisdizione militare della NATO non si espanderà di un solo centimetro in direzione est. "(si veda documento 6)

 

In seguito, Baker scrisse a Helmut Kohl, che si sarebbe incontrato con il leader sovietico il giorno seguente, riprendendo gran parte dello stesso registro. Baker ha riferito: "E poi gli ho posto la seguente domanda [a Gorbachev]. Preferiresti vedere una Germania unita al di fuori della NATO, indipendente e senza forze statunitensi, o preferiresti una Germania unificata e legata alla NATO, con la garanzia che la giurisdizione della NATO non si sposterebbe di un pollice verso est dalla sua posizione attuale? Ha risposto che la leadership sovietica stava seriamente considerando tutte queste opzioni [...] Poi aggiunse: "Qualsiasi estensione della  NATO sarebbe certamente inaccettabile." Baker fra parentesi ha aggiunto, a beneficio di Kohl,"Per implicazione, La NATO nella sua zona attuale potrebbe essere accettabile" (si veda Documento 8).

 

Ben informato dal segretario di stato americano, il cancelliere della Germania Ovest comprese una delle  linee rosse sovietiche e assicurò a Gorbachev il 10 febbraio 1990: "Crediamo che la NATO non dovrebbe espandere la sfera della sua attività" (si veda Documento 9). Dopo questo incontro, Kohl riuscì a malapena a contenere la sua eccitazione per l'intesa di Gorbachev in linea di principio sull'unificazione tedesca e, all'interno della formula di Helsinki secondo cui gli stati sceglievano le proprie alleanze, così la Germania poteva scegliere la NATO. Kohl nelle sue memorie ha scritto di aver camminato per tutta la notte per Mosca - tuttavia comprendendo che c'era ancora un prezzo da pagare.

 

Tutti i ministri degli esteri occidentali erano allineati con Genscher, Kohl e Baker. Quindi venne il ministro degli Esteri britannico, Douglas Hurd, l'11 aprile 1990. A questo punto, i tedeschi dell'Est avevano votato in modo schiacciante per il marco tedesco e per una rapida unificazione, nelle elezioni del 18 marzo in cui Kohl aveva sorpreso quasi tutti gli osservatori con una vera vittoria. Le analisi di Kohl (spiegate a Bush per la prima volta il 3 dicembre 1989) che il crollo della DDR apriva tutte le possibilità, che doveva partecipare alle elezioni per prendere il controllo del treno, che aveva bisogno del sostegno americano, che l'unificazione poteva accadere più velocemente di quanto chiunque pensasse possibile - tutto si rivelò corretto. L'unione monetaria ci sarebbe stata già a luglio e le assicurazioni sulla sicurezza avrebbero continuato ad arrivare. Hurd rafforzò il messaggio Baker-Genscher-Kohl nel suo incontro con Gorbachev a Mosca, l'11 aprile 1990, affermando che la Gran Bretagna chiaramente "riconosceva l'importanza di non fare nulla che pregiudicasse gli interessi e la dignità sovietica" (si veda Documento 15).

 

La conversazione di Baker con Shevardnadze il 4 maggio 1990, per come Baker la descrisse nel suo rapporto al presidente Bush, mostrava nel modo più eloquente ciò che i leader occidentali stavano dicendo a Gorbachev proprio in quel momento: "Ho usato il tuo discorso e il nostro riconoscimento della necessità di adattare la NATO, politicamente e militarmente, e di sviluppare la CSCE per rassicurare Shevardnadze sul fatto che il processo non darebbe vita a vincitori e vinti. Invece, porterebbe a una nuova, legittima struttura europea, che sarebbe inclusiva, non esclusiva. "(si veda documento 17)

 

Baker lo disse di nuovo, direttamente a Gorbachev il 18 maggio 1990 a Mosca, consegnando a Gorbachev i suoi "nove punti", che includevano la trasformazione della NATO, il rafforzamento delle strutture europee, il divieto nucleare per la Germania e la considerazione degli interessi sovietici sulla sicurezza. Baker iniziò le sue osservazioni: "Prima di parlare brevemente della questione tedesca, volevo sottolineare che le nostre politiche non mirano a separare l'Europa orientale dall'Unione Sovietica. Questa politica l'avevamo prima. Ma oggi siamo interessati a costruire un'Europa stabile e a farlo insieme a voi" (si veda il Documento 18).

 

Il leader francese Francois Mitterrand non la pensava come gli americani, anzi al contrario, come dimostra la sua dichiarazione a Gorbachev a Mosca, il 25 maggio 1990, di essere "personalmente a favore del progressivo smantellamento dei blocchi militari"; ma Mitterrand ha continuato la serie delle rassicurazioni dicendo che l'Occidente deve "creare condizioni di sicurezza per voi, così come una sicurezza per l'Europa nel complesso" (si veda il Documento 19). Mitterrand scrisse immediatamente a Bush, in una lettera dai toni confidenziali sulla sua conversazione con il leader sovietico, che "non ci rifiuteremmo di dettagliare le garanzie che Gorbachev avrebbe il diritto di aspettarsi per la sicurezza del suo paese" (si veda Documento 20).

 

Al vertice di Washington del 31 maggio 1990, Bush fece di tutto per assicurare a Gorbachev che la Germania nella NATO non sarebbe mai stata diretta contro l'Unione Sovietica: "Credetemi, non stiamo spingendo la Germania verso l'unificazione, e non siamo noi che determiniamo il ritmo di questo processo. E, naturalmente, non abbiamo intenzione di danneggiare l'Unione Sovietica in alcun modo, nemmeno nei nostri pensieri. Questo è il motivo per cui stiamo parlando a favore dell'unificazione tedesca nella NATO senza ignorare il più ampio contesto della CSCE, prendendo in considerazione i tradizionali legami economici tra i due stati tedeschi. Un tale modello, a nostro avviso, corrisponde anche agli interessi sovietici" (si veda il Documento 21).

 

Anche la "Lady di ferro" vi prese parte, dopo il summit di Washington, nel suo incontro con Gorbachev a Londra l'8 giugno 1990. La Thatcher anticipò le mosse che gli americani (con il suo sostegno) avrebbero fatto nella conferenza NATO di inizio luglio per sostenere Gorbachev, con la descrizione della trasformazione della NATO verso un'alleanza più politica, meno militarmente minacciosa. Disse a Gorbachev: "Dobbiamo trovare il modo di dare all'Unione Sovietica la certezza che la sua sicurezza sarà garantita.... La CSCE potrebbe essere un ombrello per tutto questo, oltre ad essere il forum che ha portato l'Unione Sovietica pienamente all'interno della discussione sul futuro dell'Europa" (si veda il Documento 22).

 

La Dichiarazione di Londra della NATO del 5 luglio 1990 ebbe un effetto piuttosto positivo sulle decisioni a Mosca, secondo la maggior parte dei resoconti, fornendo a Gorbachev importanti munizioni per contrastare i sostenitori della linea dura al Congresso del Partito che si stava svolgendo in quel momento. Alcune versioni di questa storia affermano che una copia della dichiarazione fu fornita in anticipo agli assistenti di Shevardnadze, mentre altre parlano solo di un avviso che consentì a quegli assistenti di prendere la copia delle agenzie di stampa e di creare una valutazione sovietica positiva al riguardo prima che i militari o gli intransigenti potessero chiamarla propaganda.

 

Come Kohl disse a Gorbachev a Mosca il 15 luglio 1990, mentre elaboravano l'accordo finale sull'unificazione tedesca: "Sappiamo cosa attende la NATO in futuro, e penso che ora lo sappiate anche voi", riferendosi alla Dichiarazione di Londra della NATO. (si veda documento 23)

 

Nella telefonata a Gorbachev del 17 luglio, Bush intendeva rafforzare il successo dei colloqui tra Kohl e Gorbachev e il messaggio della Dichiarazione di Londra. Spiegò Bush: "Quindi quello che abbiamo cercato di fare è stato tenere conto delle vostre preoccupazioni, espresse a me e agli altri, e lo abbiamo fatto nei seguenti modi: con la nostra dichiarazione congiunta sulla non aggressione; nel nostro invito a venire alla NATO; nel nostro accordo di aprire la NATO a regolari contatti diplomatici con il vostro governo e quelli dei paesi dell'Europa orientale; e la nostra offerta per le garanzie sulle future dimensioni delle forze armate di una Germania unita - una questione che so che avete discusso con Helmut Kohl. Abbiamo anche cambiato radicalmente il nostro approccio militare alle forze convenzionali e nucleari. Abbiamo trasmesso l'idea di una CSCE ampliata e più forte con nuove istituzioni in cui l'Unione Sovietica possa condividere e far parte della nuova Europa" (Vedi Documento 24)

 

Risultati.

 

I documenti mostrano che Gorbachev accettò l'unificazione tedesca nella NATO come risultato di questa serie di assicurazioni, e sulla base della sua analisi che il futuro dell'Unione Sovietica dipendeva dalla sua integrazione con l'Europa, per la quale l'attore decisivo sarebbe stato la Germania. Lui e la maggior parte dei suoi alleati credevano che certe versioni della casa comune europea fossero ancora possibili e che si sarebbero sviluppate parallelamente alla trasformazione della NATO per condurre a uno spazio europeo più inclusivo e integrato, che l'accordo post-Guerra fredda avrebbe tenuto conto degli interessi sovietici sulla sicurezza. L'alleanza con la Germania non solo avrebbe fatto superare la Guerra Fredda, ma avrebbe capovolto anche l'eredità della Grande Guerra Patriottica.

 

Ma all'interno del governo degli Stati Uniti, proseguì una discussione diversa, un dibattito sulle relazioni tra la NATO e l'Europa orientale. Le opinioni divergevano, ma il suggerimento del Dipartimento della Difesa del 25 ottobre 1990 era di lasciare "la porta socchiusa" per l'adesione dell'Europa dell'Est alla NATO (si veda il documento 27). La visione del Dipartimento di Stato era che l'espansione della NATO non era all'ordine del giorno, perché non era nell'interesse degli Stati Uniti organizzare "una coalizione antisovietica" estesa fino ai confini sovietici, non ultimo perché avrebbe potuto invertire le tendenze positive in Unione Sovietica (si veda il documento 26). L'amministrazione Bush fece propria quest'ultima visione. E questo è quello che hanno sentito i sovietici.

 

Ancora nel marzo 1991, secondo il diario dell'ambasciatore britannico a Mosca, il primo ministro britannico John Major assicurò personalmente Gorbachev: "Non stiamo parlando del rafforzamento della NATO". Successivamente, quando il ministro della difesa sovietico, il maresciallo Dmitri Yazov chiese a Major dell'interesse dei leader dell'Europa orientale all'adesione alla NATO, il leader britannico rispose: "Non succederà nulla del genere" (si veda documento 28).

 

Quando i deputati del Soviet Supremo russo arrivarono a Bruxelles per vedere la NATO e incontrarono il segretario generale della NATO Manfred Woerner nel luglio del 1991, Woerner disse ai russi che "non dovremmo permettere [...] l'isolamento dell'URSS dalla comunità europea". Secondo il memorandum di conversazione russo, "Woerner ha sottolineato che il Consiglio della NATO e lui stesso sono contro l'espansione della NATO (13 dei 16 membri della NATO supportano questo punto di vista)" (si veda il Documento 30).

 

Così, Gorbachev arrivò alla conclusione dell'Unione Sovietica, rassicurato che l'Occidente non stava minacciando la sua sicurezza e non stava espandendo la NATO. Invece, la dissoluzione dell'URSS fu causata dai russi (Boris Eltsin e il suo principale consigliere Gennady Burbulis) di concerto con gli ex capi del partito delle repubbliche sovietiche, in particolare l'Ucraina, nel dicembre 1991. La Guerra Fredda era conclusa ormai da molto tempo. Gli americani avevano cercato di tenere insieme l'Unione Sovietica - vedi il discorso di Bush denominato "Chicken Kiev" nel luglio 1991. L'espansione della NATO avvenne molti anni dopo, quando queste dispute sarebbero esplose di nuovo, e sarebbero arrivate ulteriori assicurazioni al leader russo Boris Eltsin.

 

[caption id="attachment_13666" align="alignnone" width="1000"] Gli effetti delle promesse occidentali ai russi sulla non-espansione della Nato[/caption]

 

[1] Robert Gates, University of Virginia, Miller Center Oral History, George H.W. Bush Presidency, July 24, 2000, p. 101)

[2] Chapter 6, “The Malta Summit 1989,” in Svetlana Savranskaya and Thomas Blanton, The Last Superpower Summits (CEU Press, 2016), pp. 481-569. The comment about the Wall is on p. 538.

[3] Per lo scenario, il contesto e le conseguenze del discorso di Tutzing, si veda Frank Elbe, “The Diplomatic Path to Germany Unity,” Bulletin of the German Historical Institute 46 (Spring 2010), pp. 33-46. Elbe era il capo dello staff di Genscher in quel periodo.

 

15/12/17

Die Welt - L’Euro ha frenato anche la Germania

Il quotidiano tedesco Die Welt, vicino alle posizioni di Angela Merkel, dà spazio a sorpresa a uno studio di alcuni economisti della BCE che risulta altrettanto sorprendente, per via di un'analisi fortemente critica della moneta unica. Invece che far convergere le economie dei Paesi membri, l'Euro ne ha amplificato le divergenze, portando al crollo del reddito pro capite di nazioni che potevano contare su economie floride prima dell'aggancio valutario, prima tra tutte l'Italia. Nonostante, come prevedibile, la ricerca indichi tra le concause della crisi alcuni dei consueti mantra liberisti, si tratta della prima volta che un'istituzione come la BCE ammette ufficialmente le asimmetrie provocate dall'Unione monetaria.

 

 

di Anja Ettel, Holger Zschäpitz, 04/12/2017

 

Quando gli economisti della Banca centrale europea (BCE) elaborano delle ricerche su temi cardine dell'Unione, in genere sono gli stessi "guardiani della moneta" ad invitare i giornalisti alla discussione, prima ancora della pubblicazione ufficiale dei documenti.

 

Gli studi elaborati dai ricercatori della BCE sono talmente numerosi che, senza il necessario briefing con la stampa, la maggior parte rischierebbe di finire nel dimenticatoio dell'opinione pubblica senza colpo ferire.

 

Non sorprende quindi che anche la ricerca più recente, un’osservazione a lungo termine sulla "convergenza reale nella zona euro", valesse una tavola rotonda. In fin dei conti, si tratta di una delle questioni più delicate dell'unione monetaria.

 



 

Nello specifico, si tratta di comprendere se l'Euro, sin dalla sua introduzione nel 1999, abbia effettivamente soddisfatto l'obiettivo che si era posto, ovvero quello di diventare il motore dell'integrazione economica dell'Europa, o se, al contrario, abbia ampliato il divario tra le economie degli Stati membri. Lo studio emerso dai ranghi degli economisti della BCE giunge a conclusioni poco lusinghiere. Anche a 18 anni dall'introduzione della moneta unica, persiste nell'area valutaria un forte divario nord-sud. Anzi, dalla crisi finanziaria del 2008 a oggi, la distanza tra i paesi dell'Eurozona è persino aumentata.

 

La Spagna non è riuscita a stare al passo

 

Secondo gli autori dello studio è sorprendente come l'Unione monetaria non abbia favorito l'avvicinamento delle economie dei primi 12 membri dell’Unione. "Contrariamente a quanto si sarebbe aspettato, l'introduzione dell'Euro non ha fatto da catalizzatore per una rapida convergenza”.

 

Ciò vale soprattutto per il sud della zona euro. A detta del rapporto, la Spagna, per esempio, in termini di sviluppo del reddito è rimasta indietro di18 anni rispetto alla media UE. I segnali di crescita dei primi anni sarebbero stati totalmente annullati dalla crisi del debito.

 



 

Dall'avvento dell'Euro anche l'Italia è precipitata sempre di più. Lo Stato che affaccia sul mediterraneo, che, considerando il Pil pro capite, originariamente faceva parte dei Paesi ricchi, è franato nel frattempo nel gruppo delle nazioni più povere. Le conseguenze della crisi finanziaria degli anni 2008/2009 possono spiegare solo in parte questa crisi. A detta degli autori, i problemi del Belpaese, affetto da tempo da cronici problemi di crescita e debolezze strutturali, sono in parte "autoinflitti".

 

La ricchezza del Paese diminuisce

 

È importante sottolineare come lo studio in questione sia un saggio tecnico elaborato da alcuni economisti della BCE insieme a un autore originario della Slovacchia. Il documento non riflette necessariamente l'opinione della Banca Centrale Europea. È comunque degno di nota il fatto che l'organo comunitario pubblichi in modo così prominente un'analisi decisamente critica nei confronti dell’Euro.

 

Tuttavia, il saggio non facilita per nulla suoi lettori: molte delle formulazioni rimangono piuttosto vaghe, e gli stessi grafici non riflettono dei risultati immediatamente chiari, ma mostrano delle conclusioni frammentate rispetto alla convergenza nell'unione monetaria. Pertanto, i non-economisti sono costretti a ricomporre gli esiti della ricerca come se si trovassero alle prese con un puzzle.

 

I numeri sono allarmanti. Prima dell'inizio dell'euro il reddito pro capite italiano era il 122% della media europea. Diciotto anni dopo la ricchezza è solo al 96%. Al contrario, la Spagna è migliorata di dieci punti, dal 93% al 103%, tuttavia, questo aumento è dovuto principalmente a un boom immobiliare che non ha avuto vita lunga.

 

I numeri della convergenza delle economie europee sfatano un altro mito. Pare che la Germania, infatti, non sia affatto il grande vincitore dell'Euro, come si sente ripetutamente affermare. Soprattutto nei primi anni dell'Unione monetaria, la ricchezza tedesca era in calo rispetto all'intera UE. Nel 1998, il PIL pro capite era pari al 125% della media e alla fine del 2016 solo il 123%.

 

La Germania è al di sotto del proprio potenziale

 

Quanto siano davvero pronunciate le differenze tra i vari Paesi è mostrato nella quinta parte dello studio. Un grafico a barre confronta l'ipotetico sviluppo della prosperità nell'area dell'euro con quello reale. Tra i grandi vincitori ci sono prima di tutto l'Irlanda e gli Stati baltici. La Germania si piazza nelle posizioni centrali, risultando in lieve perdita. I maggiori perdenti risultano Grecia, Portogallo, Italia e Cipro.

 

Nonostante tutto, gli economisti non arrivano al punto di incolpare l'euro di questo disastro. Secondo gli autori, molti Paesi hanno perso la propria competitività globale molto prima dell'adesione alla moneta unica. In effetti i risultati suggeriscono che i Paesi a cui l'euro ha portato benefici sono, in particolare, quelli che hanno rispettato ampiamente le regole, come gli Stati baltici, la Slovacchia e i Paesi Bassi.

 

A crollare sono stati invece i Paesi che hanno aderito all'Euro ma che hanno in seguito infranto le regole per via di una "cultura della svalutazione" della propria moneta maturata nel corso di decenni. L'Irlanda, al contrario, ha beneficiato della sua posizione di Paese a bassa tassazione, una tattica che non pochi esperti considerano ingiusta.

 

13/12/17

Le molte vite di François Mitterrand

Da Alexis Tsipras, che si è fatto votare per combattere l'austerità cui in seguito si è arreso, la rivista Jacobin ci fa fare un viaggio all'indietro fino a François Mitterand, che trasformò il programma radicalmente riformista su cui era stato votato in un progetto neoliberista, improntato all'austerità, coerente con la nuova linea politica europea degli anni 80. Un viaggio alle radici di quello che si può considerare un vero e proprio tradimento dei propri ideali - ma soprattutto del proprio elettorato - da parte dei partiti della sinistra europea, che ha abbandonato il campo alla svolta neoliberista che flagella l'Europa e ha rilanciato ovunque i partiti di destra.  

 

 

 

di Jonah Birch

Hanno collaborato alla traduzione Carmenthesister, Francesca Medda e Margherita Russo

 

Prima di Alexis Tsipras, l’Europa ha distrutto le ambizioni riformiste di François Mitterand, trasformandole in un radicale programma neoliberale.

 

Nella storia della sottomissione della Grecia al capitale europeo, c’è un cast di cattivi apparentemente illimitato. Al vertice della lista si trova Angela Merkel e quel personaggio da eroe malvagio dei cartoni animati che è Wolfgang Schauble. Subito dopo vengono funzionari come Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo dei ministri delle Finanze, caricatura del tecnocrate in abito grigio.

 

Eppure, di tutte le persone che hanno la responsabilità di avere imposto l’ultimo Memorandum al popolo greco, poche hanno svolto un ruolo tanto riprovevole quanto il presidente francese François Hollande. Per mesi, Hollande ha insistito sulla necessità di un approccio nuovo alla crisi del debito europeo. Di fronte all’intransigenza tedesca, ha immancabilmente sostenuto in pubblico che non si doveva lasciare che la Grecia uscisse dall’Eurozona. Ad un certo punto, verso la fine di giugno, ha persino definito “accettabile” la controproposta di Alexis Tsipras per un nuovo accordo di salvataggio.

 

Tuttavia, alla fine, queste parole non hanno portato a nulla. Hollande, il “poliziotto buono”, è rimasto al fianco della Merkel e degli altri leader dell’Eurozona che spingevano Tsipras ad accettare un accordo di “compromesso” vincolato a condizioni devastanti per la già deteriorata economia greca.

 

Per l’estrema sinistra, questa faccenda meschina ha confermato, nel caso ci fossero dubbi, che tutte le voci sulle crescenti tensioni franco-tedesche sull’euro dello scorso anno non contavano nulla. E in fondo, come ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa di diverso? Per quale motivo il governo francese, che ha fatto dell’austerità il pilastro del suo stesso programma economico, avrebbe dovuto guidare l’attacco contro l’austerità di altri paesi?

 

Le azioni del governo socialista di Hollande costituiscono un’ulteriore prova di quanto la carcassa della socialdemocrazia europea sia ormai putrefatta. A questo proposito, il ruolo sostenuto dal PS nello sventramento della democrazia greca non è stato certo unico nel centro sinistra europeo: proprio al contrario, i partiti laburisti e socialdemocratici sono stati per la gran parte saldamente schierati a sostegno della Merkel e di Schauble durante tutta la durata dei negoziati con la Grecia - il che si può dire in senso letterale nel caso di Sigmar Gabriel, leader del Partito Socialdemocratico tedesco (SPD), che rivestiva la carica di vicecancelliere nella grande coalizione guidata dalla Merkel.

 

Le promesse radicali di Mitterand


 

Tuttavia, il ruolo del Partito Socialista francese si distingue per un motivo diverso – non per ciò che il PS rappresenta ora, ma per ciò che è stato. Trentacinque anni fa, un governo guidato dal PS affrontò una situazione straordinariamente simile a quella affrontata da Syriza dopo la sua vittoria elettorale di gennaio. Che il partito di Hollande e Valls possa aver rappresentato una volta qualcosa di vagamente simile al partito greco della sinistra radicale, oggi potrebbe sembrarci strano. Tuttavia nel 1981, quando il leader del PS François Mitterrand entrò in carica come il primo presidente di sinistra nella storia della Quinta Repubblica, le speranze che ispirava erano simili a quelle generate da Syriza dopo la sua elezione a fine gennaio.

 

Anzi, le aspettative su Mitterand erano decisamente superiori rispetto a quelle che hanno accolto Tsipras all’inizio di quest’anno. Nella notte del 10 maggio del 1981, quando vennero annunciati i risultati finali del ballottaggio, per le vie delle città francesi esplosero i festeggiamenti. A Parigi decine di migliaia di persone si riunirono in Piazza della Bastiglia, dove cantarono e ballarono sino alle prime luci del mattino.

 

Cinque settimane dopo, la Sinistra consolidò il successo di Mitterand, vincendo la maggioranza dei seggi nell’Assemblea Nazionale alle elezioni politiche. Questo creò le basi per la formazione di un governo che (per la prima volta dal 1947) comprendeva anche alcuni ministri comunisti.

 

Dati gli avvenimenti dei tre decenni precedenti, risulta difficile immaginare quanto fosse significativa allora la vertiginosa ascesa della Sinistra agli incarichi di governo. Giungendo, come fu, quasi un decennio dopo le vane speranze del maggio 1968, e dopo i lunghi anni di governo della destra sotto la Quinta Repubblica, l’ascesa di Mitterand ispirò la diffusa convinzione che la Francia fosse diretta verso una rottura radicale con il capitalismo. L’agenda politica del nuovo presidente incorporava un ambizioso piano di riforme, riassunto nel suo programma elettorale, le famose “110 Proposte per la Francia”.

 

Con l’attuazione di questo programma, affermava Mitterand, il suo governo avrebbe accelerato una “rottura” con il capitalismo, e avrebbe gettato le basi per la “via francese al socialismo”.

 

Le origini di Mitterand non derivavano dall’estrema sinistra, ma dalle aree più moderate del socialismo repubblicano francese. Opportunista inveterato, il suo impegno sulle questioni di principio arrivava solo sino a quanto gli era consentito dalle ambizioni politiche personali.

 

Eppure il futuro presidente si era progressivamente spostato a sinistra nel corso della sua vita - dai suoi inizi giovanili come sostenitore del regime collaborazionista di Vichy, alla conversione alla Resistenza di sinistra, agli incarichi da ministro socialista moderato nei governi di breve periodo degli anni 50, alle sconfitte alle presidenziali del 1965 e 1974 e infine alla sua entrata nel PS nel 1971.

 

La sua carriera rispecchiava la progressiva evoluzione del socialismo francese nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale: negli anni 50 la sinistra socialista era rappresentata da una collezione frammentata di piccoli partiti parlamentari in gran parte marginali, apparentemente destinati a servire da partner minori in una serie infinita di governi di coalizione.

 

Solo due volte (per periodi di brevissima durata) durante i decenni che vanno dal Fronte Popolare all'elezione di Mitterrand, un rappresentante della Sinistra aveva ottenuto l'incarico di governo - e di quei governi, il mandato più lungo era stato quello di Guy Mollet, il cui ruolo di primo ministro è stato significativo soprattutto per la sua responsabilità nel massacro in Algeria e per l'invasione dell'Egitto del 1956 a fianco di Gran Bretagna e Israele. Dopo il ritorno al potere di Charles de Gaulle e l'istituzione della quinta Repubblica nel 1958, la sinistra era rimasta esclusa dal governo per più di due decenni.

 

Sotto la Quarta Repubblica, Mitterrand aveva ricoperto incarichi in una serie di governi di coalizione di breve durata - inclusi i due soli governi di sinistra dell'intera era postbellica: nel 1954 partecipò al gabinetto di Pierre Mendès France come ministro dell' Interno, coprendo l'incarico finché il governo non cadde, un anno dopo. Poco dopo, entrò nuovamente nel governo, questa volta come ministro della Giustizia di Guy Mollet.

 

Le attività di Mitterrand come ministro durante questi anni sono state significative per il suo coinvolgimento nella repressione del movimento per l'indipendenza algerina. All'inizio del decennio, Mitterrand aveva manifestato chiaramente i suoi sentimenti sull'indipendenza algerina, quando aveva proclamato: "L'Algeria è Francia". Come ministro della Giustizia sotto Mollet ordinò la proroga della legge marziale e approvò per quarantacinque volte condanne a morte.

 

Mitterrand più tardi si rammaricò del suo ruolo nella guerra della Francia, che alla fine costò la vita a un milione di algerini. Ma il suo coinvolgimento è stato indicativo del brutale nazionalismo coloniale che nel corso di questi anni ha segnato il movimento socialista francese nel suo complesso. Durante gli anni 60, la stigmatizzazione nei confronti della sinistra per la sua complicità nella guerra pregiudica seriamente la reputazione di leader socialisti come Mollet. Mitterrand, tuttavia, riuscì in gran parte ad evitare la macchia del massacro in Algeria.

 

Negli anni 70, il socialismo francese si stava trasformando. Nel 1969, le organizzazioni rappresentative della sinistra non comunista, molto frantumate, si riunirono per formare un Partito Socialista unificato. E al congresso del partito di Epinay, tenuto nel giugno del 1971, Mitterrand vi confluì insieme ai suoi sostenitori, e immediatamente riuscì a essere eletto come leader del partito.

 

Per Mitterrand, Épinay ha segnato la completa trasformazione da socialista repubblicano moderato a esponente della sinistra radicale. Rivolgendosi ai delegati riuniti al Congresso, Mitterrand cercò di rafforzare le sue credenziali anticapitalistiche, a un certo punto chiedendo retoricamente:

 

Riforma o rivoluzione? Voglio dire... sì, rivoluzione. E desidero chiarirlo subito... la lotta quotidiana per le riforme strutturali in sé può essere rivoluzionaria.

 

Ma quanto ho appena detto potrebbe essere un alibi se non aggiungessi questa seconda affermazione: violenta o pacifica, la rivoluzione è in primo luogo una rottura. Colui che non accetta la rottura - e il metodo che ne consegue - chi non è disposto a rompere con l'ordine stabilito... con la società capitalista, quella persona, io sostengo, non può essere membro del Partito Socialista.

 

Più tardi, in una conferenza stampa dopo il Congresso, il nuovo dirigente del partito socialista disse: "Puoi essere un gestore della società capitalista o il fondatore di una società socialista ... Per quanto ci riguarda, vogliamo essere fondatori del socialismo".

 

Il radicalismo del programma elettorale di Mitterrand del 1980 incarnava i frutti di questa evoluzione. Ma rifletteva anche l'influenza di un contesto politico in continuo cambiamento, in Francia e in Europa, negli anni 70. Così, da un lato, rifletteva il desiderio dei Socialisti di competere con il Partito Comunista (PCF), tradizionalmente  forza egemonica della sinistra francese, per numero di voti ed influenza, nonché l'impatto delle crescenti difficoltà economiche francesi nel dibattito politico nazionale.

 

Più in generale, era emblematico di una svolta a sinistra della socialdemocrazia dopo gli anni 60, nel mezzo di una crisi economica strisciante e dell'acuirsi della lotta di classe. Questa svolta si manifestò chiaramente nei partiti socialdemocratici in tutta Europa, poiché sempre più le forze di sinistra guadagnavano consensi in paese dopo l'altro - una dinamica che si vide, in questi anni, in tutto, dalla nascita del Bennismo nel Partito laburista britannico, ai piani adottati dai socialdemocratici svedesi per i fondi salariali per socializzare progressivamente l'industria privata.

 

In effetti, per molti versi, la vittoria di Mitterrand ha rappresentato il massimo risultato del radicalismo socialdemocratico del dopoguerra.

 

Ma se l'esperienza di Mitterrand riflette la radicalizzazione all'interno della socialdemocrazia europea negli anni 70, indica anche i limiti di quella radicalizzazione. A questo proposito, i primi anni della sua presidenza sono stati caratterizzati dal tentativo da parte sua di far fronte agli stessi tipi di vincoli che il governo di Syriza affronta oggi in Grecia.

 

L'Europa contro la Sinistra


 

Per capire questo punto, è importante comprendere il contesto del trionfo della Sinistra nel 1981. Mitterrand prende il potere in questo anno nel bel mezzo di una crisi di lungo periodo del capitalismo europeo. Questa crisi aveva colpito particolarmente la Francia. Di fronte alla crescente disoccupazione, alle crescenti pressioni inflazionistiche e all'attività imprenditoriale stagnante, il nuovo presidente promise di prendere misure drastiche per rilanciare l'economia francese.

 

A questo fine, Mitterrand propose ampie nazionalizzazioni dei gruppi industriali francesi, sempre meno competitivi, allo scopo di mantenere i livelli di occupazione e aiutare il processo di ricostruzione economica. Non voleva essere un esproprio del capitale francese, ma un acquisto indennizzato di imprese non redditizie, che in caso contrario sarebbero fallite.

 

Nel contesto della politica francese alla fine degli anni 70, il piano di nazionalizzazione del governo non era così radicale come potrebbe apparire in retrospettiva. Il capitalismo francese aveva infatti una lunga tradizione di pianificazione statale e di una crescita economica guidata dal governo.

 

Dopo la seconda guerra mondiale, una grande varietà di industrie era diventata di proprietà dello Stato. Nel 1946 il governo aveva istituito una commissione di pianificazione che produceva piani a lungo termine per guidare lo sviluppo economico: nel corso dei successivi quarant'anni, lo Stato produsse nove piani quinquennali. Anche fuori dal settore statale, le imprese dipendevano fortemente dal governo per l'accesso al credito; tra il 1969 e il 1981, lo Stato francese era responsabile di quasi la metà di tutti gli investimenti del settore privato.

 



Dopo la vittoria del 1981 di Mitterrand, migliaia di persone si radunarono in Place de la Bastille

 

Fondamentalmente, il piano di nazionalizzazioni di Mitterrand rappresentò un tentativo di rilanciare ed estendere il modello dirigista del dopoguerra. L'obiettivo non era quello di attaccare la proprietà privata, ma di facilitare la ristrutturazione economica e salvare la base industriale della Francia, che era in difficoltà. Il governo si aspettava un rapido miglioramento della situazione economica globale, che credeva avrebbe aiutato a ripristinare la salute delle imprese non redditizie. Volevano anche sovvenzionare l'attività economica, generando un disavanzo nei conti pubblici.

 

Tirando le somme, questo era un programma economico keynesiano, non una sfida socialista contro le prerogative del capitale. Eppure, nell'attuazione di questo programma, Mitterrand andava a toccare i limiti di quello che il capitalismo europeo era disposto a tollerare. Di conseguenza, il suo governo si trovò presto a dover affrontare un dilemma - se procedere con la sua agenda economica iniziale, a fronte delle crescenti difficoltà e ostilità da parte degli interessi del mondo imprenditoriale o se abbandonare il suo programma di reflazione keynesiana.

 

Le difficoltà incontrate dal partito socialista furono esacerbate dall'adesione della Francia al sistema monetario europeo (SME), il precursore della zona euro. Agganciando il franco francese al marco tedesco, lo SME limitò la capacità del governo di adattare la politica monetaria per soddisfare le esigenze macroeconomiche del paese.

 

Alla fine, Mitterrand si trovò in una posizione in cui doveva decidere se abbandonare lo SME e potenzialmente perdere l'accesso al sistema finanziario globale o abbandonare le proprie ambizioni di riformismo. La decisione da prendere era così rigida, che Mitterrand arrivò a dire: "Sono diviso tra due ambizioni: costruire l'Europa o costruire la giustizia sociale".

 

Alla fine Mitterrand scelse la strada della capitolazione, che lo portò alla famosa svolta del suo governo, nel 1982-83, verso il rigore, o austerità. Le ripercussioni di questa decisione si sentono ancora oggi. Il suo dietrofront e il suo successivo spostamento a destra hanno fatto precipitare il processo a lungo termine di privatizzazione e la ristrutturazione neoliberale del capitalismo francese; e contemporaneamente, hanno portato alla trasformazione del Partito socialista in un agente del mercato.

 

Peggio ancora, la svolta a U di Mitterrand ha posto le basi per la crescita della destra; è stato nel 1983 che il Fronte Nazionale (FN) di Jean-Marie Le Pen ha raggiunto il suo primo successo elettorale, nelle elezioni locali della città suburbana di Dreux. Solo un anno dopo, il FN ha fatto il suo grande passo avanti nelle elezioni europee del 1984.

 

Alla fine del decennio, il FN - un partito che era stato così marginale solo pochi anni prima che Le Pen non era nemmeno riuscito a raccogliere abbastanza firme per concorrere alla presidenza - otteneva percentuali di voto a due cifre. Oggi, la figlia ed erede politica di Jean-Marie, Marine Le Pen è posizionata in cima ai sondaggi per le elezioni presidenziali del 2017, poiché gli elettori disillusi dai fallimenti economici di Hollande e dalle riforme impopolari del mercato del lavoro si sono sempre più rivolti al FN.

 

Anni tutt'altro che gloriosi


 

Per comprendere i fattori che hanno fatto precipitare la capitolazione di Mitterand, per cominciare dobbiamo guardare alle condizioni in cui si trovava il capitalismo francese negli anni 70. Questo decennio ha segnato la fine della lunga fase di crescita e di piena occupazione del dopoguerra, nota in Francia come i Trente glorieuses ("I trent'anni gloriosi", ndVdE).

 

Di conseguenza, gli anni dopo il 1974 videro un generale rallentamento dell'attività economica, con una caduta degli investimenti e del tasso di profitto e un ristagno della crescita della produttività. Mentre all'inizio e sino alla metà degli anni 70 i lavoratori potevano ancora assicurarsi aumenti significativi del salario reale, dopo il 1974 la disoccupazione (quasi inesistente all'inizio del decennio) cominciò ad aumentare in maniera costante.

 

Il peggioramento dell'economia francese rifletteva una più generale tendenza del capitalismo europeo; venendo meno le condizioni favorevoli dell' "età dell'oro" del dopoguerra, i politici del continente dovettero confrontarsi con problemi come la disoccupazione crescente, l'inflazione in aumento e il rallentamento della produttività.

 

In Francia, i governanti risposero con politiche economiche altalenanti; prima con tentativi di rivitalizzare l'economia spendendo in deficit, poi tornando al rigore di bilancio, per poi cambiare ancora direzione.

 

Queste condizioni si rivelarono una manna per la sinistra francese. A lungo dominata dal potente Partito Comunista, la sinistra era rimasta profondamente divisa sino alla metà degli anni sessanta, da una parte il PCF, grande ma isolato politicamente, e dall'altra le forze minoritarie del socialismo francese. Alla fine degli anni settanta, i comunisti contavano ancora più di mezzo milione di iscritti. Il partito disponeva di un potente bacino elettorale a livello nazionale: conquistando regolarmente tra un quinto e un quarto dei voti alle elezioni legislative fin dal 1969 (anche se questi numeri si erano andati leggermente riducendo dagli anni cinquanta), il candidato del partito alle presidenziali Jacques Duclos era riuscito a raccogliere più del 21 % (quasi 5 milioni di voti) al primo turno delle elezioni presidenziali.

 

Ma la vera forza elettorale del PCF era a livello locale, dove controllava molti comuni in cui prevaleva la classe operaia e un certo numero di grandi città. Al culmine del suo potere locale, nel 1977, il PCF governava 72 amministrazioni comunali con oltre 30.000 abitanti, su 221.

 

Inoltre i comunisti esercitavano un'enorme influenza sul movimento sindacale grazie ai loro legami cone la Confederazione Generale del Lavoro (CGT), il più grande sindacato francese. La CGT era un sindacato a esplicita guida comunista, che si atteneva strettamente alla linea del PCF su tutte le questioni interne e internazionali (rendendosi così oggetto di larghe critiche nel contesto della guerra fredda). Alla fine degli anni 70, aveva più di due milioni di membri - un numero impressionante data l'assenza di accordi vincolati ("closed shop", ovvero accordi aziendali che comportano l'obbligo di appartenenza a un sindacato, ndVdE) nel sistema di relazioni industriali della Francia - ed era particolarmente radicato nei settori della manifattura e dell'industria pesante.

 

Mentre i comunisti avevano tradizionalmente rappresentato l'ala più militante del movimento sindacale francese, dopo il Maggio '68 non fu più così. Molti lavoratori più giovani, spostatisi verso posizioni più radicali nei giorni entusiasmanti del Maggio francese, avevano cominciato a vedere la CGT come conservatrice e burocratizzata - come degli stalinisti antidemocratici senza alcuna visione su come rifondare una società gerarchizzata e senza alcun interesse per la democrazia nei posti di lavoro.

 

Alla fine degli anni 60 e 70, molti di quei lavoratori erano entrati nella Confederazione Democratica del Lavoro francese (CFDT), la seconda più grande confederazione sindacale della Francia, che aveva sviluppato stretti legami col PS. Dopo il 1968 la CFDT stava gravitando a sinistra, sposando proposte di autogestione, democrazia industriale e anche progettazione urbana.

 

La CFDT in quegli anni si costruì una reputazione di militanza, lanciando molti scioperi grandi e audaci. Politicamente, la CFDT aveva cominciato a impegnarsi in una forma di "sindacalismo per la lotta di classe", dichiarando, per esempio, in una risoluzione passata al suo congresso del 1977, che "non ci può essere nessuna tregua nella lotta di classe; la CFDT rifiuta di moderare le sue richieste e ogni idea di pace sociale".

 

Mentre la dirigenza sindacale alla fine si sarebbe mossa contro gli elementi più radicali tra i suoi membri, la CFDT era molto più aperto alla sinistra rivoluzionaria non comunista di quanto lo fosse la CGT. In effetti nella seconda metà degli anni 70 la CFDT aveva abbracciato un'agenda ideologica decisamente anticapitalista, con la stessa risoluzione del Congresso del 1977 che presentava questa valutazione della crisi del capitalismo francese:

 

Il sistema capitalista è profondamente scosso, ma non sarà condannato irreparabilmente. Nessuno può prevedere gli esiti della crisi. Non ci sarà né determinismo né auto-correzione. Tra autoritarismo e socialismo democratico autogestito, così come tra tutte le soluzioni intermedie, non è stato ancora deciso nulla.


 

Alla fine degli anni 60 i rapporti tra PCF e PS, e tra CGT e CFDT, erano caratterizzati da profonda diffidenza da entrambe le parti. Si dice che lo stesso Mitterrand fosse stato ostile ai comunisti fin dai tempi della resistenza francese. Ma capiva anche che l'unico modo per far rivivere le sorti della sinistra - e, in concomitanza, le sue sorti - era attraverso un'alleanza elettorale con il PCF.

 

A questo fine, guidò le trattative con i comunisti su quello che divenne il "Programma comune" del 1972, una piattaforma per un'alleanza elettorale della sinistra unita. Concentrandosi su una serie di riforme radicali tra cui estese nazionalizzazioni, espansione dello stato sociale e rafforzamento dei diritti sindacali, il programma comune riflette le crescenti ambizioni riformiste della sinistra francese negli anni 70.

 

Il Programma comune catturò l'immaginazione dell'intera sinistra. Non era un programma rivoluzionario, ma un programma di riforme. Tuttavia, il suo scopo non era semplicemente quello di rattoppare il sistema esistente, ma di gettare le basi per il socialismo. A questo scopo, il programma comune era volto a conquistare i vertici del capitalismo francese.

 

Come indicato nel documento stesso, si voleva "spezzare il dominio del grande capitale e attuare una nuova politica economica e sociale" al fine di "realizzare gradualmente il trasferimento alla comunità dei più importanti mezzi di produzione e degli strumenti finanziari attualmente nelle mani dei gruppi capitalisti dominanti ".

 

La firma della Piattaforma comune segnò l'inizio di un mezzo decennio di cooperazione elettorale tra i comunisti e il partito socialista. Ma non pose fine al conflitto tra i due partiti. Mitterrand non esitò mai a manifestare il suo desiderio di strappare voti al PCF, commentando ad un certo punto in riferimento al Programma comune:

 

Il nostro obiettivo fondamentale è quello di ricostruire un grande partito socialista sul terreno occupato dal PC stesso, per dimostrare che dei 5.000.000 elettori comunisti 3.000.000 possono votare i socialisti. Questo è il motivo di questo accordo.


 

I comunisti, d'altra parte, non erano mai ben sicuri su come prendere Mitterrand: da un lato, il leader socialista offriva loro la legittimità fornita da un accordo elettorale e le prospettive di posizioni ministeriali in un governo di coalizione. Dall'altro, non nascondeva il suo desiderio di appropriarsi della base del PCF.

 

Mentre Mitterrand era sempre molto chiaro riguardo al suo obiettivo di sostituire il PCF come forza principale della sinistra francese, i comunisti erano incerti su come rispondere alle sue offerte. Le tensioni tra i due partiti si conclusero nel 1977, in seguito a una radicale vittoria della sinistra nelle elezioni municipali.

 

Con le elezioni parlamentari del 1978 all'orizzonte e di fronte alle diffuse speranze che la sinistra emergesse con una maggioranza parlamentare, il PCF sfruttò una serie di disaccordi su diverse questioni politiche come occasione per rompere l'alleanza. Questo scandalizzò molti elettori di sinistra e consolidò il ruolo del PS come partito dell'unità della sinistra.

 

Nondimeno, quando Mitterrand si candidò alla presidenza nel 1981 i comunisti capirono da che parte soffiava il vento. Una volta che il loro candidato venne sconfitto al primo turno, diedero il loro sostegno a Mitterrand. E nelle elezioni legislative tenute poco dopo, ebbero il primo assaggio di ciò che l'ascesa al potere della sinistra aveva portato loro: nonostante la maggioranza assoluta ottenuta dalla sinistra alle elezioni, fu il PS a prendere tutti i seggi in più - in effetti, il PCF in realtà in quelle elezioni perse supporto cedendolo ai socialisti. Non avrebbe mai più recuperato il terreno perduto.

 

Un fronte unito


 

La vittoria di quest'alleanza comunisti-socialisti nel 1981 galvanizzò la sinistra. Ma quando il nuovo governo subentrò in carica, si trovò a fronteggiare una situazione economica molto cupa. La disoccupazione era in costante aumento: raggiunse il 6,3% nel 1980 e il 7% l'anno successivo. L'inflazione, che già negli anni 70 si aggirava mediamente intorno a un preoccupante 9%, nel 1980 superò il 12%. Gli investimenti e la produttività erano stagnanti. Il deficit commerciale della Francia si era gonfiato a livelli insostenibili, mettendo sotto forte pressione il valore del franco francese.

 

Mentre cercava di attuare il suo programma di reflazione economica per far fronte agli effetti della crisi, Mitterrand era ostacolato da una serie di fattori.

 

Per prima cosa, la Francia all'inizio degli anni 80 si trovò di fronte a un ambiente economico globale particolarmente sfavorevole. La recessione che aveva inghiottito il mondo capitalista avanzato nel 1979 aveva martellato il settore industriale già indebolito della Francia, paralizzando industrie tradizionalmente importanti come quella dell'acciaio.

 

Inoltre, gli effetti della recessione erano acuiti dalla politica di alti tassi di interesse del Tesoro americano, dato che la Federal Reserve cercava di mettere in atto un rallentamento che avrebbe finalmente potuto mettere l'inflazione sotto controllo (una politica nota come "Volcker Shock", dal nome del presidente del Fed, Paul Volcker).

 

Lo scossone dato dal Volcker Shock portò non solo a un forte declino dell'economia statunitense (insieme al crescente deficit pubblico che l'amministrazione Reagan continuò poi a perseguire), ma anche ad effetti a catena in tutta l'Europa occidentale. Con il dollaro ai massimi storici, anche altri paesi si diedero rapidamente da fare per sgonfiare le proprie economie, al fine di evitare che le loro valute perdessero valore rispetto al dollaro.

 

In Europa, la potenza economica più importante era quella della Repubblica Federale Tedesca. E l'istituzione più importante del capitalismo tedesco era la potente Bundesbank, che tradizionalmente tendeva ad attuare politiche monetarie tese a contrastare le pressioni inflazionistiche. Sulla scia della controparte americana, le politiche tedesche crearono artificialmente una forte recessione nel 1980-81.

 

Gli effetti di queste politiche deflazionistiche si fecero sentire in tutta Europa, e in particolare in Francia. Con il rapido aumento del valore del dollaro e del marco tedesco, anche i prezzi per importare le merci denominate in quelle valute aumentarono. Dal momento che la Francia dipendeva fortemente dalle importazioni per molti beni di prima necessità (incluso l'80% del suo fabbisogno energetico) e che il 37% delle importazioni totali erano espresse in dollari, l'aumento vertiginoso del cambio del dollaro mise a dura prova l'economia francese.

 

Allo stesso tempo, nel contesto delle politiche reflazionistiche perseguite dal governo di Mitterrand, la deflazione negli Stati Uniti e in Germania intensificò le pressioni al ribasso sul franco.

 

Per questo motivo Mitterrand intervenne, e si trovò a chiedere a Ronald Reagan di alleviare la pressione sul franco in occasione di un vertice economico tenutosi a Versailles nel giugno 1982. Riducendo la spesa pubblica, l'amministrazione Reagan avrebbe potuto contenere la domanda di dollari e alleviare così le pressioni sul franco.

 

Quando Reagan non accettò, il governo francese fu costretto a intraprendere quella che sarebbe stata la sua seconda svalutazione del franco. Ma per quanto Mitterrand denunciasse le politiche deflazionistiche dei governi americano e tedesco, poteva fare ben poco per cambiarle.

 

A limitare la libertà di manovra dei funzionari francesi era anche l'appartenenza della Francia al Sistema Monetario Europeo. Lo SME era un sistema di cambi negoziato dal Presidente francese Giscard d'Estaing e dal cancelliere tedesco Helmut Schmidt alla fine degli anni 70. Era stato progettato per garantire che il valore del franco e del marco tedesco rimanessero entro determinati parametri, attraverso il meccanismo che agiva sul tasso di cambio (ERM).

 

Una delle speranze di Giscard nel creare lo SME era di incoraggiare i funzionari francesi ad aderire alle politiche monetarie responsabili, ovvero rigide, da lui preferite.

 

Legando il franco al marco tedesco, lo SME avrebbe limitato lo spazio di manovra dello Stato nell’aumentare la spesa: poiché il valore del franco doveva rimanere ad un tasso abbastanza alto da mantenere l'aggancio al marco, i governi futuri sarebbero stati costretti ad evitare politiche che avrebbero potuto erodere troppo la posizione monetaria del franco. Invece di misure espansive per aumentare la crescita dei posti di lavoro e dei salari, i governi avrebbero dato priorità alla stabilità dei prezzi e alla competitività.

 

Alla fine, la mossa di Giscard si rivelò efficace. Dopo la svolta verso l‘austerità del governo nel 1982-83, Mitterrand fu convinto dal suo allora ministro delle finanze (e futuro commissario europeo) Jacques Delors ad adottare una politica del "franco forte", in cui la moneta francese sarebbe stata volutamente sopravvalutata per garantire la stabilità monetaria e contrastare le pressioni inflazionistiche. Il risultato fu un decennio di alta disoccupazione, che durò fino agli anni 90.

 

Trionfo e tragedia


 

Tutto ciò comunque sarebbe avvenuto dopo. I primi giorni della presidenza Mitterrand furono caratterizzati dall'eccitazione generata dai suoi sforzi per attuare le politiche esposte nelle "110 Proposte".

 

A partire dal giugno 1981, Mitterrand supervisionò la nazionalizzazione di dodici gruppi industriali, trentasei banche e due società finanziarie. In totale, alla fine dell'anno, le imprese controllate dallo Stato rappresentavano l'8% del Pil. Le nuove imprese nazionalizzate impiegavano oltre mezzo milione di lavoratori, ovvero il 2,5% della forza lavoro totale. Le banche nazionalizzate detenevano ora il 90% di tutti i depositi.

 

Alla fine del 1981, il governo controllava poco meno dell'intero settore finanziario. Nel frattempo, i sussidi statali per l'industria erano aumentati nettamente: nel complesso, nel 1981, gli aiuti di Stato alle imprese private fecero un salto che li portò a 100 milioni di franchi, ovvero il 3,5% del Pil.



 

Mitterrand entrò ufficialmente in carica il 21 maggio 1981

 

Insieme a questo programma di nazionalizzazioni e sussidi governativi, il governo Mitterrand aumentò anche la spesa pubblica, soprattutto attraverso una importante espansione dello stato sociale. Il deficit pubblico passò dallo 0,4% al 3% del Pil tra il 1980 e il 1983 e la spesa pubblica complessiva - soltanto nel 1981 e 1982 - aumentò dell'11,4%. Le forme di pensionamento anticipato sponsorizzate dal governo per pagare l'uscita dal mondo del lavoro dei lavoratori più anziani furono ampliate e l'età pensionabile fu ridotta da sessantacinque a sessanta anni. Nel frattempo, le pensioni minime aumentarono del 20% e gli assegni familiari furono aumentati del 25%.

 

Nel giugno 1981, il governo aumentò il salario minimo legale francese (SMIC) del 10%. Nel corso degli anni 1981-82, lo SMIC fu aumentato di quasi il 40%. In totale, da aprile 1981 a luglio 1982, il salario minimo fu aumentato dell'11,4 % in termini reali. Questo aumento del salario minimo superò la crescita della mediana degli stipendi, aumentata del 5,2% nello stesso periodo.

 

Nel gennaio 1982 la settimana lavorativa standard nel settore privato fu ridotta da quaranta a trentanove ore, mentre il governo stabilì l'obiettivo di arrivare alle trentacinque ore entro il 1985. In aggiunta, fu introdotta una quinta settimana di ferie pagate obbligatoria. Nel complesso, le ore medie di lavoro dei dipendenti tra il 1981 e il 1983 diminuirono del 3%. Ancora, fu ampliato il settore dell'impiego pubblico, con l'assunzione di 200.000 nuovi dipendenti dell'amministrazione.

 

Nel frattempo, i diritti sindacali furono ampliati, in particolare attraverso la legge Auroux del 1982 , che richiedeva trattative annuali tra datori di lavoro e rappresentanti sindacali. La legislazione aumentò i diritti sindacali in fabbrica e cercò di stabilire forme più efficaci di rappresentanza sul posto di lavoro per dare ai dipendenti più voce nelle decisioni sulla produzione.

 

Le tasse furono aumentate in misura significativa. La tassazione in Francia è incentrata sulle imposte sui salari, che pagano l'enorme sistema di sicurezza sociale del paese. Nel 1982 la sicurezza sociale rappresentava circa un quarto del Pil, una cifra che rifletteva ben oltre un decennio di continua crescita, provocato dall'aumento della disoccupazione, dal ricorso diffuso ai programmi di prepensionamento e dall'estensione della copertura della disabilità. Molti dipendenti furono in grado di andare in pensione con una pensione mensile pari al 100% o più del loro stipendio.

 

Per finanziare queste spese sociali, il carico fiscale sui datori di lavoro era già stato aumentato considerevolmente prima di Mitterrand, ma durante il suo governo questa si rivelò essere una delle principali cause della disaffezione da parte dei datori di lavoro.

 

Queste misure ebbero un'opposizione significativa da parte del mondo imprenditoriale. Mentre i datori di lavoro non ebbero nulla da obiettare sulle nazionalizzazioni, si infuriarono per la crescita della spesa, e soprattutto per i  nuovi diritti sindacali introdotti dal nuovo governo. Questo esasperò quello che era diventato un problema cronico di fuga di capitali. Il fenomeno era stato una costante fonte di preoccupazione per l'amministrazione dello Stato già da prima che il governo Mitterrand entrasse in carica; tra febbraio e maggio 1981, la Francia aveva sperimentato una fuga di capitali arrivata a un totale di circa 5 miliardi di dollari.

 

Al momento di entrare in carica, Mitterrand cercò di rassicurare il capo della principale federazione dei datori di lavoro francese, con queste parole: "I francesi hanno votato il Programma Comune. Sarà applicato come lo volevano. Questo sarà uno dei modi per porre fine alla lotta di classe. Vogliamo sviluppare un'economia mista. Non siamo dei rivoluzionari marxisti-leninisti ". Tuttavia, gli investimenti non aumentarono mai nel corso dei primi due anni del governo in carica, né la fuga di capitali si fermò.

 

L'opposizione crescente da parte del mondo delle imprese al suo programma fu solo uno degli aspetti della reazione di destra che accolse la sinistra durante i suoi primi due anni al potere. Durante questi anni, il governo dovette affrontare proteste continue da parte di una moltitudine di raggruppamenti: i piccoli imprenditori furenti per l'aumento del costo del lavoro e l'imposizione di nuove restrizioni normative; i camionisti, arrabbiati per i tentativi di imporre maggiori dazi sulle importazioni; gli agricoltori, preoccupati per l'afflusso di prodotti agricoli a basso costo; i cattolici, mobilitati in gran numero contro la promessa riforma del sistema dell'istruzione, che avrebbe portato alla creazione di un sistema scolastico pubblico del tutto laico.

 

Tuttavia, la maggior preoccupazione per il governo Mitterrand furono le crescenti difficoltà economiche che dovette affrontare, in particolare la sua incapacità di fermare l'inflazione o impedire la crescita del deficit della bilancia dei pagamenti francese. Quando un paese si ritrova con un deficit della bilancia dei pagamenti, significa che sta comprando più dall'estero di quanto esporta - nel caso della Francia, il deficit commerciale schizzò alle stelle, da 56 miliardi di franchi nel 1981 a 93 miliardi nel 1982.

 

L'aumento del disavanzo commerciale della Francia era un risultato diretto del programma economico di Mitterrand, che aveva dato un enorme impulso al consumo: il reddito familiare netto, ad esempio, era aumentato di oltre il doppio del tasso di crescita della produttività negli anni 1981-82. In linea di massima, i consumatori francesi avevano usato quel denaro extra per acquistare merci straniere. Di conseguenza, in quegli anni le importazioni di automobili aumentarono del 40% e gli acquisti di apparecchi elettrici prodotti all'estero aumentarono del 27%.

 

Con l'aumento della produzione, la produttività stagnante e le importazioni sempre più costose a causa dell'aumento del valore del dollaro, l'inflazione iniziò ad andare fuori controllo. Nel 1982 il tasso di inflazione balzò al 12,6%.

 

Come conseguenza, per il governo fu impossibile evitare ripetute svalutazioni. La prima svalutazione fu nell'ottobre del 1981, dopo mesi di continue pressioni sul franco. Con la Banca Centrale incapace di sostenere il valore della moneta attraverso le opzioni politiche esistenti, per esempio un rafforzamento dei controlli sui capitali, e le riserve in valuta estera esaurite, il governo decise di non avere altra scelta che svalutare.

 

Eppure questo non allentò le pressioni sul franco. Così nel giugno 1982, dopo mesi di continua fuga di capitali, il governo fu costretto ad annunciare un'altra svalutazione - che questa volta sarebbe stata sostenuta da un congelamento di quattro mesi di salari e prezzi. La spesa pubblica fu tagliata per 20 milioni di franchi e il governo annunciò che in futuro il deficit pubblico sarebbe stato limitato al 3% del Pil.

 

La decisione di svalutare, nell'estate del 1982, era motivata da preoccupazioni per gli effetti inflazionistici dell'aumento dei salari. Nel primo trimestre di quell'anno, i salari reali erano cresciuti del 4,2%, mentre l'inflazione era aumentata all'1,2%. Ma l'effetto di questa svalutazione fu di porre sostanzialmente fine al periodo iniziale di politiche economiche reflazionistiche del governo.

 

All'interno del governo c'erano forti differenze di posizione su come rispondere alle pressioni sul franco. L'ala sinistra del partito socialista, rappresentata dal ministro dell'Industria Jean-Pierre Chevènement, voleva continuare con l'agenda riformista del governo. Questa posizione era sostenuta dai ministri comunisti, la cui influenza era limitata. Sostenevano che, uscendo dallo SME, il governo sarebbe stato in grado di procedere con la ricostruzione economica senza l'ostacolo dei vincoli imposti dalla finanza internazionale.

 

Questa opzione alternativa avrebbe richiesto che fossero imposti controlli più severi sui capitali e avrebbe portato il governo in rotta di collisione con il mondo imprenditoriale. La Francia sarebbe stata probabilmente tagliata fuori dai mercati internazionali del credito e finanziari e, come minimo, il costo dell'indebitamento sarebbero salito ancora di più. Avrebbe inoltre limitato l'accesso dei consumatori ai beni di consumo di origine straniera e avrebbe potuto richiedere l'introduzione di controlli ancora più stringenti sui salari e sui prezzi.

 

Allo stesso tempo, avrebbe potuto consentire al governo di continuare con il suo programma redistributivo ed evitare la distorsione della distribuzione economica che fu provocata dalla svolta verso l'austerità.

 

Per gli elementi più di destra del governo, tuttavia, questa strategia sarebbe stata un disastro. Intorno a Mitterrand, tutta una serie di voci influenti consigliavano moderazione di fronte alle crescenti difficoltà economiche con cui doveva confrontarsi il capitalismo francese. Questi personaggi, capeggiati dal ministro delle finanze Jacques Delors e dal ministro dell'Economia Laurent Fabius , sostenevano che, date le circostanze, una marcia indietro rispetto alle ambizioni riformiste del governo era l'unica scelta possibile.

 

Sostenuti da un certo numero di importanti consulenti economici, i due insistevano sul punto che svalutazione e deflazione erano essenziali per evitare il collasso del franco. L'uscita dallo SME non avrebbe solo limitato l'accesso dello Stato ai mercati finanziari globali, insistevano, ma avrebbe anche esacerbato le pressioni inflazionistiche, poiché il prezzo delle importazioni sarebbe rapidamente aumentato e i produttori francesi non sarebbero stati in grado di soddisfare il conseguente aumento della domanda.

 

Nell'autunno del 1981, questi modernizzatori economici all'interno dei ranghi più importanti del PS avevano già iniziato a enunciare apertamente le loro richieste di abbandonare la reflazione, con Delors che rendeva pubblico il suo sostegno a una "pausa" nel programma riformista del governo, per permettere alla svalutazione di funzionare. Nel corso dell'anno successivo, i fautori di un cambiamento nella politica economica all'interno del governo diventarono sempre più espliciti. Questa corrente godeva del sostegno del primo ministro Pierre Mauroy, che condivideva le loro preoccupazioni sugli effetti dell'inflazione galoppante e sull'aumento del debito estero.

 

Come disse Mauroy nel gennaio 1983: "Vogliamo che i salari aumentino più lentamente dei prezzi. per ridurre il potere d'acquisto dei consumatori e aumentare la redditività".

 

Nel marzo 1983 il gioco venne allo scoperto: Mitterrand approvò drastiche misure di austerità, insieme a una terza svalutazione del franco. La spesa pubblica fu ridotta e il governo impose aumenti delle tasse per un valore di 40 miliardi di franchi a lavoratori e consumatori, riducendo nel contempo gli oneri per le imprese. I salari vennero deindicizzati rispetto ai prezzi e l'eventuale aggiustamento della contingenza venne limitato all'8% per l'anno successivo.

 

Cosa non ha funzionato?


 

Sarebbe sbagliato concludere che l'inversione a U di Mitterrand sia stata il risultato di un semplice fallimento del suo programma keynesiano. In effetti, il programma economico espansivo del suo governo era riuscito a impedire una contrazione molto maggiore dell'economia francese, nel mezzo della recessione globale dei primi anni 80.

 

Secondo una stima, l'evoluzione della politica fiscale in Francia fu responsabile del rilancio della crescita economica dell'1,5%, mentre la politica di contenimento fiscale del governo tedesco ridusse i tassi di crescita di quasi il doppio. Dal 1981-1983, la disoccupazione in Francia aumentò solo dell'1,9 %, contro il 5 % in Germania e il 4,2 % in tutta la CEE.

 

Allo stesso tempo, il governo di Mitterrand non riuscì a fermare il declino dell'industria francese.

 

I principali produttori industriali continuarono a perdere soldi e quote di mercato, e la loro incapacità di riguadagnare competitività mise lo Stato in una situazione di crescente difficoltà. La nazionalizzazione era stata uno strumento per proteggere i posti di lavoro e facilitare la ristrutturazione nel contesto di una recessione economica globale. Ma con il protrarsi della crisi del capitalismo globale, lo Stato si trovò in difficoltà nel coprire perdite sempre maggiori per mantenere solvibili le imprese non redditizie.

 

Fu così costretto a fornire enormi quantità di capitale per impedire di andare in bancarotta ai produttori di qualsiasi cosa, dalle automobili alle sostanze chimiche. Inoltre, i gruppi industriali di proprietà statale che erano stati rilevati nel 1981-82 si trovavano in gravi difficoltà. Nel 1982, solo due delle dodici imprese appena nazionalizzate producevano profitti; le perdite totali di queste imprese quasi triplicarono nel 1983, quando raggiunsero i 2,6 miliardi di dollari (rispetto ai 900 milioni di due anni prima). Né il quadro era migliore nelle imprese già da tempo statali, che nel 1982 persero complessivamente 21,4 miliardi di franchi, mentre solo due anni prima avevano generato un utile netto.

 

Queste difficoltà riflettevano un dilemma fondamentale di fronte a cui si trova qualsiasi governo riformista che va al potere nel mezzo di una crisi economica. Sotto la pressione di dover supportare l'indebolimento delle industrie per mitigare il declino economico e l'aumento della disoccupazione, un governo di questo tipo dovrà sostenere i costi necessari a mantenere solvibili le industrie non redditizie. Ma questo onere finanziario può mettere a dura prova il bilancio di uno Stato, limitando la sua capacità di sostenere  altri tipi di misure di riforma.

 

Come ha scritto lo scienziato politico americano Adam Przeworski:

 

L'abbandono del riformismo è una diretta conseguenza delle riforme che sono state compiute. Poiché lo Stato è impegnato quasi esclusivamente in attività che non sono redditizie dal punto di vista privato, è privato delle risorse finanziarie necessarie per continuare il processo di nazionalizzazione.


 

Queste difficoltà furono esacerbate dalla costante resistenza nei confronti dell'agenda di Mitterrand all'interno dello Stato: in particolare, il potente ministero delle Finanze diventò un centro di opposizione alla direzione statale dell'economia. Allo stesso tempo, lo Stato dovette combattere per garantire che la gestione delle imprese nazionalizzate desse un esempio delle sue priorità economiche - in parte anche perché non riusciva decidere se le industrie statali dovessero essere gestite autonomamente o essere sottoposte alla supervisione dei funzionari ministeriali.

 

Questa incertezza non era semplicemente il risultato contingente dell'indecisione o confusione all'interno dello Stato; era emblematica di un problema più basilare che affliggeva l'agenda economica del governo Mitterrand. Lo stato capitalista aveva potuto sovraintendere a una pianificazione limitata nell'ambiente favorevole dei gloriosi trenta, ma si rivelò uno strumento inadeguato per realizzare la più ambiziosa agenda di pianificazione di Mitterrand. Di conseguenza, la politica industriale del governo non produsse mai i risultati che inizialmente il governo aveva sperato.

 

Nel frattempo, il franco continuava a scivolare rispetto ai suoi concorrenti più vicini. Tra l'elezione di Mitterand nel 1981 e la sua inversione di marcia nel 1983, la moneta perse il 27% del suo valore originale rispetto al marco tedesco. All'inizio del 1984, ci volevano 8,6 franchi per comprare un solo dollaro americano - più del doppio del tasso di cambio di tre anni prima, quando per comprare un dollaro ci volevano solo 4,2 franchi.

 

In questo contesto, il governo decise che la reflazione non era più possibile. Decise di invertire la rotta e cercare di combattere la crescita dell'inflazione. Come si espresse Mauroy nell'aprile del 1983:

 

Voglio cambiare le abitudini di questa nazione. Se i francesi si rassegnano a vivere con un'inflazione del 12%, allora è bene che sappiano  che, a causa della nostra interdipendenza economica con la Germania, finiremo in una situazione di squilibrio. La Francia deve sbarazzarsi di questa malattia dell'inflazione.


 

Per capire perché il programma economico di Mitterrand prese questo verso, è importante riconoscere che il problema di fondo non erano solo le carenze dell'industria francese o la sfavorevole situazione internazionale che i socialisti dovevano affrontare quando arrivarono al potere (benché questi fossero fattori importanti). La questione più profonda era la mancanza di fiducia da parte delle imprese, che si manifestava in tassi di investimento cronicamente bassi e in una costante fuga di capitali. Come Delors avrebbe più tardi argomentato :

 

Dal momento che la crescita è stata stimolata da una domanda interna più forte rispetto ai paesi vicini, abbiamo attirato le importazioni. Sarebbe stato diverso se i nostri impianti di produzione fossero stati in grado di rispondere. Ma non è stato così, per un semplice motivo: negli anni che precedettero l'arrivo della sinistra al potere, gli investimenti produttivi avevano fatto progressi insufficienti. . . Aggiungo che ai dirigenti aziendali questo cambio di governo non è piaciuto. Quando non c'è fiducia, non ci sono investimenti.


 

Questo è un problema che qualsiasi governo riformista con ambizioni radicali si trova a dover affrontare, indipendentemente dalla situazione in cui si trova al momento in cui va al potere.

 

Il governo Mitterrand aveva cercato di risolvere queste difficoltà trattando con i rappresentanti delle imprese francesi. In effetti, alcuni resoconti sulle sue macchinazioni in questo periodo sostengono che aveva già accettato di fare alcune concessioni chiave di fronte alle richieste del mondo imprenditoriale all'inizio del 1982, dando così inizio in segreto alla svolta verso l'austerità.

 

Ma in ogni caso, l'esempio francese illustra un punto importante che i socialisti devono tenere a mente: il potere politico della classe capitalista non dipende solo da ciò che il capitale può fare, ma anche da ciò che può decidere di non fare - investire. È il suo controllo sulla funzione di investimento, non la sua organizzazione collettiva, la chiave del potere dei capitalisti nella sfera politica: dato che, in un'economia capitalista, gli investimenti sono il prerequisito per crescita, occupazione ed entrate fiscali, i politici sono sempre incentivati a dare priorità all'esigenza di conquistare la fiducia delle imprese, rispetto a tutte le altre considerazioni.

 

L'unica alternativa è cercare di assumere il controllo degli investimenti. Ma alla fine, questo non era l'approccio che Mitterrand era intenzionato ad avere.

 

Una nuova era del capitalismo francese


 

Il dietrofront di Mitterrand portò a un reimpasto di governo. Ma non provocò immediatamente l'uscita dal governo della sinistra. Chevenement mantenne il suo posto di ministro dell'Industria per un altro anno, e i comunisti non usciranno dal gabinetto fino a dopo le elezioni europee del 1984, quando il risultato del PCF si ridusse fino ad arrivare a circa lo stesso livello di quello del FN. Mai più, comunque, il governo di Mitterand avrebbe perseguito una strategia economica reflazionistica.

 

Dal 1983 in poi, le priorità del governo incarnarono il nuovo percorso di Mitterrand: anziché la crescita o l'occupazione, l'enfasi ora era sulla stabilità dei prezzi e sul contenimento della spesa pubblica. In effetti, a quel punto, Mitterrand era diventato "ossessionato dall'inflazione" (per citare uno dei suoi colleghi). Dopo la svolta verso il rigore, le prospettive economiche del presidente incominciarono a rispecchiare le preoccupazioni dell'establishment imprenditoriale: già nell'autunno del 1983 deplorava le "eccessive" tasse a carico delle imprese, dichiarando in un'intervista radiofonica che la tassazione elevata erano la causa degli investimenti e dei tassi di occupazione stagnanti.

 

Nel 1984, il governo aveva iniziato a tagliare i sussidi all'industria francese, costringendo le imprese non competitive a ristrutturarsi e ridurre i costi. Com'era prevedibile, il risultato fu un impulso su larga scala verso la riduzione dei salari, per rendere i produttori francesi più competitivi. La conseguente ondata di licenziamenti annunciata colpì in modo particolare i dipendenti delle industrie un tempo basilari: tra i settori più duramente colpiti ci furono quelli dell'acciaio, dove il governo annunciò che avrebbe eliminato 25.000 posti di lavoro; della costruzione navale, che vide ridursi la sua capacità del 30 %, con una perdita conseguente di 6.000 posti di lavoro; e il settore minerario, che subì una riduzione degli aiuti di Stato di oltre un quarto in soli cinque anni, con una conseguente perdita di 20.000 posti di lavoro.

 

Negli anni successivi, il governo supervisionò una ristrutturazione massiccia del capitalismo francese: rimuovendo le sovvenzioni per le imprese in difficoltà, permettendo a vaste aree dell'industria di andare in bancarotta e smantellando le istituzioni centralizzate del modello dirigista del dopoguerra .

 

Sotto la sorveglianza di Mitterrand, i socialisti supervisionarono l'allentamento della legislazione sul lavoro, con il conseguente aumento dei licenziamenti e una costante crescita dell'incidenza delle forme di lavoro atipico. Nel frattempo, i controlli sui capitali e le restrizioni sulle attività finanziarie venivano aboliti, dal momento che il governo perseguiva la politica del franco forte .

 

Nei due decenni successivi, i governi francesi sia di sinistra sia di destra avrebbero supervisionato la privatizzazione di quasi tutta la dotazione di beni pubblici, una volta assai ampia, dello Stato. Alla fine degli anni '90, sostanzialmente tutte le nazionalizzazioni che Mitterrand aveva intrapreso nei suoi primi due anni in carica erano state capovolte: il settore bancario, le telecomunicazioni, l'elettricità e i trasporti erano stati tutti almeno parzialmente privatizzati.

 

Di conseguenza, la svolta verso l'austerità che era stata originariamente formulata dai suoi sostenitori come una semplice "pausa" nel progetto riformista del governo - una "parentesi", per citare un funzionario - si trasformò in una interruzione definitiva.

 

La resistenza dei lavoratori a tutti questi tagli fu in gran parte inefficace. Per la maggior parte, i sindacati francesi non furono in grado di difendere i livelli di occupazione né gli standard lavorativi esistenti contro la crescente ondata di austerità.

 

Uno dei rari casi di militanza industriale sostenuta durante questo periodo si verificò presso lo stabilimento automobilistico Peugeot-Talbot di Poissy. Si trattava della più grande area industriale nella zona di Parigi, un complesso che ospitava 13.000 lavoratori. Nel 1982, la direzione annunciò che le riduzioni di forza lavoro ammontavano a quasi un terzo dei dipendenti della fabbrica.

 

Gli operai, tra cui molti immigrati, si erano lamentati a lungo delle pessime condizioni di lavoro, della repressione da parte del management delle organizzazioni sindacale e della diffusa discriminazione. A dicembre, quando il ministero del Lavoro annunciò il suo accordo su una versione riveduta del taglio di posti di lavoro proposti, fu dichiarato uno sciopero, che si dimostrò abbastanza efficace. Eppure, anche a Poissy i lavoratori alla fine dovettero soccombere - sconfitti dall'intransigenza del governo e dell'azienda, nonché dal conservatorismo dei sindacati.

 

Il caso di Poissy è indicativo dell'impatto dell'austerità sul movimento operaio francese. La svolta di Mitterrand verso il rigore aggravò il declino delle organizzazioni sindacali e indebolì ulteriormente la militanza all'interno delle industrie, con conseguente caduta della sindacalizzazione e della partecipazione agli scioperi per tutto il resto degli anni '80. Queste tendenze ebbero conseguenze particolarmente dannose per la CGT, che vide le sue adesioni calare da circa 2 milioni all'inizio degli anni '80 a circa 600.000 un decennio dopo.

 

Eppure, dal suo punto di vista, l'agenda economica riveduta dal governo ebbe anche una serie di successi.

 

L'inflazione, che aveva raggiunto il 12,6% nel 1982, scese al 7,1% nell'84 e poi al 6% nell'85. Il disavanzo delle partite correnti della Francia scese dal 2,2% del Pil nel 1982 allo 0,2% nel 1984; nel 1985 la Francia aveva un surplus di partite correnti. E, ora che erano in grado di ridurre salari e dipendenti, le imprese francesi gradualmente tornarono alla redditività: nel 1985, ad esempio, i sei maggiori gruppi industriali nazionalizzati nel 1981-82 erano tutti redditizi.

 

Ma i costi di questi successi furono enormi. Le retribuzioni nette nel 1984 diminuirono del 2,5%. Dopo l'inversione a U di Mitterand la disoccupazione non fece che aumentare costantemente, raggiungendo il 9,7% nel 1984 e superando quota 10% entro l'anno successivo. La disoccupazione non avrebbe iniziato a diminuire in modo sostenuto fino alla fine degli anni 90. E la "quota salari" (la percentuale di PIL distribuita ai dipendenti sotto forma di salari) non farà che scendere costantemente, dopo il picco nel 1982.

 

Nel frattempo, la spesa sociale continuò a crescere. Di fatto, per il resto del decennio, l'elevata disoccupazione determinò un aumento costante della spesa per il welfare: a metà degli anni 90, i finanziamenti per la sicurezza sociale mangiavano il 30% del Pil. In questo contesto, i governi francesi utilizzarono ripetutamente il peso dei costi dovuto agli alti livelli di disoccupazione come giustificazione dei tentativi di ridurre le protezioni sociali.

 



 

François Mitterrand parla con Margaret Thatcher nel 1981

 

Allo stesso tempo, l'approccio del governo su altri fronti politici diventò sempre più conservatore. Questo cambiamento fu particolarmente evidentemente in politica estera, campo in cui Mitterrand divenne uno stretto alleato di Reagan e Thatcher; nell'istruzione, con gli anni dopo il 1983 che videro abbandonare la promessa di creare un sistema scolastico pubblico laico di fronte all'opposizione della destra; e nel campo della giustizia criminale e della polizia, in cui la decisione iniziale di abolire la pena di morte fu seguita da uno spostamento verso politiche sempre più severe di ordine pubblico.

 

Inoltre, insieme al suo ex ministro delle finanze, Jacques Delors (che fu nominato presidente della Commissione europea nei primi mesi del 1985), il presidente sarebbe diventato un architetto chiave della zona euro e dell'Unione europea, per esempio guidando i negoziati sul trattato di Maastricht del 1992, che impone rigidi requisiti di bilancio pubblico ai potenziali membri della zona euro (compresi il limite di disavanzo annuale al 3% del Pil e debito pubblico al 60% del Pil). In effetti fu il governo francese, sotto la sua direzione, a spingere maggiormente perché fosse creata una Banca centrale europea indipendente, con il compito di mantenere la stabilità monetaria e dei prezzi.

 

Mitterrand ha quindi svolto un ruolo chiave nella creazione dell'Europa neoliberista.

 

Ironia della storia, visto quanto il suo governo ha lottato per superare vincoli non troppo diversi da quelli che si è trovato di fronte Alexis Tsipras, sono stati proprio i socialisti di Mitterrand a creare il laccio istituzionale che ha finito per stringere l'austerità alla gola della Grecia.

 

Se vogliamo spiegare questi capovolgimenti della politica di Mitterand, non possiamo addurre considerazioni elettorali o altri fattori politici di breve termine. In effetti, lo spostamento di Mitterrand verso il rigueur portò a una brusca caduta nell'apprezzamento del governo: nell'estate del 1982 il sostegno pubblico a Mitterrand si era attestato a un massimo del 74%. Nel giro di un anno, era sceso al di sotto del 50%, con il 70% dell'opinione pubblica francese che riteneva che il governo fosse stato "gravemente indebolito" dall'austerità. Nel 1984, il tasso di apprezzamento di Mitterrand era al 32%, a quel tempo il minimo storico per un presidente francese in carica.

 

Nel frattempo, la sinistra capitombolava da una sconfitta elettorale all'altra, subendo gravi perdite alle elezioni regionali nel 1983 e alle elezioni europee l'anno successivo, prima di perdere la maggioranza parlamentare nel 1986 (in elezioni in cui il suo slogan era "Aiuto! Sta tornando la destra!").

 

Questa sconfitta portò a due anni di "coabitazione", durante il quale Mitterrand fu costretto a lavorare con un governo di destra guidato dal primo ministro Jacques Chirac. Nel 1988, la sinistra riacquistò la sua maggioranza, mentre Mitterrand stesso fu rieletto. Ma il suo governo non avrebbe mai riguadagnato lo slancio che aveva caratterizzato i suoi primi due anni di mandato.

 

In un senso, tuttavia, la strategia di Mitterrand fu politicamente efficace: se il PS perse il sostegno elettorale dopo la svolta di Mitterrand verso il rigore, il PCF soffrì molto di più. I comunisti persero costantemente terreno nei confronti dei loro concorrenti socialisti durante gli anni 80 - e le loro fortune non migliorarono nemmeno dopo che uscirono dal governo e si riposizionarono come opposizione di sinistra.

 

Nel 1986, il risultato alle elezioni legislative del PCF fu nettamente ridotto rispetto a dove si trovava alla fine degli anni 70. Continuò a calare negli anni successivi: nel 1995 il candidato del partito alle elezioni presidenziali di quell'anno ottenne meno del 9% dei voti, e la percentuale non fece che calare nelle due elezioni successive.

 

In retrospettiva, il PCF non si è mai ripreso dalla débâcle legata a Mitterrand. Gli elettori non hanno mai creduto che i comunisti fossero veramente impegnati nell'unità della sinistra; ma dopo che entrarono a far parte dell'esecutivo, la riluttanza del partito a criticare Mitterrand troppo apertamente - per il timore di provocare una spaccatura nel governo - si rivelò controproducente. Anche dopo che Mitterrand abbandonò il suo programma di riforme in favore dell'austerità, i ministri del PCF rifiutarono di dimettersi. Ciò rese ancor più difficile agli elettori prestare fiducia ai loro attacchi contro i socialisti posteriori al 1984.

 

Il risultato di tutto ciò fu che, negli anni 90, un PS sempre più neoliberale sostituì il PCF come forza dominante nella sinistra francese. In questo senso, almeno, Mitterrand ha raggiunto i suoi obiettivi.

 

Strade non tentate


 

Al culmine dell'incertezza sulle politiche economiche della sua amministrazione nei primi anni '80, si racconta che Mitterrand si lamentò così con uno dei suoi collaboratori: "In economia, ci sono due soluzioni. O sei un leninista, oppure non cambierai nulla. "

 

Mitterrand, naturalmente, non era un leninista, nonostante quello che avevano sostenuto un tempo i giornali di destra. Anzi, alla fine, deluse persino le speranze che il suo governo potesse intraprendere un programma riformista moderato - per non parlare del tipo di percorso parlamentare verso il socialismo che aveva promesso.

 

Nonostante le sue dichiarate intenzioni rivoluzionarie, e nonostante la retorica del Programma Comune e della sua piattaforma elettorale del 1981, Mitterrand rimase sempre una figura della sinistra parlamentare tradizionale, il cui socialismo non oltrepassò  mai di molto i confini di una energica socialdemocrazia in stile francese. Il suo era un progetto tecnocratico di ricostruzione economica e riforma sociale.

 

Mitterand non era interessato a mobilitare la base popolare a sostegno della sua agenda politica; si circondò di consiglieri che in ogni fase cruciale consigliavano moderazione e limiti. E ha costantemente cercato di evitare di esacerbare le tensioni sociali e politiche.

 

Questo è un peccato, perché solo attraverso il tipo di misure e mobilitazioni che inevitabilmente avrebbero provocato conflitti più intensi con le élite il presidente avrebbe potuto sperare di salvare il suo programma economico. I vincoli che i politici francesi avevano nei primi anni 80 erano troppo grandi per qualsiasi compromesso con il capitale che avrebbe potuto evitare la deflazione; questi vincoli erano radicati nelle restrizioni monetarie che derivavano dagli impegni istituzionali francesi nello SME e dall'impatto delle politiche deflazionistiche negli Stati Uniti e in Germania.

 

Ma più fondamentalmente, hanno avuto origine nelle deficienze strutturali del capitalismo francese: gli investimenti e i tassi di profitto cronicamente bassi; la mancanza di competitività sui mercati di esportazione; l'incapacità dei pianificatori statali di compensare la stagnante crescita della produttività; ricerca e sviluppo sotto gli standard e via dicendo.

 

Nelle circostanze dei primi anni 80, evitare l'austerità avrebbe richiesto la volontà di intraprendere misure sempre più drastiche: ad esempio, l'imposizione di controlli sui capitali più stringenti per limitare le pressioni speculative sul franco; un impegno a maggiori restrizioni sulla crescita dei salari e dei prezzi; un ulteriore aumento delle tasse per coprire il crescente deficit pubblico; e lo sviluppo di un regime di pianificazione più efficace e più democratico.

 

Intraprendere quella strada avrebbe provocato certamente un'escalation del conflitto con il capitale, senza alcuna garanzia di un esito favorevole. Probabilmente avrebbe portato all'uscita della Francia dallo SME. Una rottura con il capitalismo avrebbe isolato la Francia e l'avrebbe costretta a perseguire una strada verso il socialismo in condizioni di autarchia economica. Ciò sarebbe stato possibile solo attraverso la mobilitazione dei sostenitori del governo appartenenti alla classe operaia, che avrebbe generato ulteriori levate di scudi da parte del mondo imprenditoriale, e probabilmente avrebbe tolto il sostegno al governo da parte di vaste aree della classe media.

 

Realizzare questo tipo di strategia avrebbe richiesto un governo diverso, con un approccio diverso - anzi, date le oscillazioni del Partito comunista nei confronti di Mitterrand, avrebbe richiesto una sinistra diversa, una sinistra disposta a comunicare una visione della trasformazione socialista e delle difficoltà che i lavoratori avrebbero dovuto affrontare per arrivarci.

 

D'altra parte, un tentativo di mobilitare il sostegno della classe operaia a un'offensiva prolungata contro le prerogative del capitale offriva l'unica via d'uscita per evitare i lunghi decenni di neoliberalismo che sono seguiti. Una simile strategia avrebbe potuto fallire, ma avrebbe anche contenuto i potenziali semi di una vera democratizzazione della vita sociale ed economica. In questo senso, avrebbe potuto aprire la possibilità che l'enorme sostegno alla sinistra al momento dell'elezione di Mitterand potesse essere tradotto in un autentico esperimento socialista.

 

Se Mitterrand non ha intrapreso questa strada, non è sufficiente accusare le sue debolezze politiche. Non basta affermare che Mitterrand era un socialdemocratico opportunista, che temeva il confronto con le imprese. Invece, dovremmo imparare qualcosa dall'incapacità mostrata dal suo governo di superare i vincoli strutturali che ha dovuto affrontare quando è salito al potere.