26/11/22

È la guerra, Josep Borrell, ma non come noi la conosciamo



Sul sito Trying To Understand The World una analisi interessante che approfondisce il contesto strategico più ampio della guerra in Ucraina, piena di realismo e di buon senso, dalla quale si evince non solo che Russia ed occidente hanno due approcci alla guerra molto lontani tra loro, ma anche che l'apparato occidentale ha per diversi motivi una difficoltà intrinseca a comprendere la strategia dei russi e di conseguenza ovviamente anche a rispondere efficacemente. (Un'altra preziosa segnalazione di @BuffagniRoberto)

   

Aurelien*, 23 Novembre 2022

 

Ho in gran parte evitato di scrivere qualcosa di troppo attuale sul conflitto in Ucraina e nella regione circostante, perché non mi piace la polemica, e comunque non ho abbastanza conoscenze tecniche per scrivere di questioni militari contingenti. Tuttavia, non posso fare a meno di essere colpito dal senso di disorientamento e confusione intellettuale mostrato da molte pagine scritte in occidente sui combattimenti. A sua volta, questo deriva, ritengo, da una fondamentale riluttanza dell'occidente a fare il duro lavoro di apprendere la strategia e l'uso politico della forza militare e ad alzare gli occhi dall'eccitazione delle esplosioni, e dalle avanzate e ritirate sul campo di battaglia, per guardare il quadro generale.

Quindi, proverò qui a fare qualche passo indietro, e parlerò del più grande dei grandi quadri generali, e cercherò di mostrare che, per capire ciò che secondo me i russi stanno cercando di fare, debbano essere presi in considerazione vari fattori politici ed economici. Qualunque sia la vostra opinione sul conflitto, è molto difficile dire qualcosa di utile al riguardo (mi sto riferendo a te, Josep Borrell, per esempio), a meno che non si faccia uno sforzo per capire l'importanza di questi fattori.

Fortunatamente, altri prima di me hanno seguito questa strada prima di scrivere di strategia, e nessuno in modo più proficuo del grande soldato prussiano e teorico militare, Carl von Clausewitz. Ora, uno dei motivi per cui Clausewitz è importante, è che egli rientra in un gruppo molto selezionato di teorici e storici, come Machiavelli e Tucidide, praticamente coinvolti nelle cose di cui scrivevano. Come accade con questi altri, anche con Clausewitz si fa riferimento a lui molto più di quanto lo si legga, e anche quando lo si legge, viene spesso frainteso. Ma Clausewitz è stato il primo teorico importante ad abbandonare gli scritti dettagliati sulla tattica e a porre (e in effetti a rispondere) la domanda: a cosa serve effettivamente la guerra? E perché gli stati ricorrono alla forza militare? La sua risposta è stata semplice: la guerra è "un atto di forza per costringere il nostro nemico a fare la nostra volontà". Vogliamo che il nostro nemico faccia qualcosa, o smetta di farla, e quindi, dice Clausewitz, dobbiamo mettere il nostro nemico in una "situazione che è ancora più spiacevole del sacrificio che gli chiedi di fare".  Inoltre, aggiunge, questa situazione non può essere transitoria, cioè una situazione in cui il nemico possa semplicemente aspettare che le cose migliorino, ma deve essere una situazione in cui il nemico sia effettivamente indifeso, o sia probabile che lo diventi.

Ma Clausewitz insiste sulla necessità di situare la guerra nel contesto della policy dello stato  (non della “politics", poiché il termine ‘politik’ qui è spesso tradotto erroneamente). Le guerre iniziano, dice, a causa di qualche "situazione politica, e l'occasione è sempre dovuta a qualche obiettivo politico". Così, "la guerra non è semplicemente un intervento di policy, ma un vero e proprio strumento politico, una continuazione del confronto politico, portato avanti con altri mezzi... L' obiettivo politico è il fine, la guerra è il mezzo per raggiungerlo, e i mezzi non possono mai essere considerati isolatamente dal loro scopo” (corsivo mio). Sebbene On War sia un testo proibitivo, queste citazioni (nella traduzione standard di Howard e Paret) sono tutte tratte dal Libro I, e si può scaricare una vecchia traduzione di pubblico dominio di quel Libro e leggerla in un'ora. (Forse l'ufficio del signor Borrell dovrebbe prendere in considerazione di farlo.)

Dopo averlo fatto, le cose diventano immediatamente molto più chiare, e una serie di domande non poste dai media e dai politici occidentali diventano ovvie. Quali sono, ad esempio, i più grandi obiettivi politici russi? Quanto sono significativi gli attuali combattimenti in Ucraina, e quanto sono realmente significative le singole battaglie? Quali attività parallele vengono portate avanti, politicamente ed economicamente, tutte nella stessa direzione? E quale visione hanno i russi della situazione cui vogliono arrivare - quello che Clausewitz chiama lo 'stato finale'?

Ma perché queste domande non vengono poste in modo sistematico dall'occidente? Dopotutto, se vuole ostacolare i piani russi, potrebbe avere senso provare a dedurre quali sono quei piani e come i russi si aspettano di realizzare il loro 'stato finale'.

La risposta, credo, viene dalla combinazione di due fattori. In primo luogo, gran parte dell'impeto politico sull'Ucraina viene dai paesi anglosassoni, la cui storia di guerra, e il cui pensiero sulla guerra, è limitato, e si riferisce essenzialmente alle sortite e alle spedizioni militari. A parte brevissimi periodi nel 1916-18 e nel 1944-45, gli inglesi e gli americani non hanno mai dovuto considerare l'uso di grandi forze terrestri e aeree né sviluppare una dottrina per il loro impiego. Storicamente, le spedizioni militari sono state ridotte, con obiettivi limitati, e molto lontane dalla madrepatria. La guerra delle Falkland del 1982, nonostante sia stata una notevole conquista militare, si inserisce perfettamente in questa tradizione, di tattiche di piccole unità, di leadership individuale e improvvisazione sul campo di battaglia.

Il tipo di operazioni militari che gli europei hanno effettivamente condotto dal 1945, e soprattutto dal 1989, tendono a seguire questo modello. Sebbene intere generazioni di ufficiali della NATO abbiano pianificato e condotto esercitazioni su scontri apocalittici con il Patto di Varsavia, quei paesi che hanno effettivamente effettuato delle operazioni nella vita reale sono stati coinvolti in missioni di controinsurrezione o di mantenimento della pace, di intensità molto inferiore. E quando gli europei, ancora un po' storditi dalla caduta del muro di Berlino, hanno iniziato a pensare a quali compiti avrebbero potuto svolgere i loro militari nel futuro, la loro ipotesi migliore è sempre stata più o meno la stessa: missioni di pace, evacuazioni con assistenza militare, gestione delle crisi e così via. E così il servizio nazionale e i grandi eserciti sono stati abbandonati, la guerra su larga scala ad alta intensità non è stata più studiata se non dal punto di vista storico, e si faceva carriera guidando piccoli gruppi di soldati in missioni lontane.

Il secondo fattore è semplicemente che in generale le guerre dell'occidente sono state guerre a responsabilità limitata, dove poche sono state le vittime in patria. È vero, le guerre in Algeria, Angola e, verosimilmente, Vietnam, hanno prodotto crisi politiche e fatto cadere governi, ma la morte e distruzione vera e propria è avvenuta quasi sempre altrove.

Per i russi, la geografia ha imposto una serie di criteri diversi. Da sempre un paese enorme con una popolazione relativamente numerosa e lunghi confini, la nazione nella sua storia ha subito ripetutamente invasioni militari straniere. È abituata a dover combattere sul proprio territorio e nella sola seconda guerra mondiale ha subito quasi trenta milioni di morti, in gran parte civili. Pertanto, la difesa nazionale è letteralmente una questione di vita o di morte, e pensare alla guerra, e pianificarla, sono cose che avvengono a un livello strategico enormemente più elevato e più complesso. Vale anche la pena sottolineare che la formidabile struttura della scienza militare marxista-leninista non ha perso la sua influenza, e il marxismo è stato soprattutto una dottrina basata sul predominio di forze materiali tangibili.

Questa esperienza russa produce inevitabilmente un modo di guardare al conflitto radicalmente diverso da quello occidentale, fermo restando che lo stesso occidente ha dovuto dolorosamente imparare lezioni simili durante due Guerre Mondiali, per poi puntualmente ogni volta dimenticarle . La guerra è vista in senso totale: come lotta politica, economica e militare insieme. Puri numeri, disciplina politica, enormi riserve di uomini e attrezzature, capacità di mobilitazione totale e pianificazione strategica ambiziosa e a lungo raggio, sono caratteristiche inevitabili di un tale approccio, quindi se vogliamo comprendere cosa cercano di ottenere i russi, sarebbe bene considerare questi fattori. Lo 'stato finale' non è, per definizione, militare, e quindi i militari possono contribuire a tale stato finale in una grande varietà di modi. La vittoria sul campo di battaglia potrebbe non essere la priorità assoluta, se altri fattori stanno operando a tuo favore, e l'impiego di grandi forze su una vasta area imporrà di per sé un modo di pensare di livello superiore. Ad esempio, dare battaglia, anche se pensi di vincere, potrebbe essere una cattiva idea se fa consumare unità ed equipaggiamento che saranno assolutamente necessari altrove. Meglio ritirarsi. Al contrario, invitare il nemico ad attaccare le tue posizioni, anche se tatticamente svantaggioso, può essere una buona idea se infliggi delle pesanti perdite che il tuo nemico non può sostituire.

Le forze armate sovietiche e russe hanno una lunga tradizione nello studio delle terribili guerre del passato del loro paese, e da questa analisi derivano una serie di ovvie conclusioni. Una è l'importanza dei numeri, del personale, delle attrezzature e delle munizioni. In una lunga guerra, che i russi, a differenza dell'occidente, si sono sempre aspettati di dover combattere, queste cose contano moltissimo. Nella Guerra Fredda, l'Armata Rossa pianificò di vincere con una tattica nota come “echeloning” (scaglionamento, ndt). In sostanza, invii per prime le tue forze migliori, che vengono per lo più distrutte, ma distruggi anche le migliori forze nemiche. Quindi invii il tuo secondo scaglione e sbaragli le rimanenti forze del nemico, anche se perdi la maggior parte delle tue. Il tuo terzo scaglione non trova effettivamente nessuna opposizione, e vinci. (Questo non avrebbe sorpreso Clausewitz, che sosteneva che era importante essere “forti ovunque, specialmente al punto decisivo.”) Lo stesso vale per le scorte di munizioni. Se hai munizioni per due milioni di colpi e il tuo nemico ne ha mezzo milione, il tuo nemico le esaurirà prima di te, dopodiché avrai il predominio. L'occidente ha scelto, dalla fine degli anni '40, di avere meno armi e meno uomini, sperando che la qualità prevalga sulla quantità. Durante la Guerra Fredda, prevedeva anche di utilizzare precocemente armi nucleari tattiche, poiché non poteva accettare l'onere economico di mantenere numerose forze convenzionali, come faceva l'Unione Sovietica. Per fortuna, non sapremo mai se nella Guerra Fredda questo avrebbe funzionato, ma chiaramente è esattamente l'opposto della politica che i russi hanno continuato a perseguire fino ai tempi recenti.

Se vi sembra una guerra su scala industriale, è esattamente così, proprio letteralmente così, in quanto l'importanza della produzione bellica è stata un'altra lezione dal 1941-45, quando l'Unione sovietica ha superato i tedeschi in attrezzature militari, anche dopo aver spostato le sue fabbriche ad est degli Urali. Inoltre, l'equipaggiamento sovietico, e successivamente quello russo, era progettato per essere azionato da coscritti, e quindi era mantenuto relativamente semplice, in modo da poter essere impiegato su larga scala. Stiamo vedendo i risultati ora in Ucraina, dove i carri armati T-62, tenuti in riserva per molti anni, vengono inviati nel Donbass per essere gestiti dalle milizie locali e dai riservisti richiamati, con standard di addestramento inferiori. L'occidente ha optato per piattaforme che prese in sè potrebbero funzionare meglio in combattimento (finora nessuno lo sa), ma sono molto più complesse e difficili da gestire e mantenere. Tra l'altro, qualsiasi tentativo di accrescere notevolmente le forze occidentali in futuro richiederebbe un completo ripensamento di concetti come facilità d'uso, tempo di addestramento e manutenzione delle attrezzature.

L'occidente ha una difficoltà intrinseca con questo tipo di approccio. In particolare, la sua tradizione di storia e teoria militare si concentra molto più sulle battaglie che sulle campagne, molto più sui leader che sulle forze armate, molto più sulle storie dei singoli sistemi d'arma che sulla produzione bellica. Anche gli storici che hanno scritto a proposito del fronte orientale nella seconda guerra mondiale, tendono sempre a scrivere di singole battaglie (in particolare Kursk), mentre i migliori resoconti (di Chris Bellamy, per esempio) si concentrano correttamente sulla campagna. In effetti, è stato argomentato in modo convincente che le singole battaglie in quel terribile conflitto hanno influenzato in gran parte solo la tempistica degli eventi, e che sono stati i fattori sottostanti a determinare il risultato fin dall'inizio. In particolare, la catastrofica sottovalutazione tedesca delle dimensioni e del potere di combattimento dell'Armata Rossa e l'incapacità della Wehrmacht di terminare la campagna entro l'inizio dell'autunno, sono state ritenute condizioni limitanti molto più importanti della vittoria o della sconfitta in una singola battaglia. In ogni caso, è chiaro che questo tipo di approccio è del tutto estraneo agli schemi mentali di quei commentatori occidentali che seguono ogni video, ogni singola voce che gira, ogni svolta della sanguinosa partita che si sta giocando in Ucraina. È difficile trovare una metafora appropriata: forse sono come quei critici musicali che discutono sul costume della prima donna in un'opera, senza badare a se lo spettacolo alla fine sia stato salutato coi fiori e una standing ovation, o se il cast sia stato bersagliato di uova marce.

In definitiva, ribadisco che i russi stanno operando secondo una tradizione Clausewitziana, che considera la forza militare utile solo quando è chiaramente legata a uno scopo politico (e uno scopo non è solo un'aspirazione). L'invasione sovietica dell'Afghanistan, ad esempio, includeva una chiara strategia politica per creare sostegno al nuovo regime tra la classe media professionale, riformare lo stato e il sistema politico e creare forze di sicurezza efficaci . Alla fine non ha funzionato, almeno non dopo la caduta dell'Unione sovietica, ma almeno era una strategia. Al contrario, il tipo di piani per la ricostruzione afghana che ricordo di aver visto circolare in occidente negli anni 2000, erano solo una serie di aspirazioni vagamente collegate, in cui si presumeva che le frecce sulle diapositive Powerpoint rappresentassero in realtà una sorta di relazione causale. È accaduto più o meno lo stesso al tempo della guerra in Iraq (sebbene il Dipartimento di Stato americano avesse fatto del suo meglio). A Washington, il futuro dell'Iraq era visto secondo una serie di fantasie concordanti e consequenziali, senza alcuna idea di come si sarebbero potute realizzare.  Principalmente, questo era dovuto al fatto che il liberalismo presuppone sempre che certi elementi politici esistano universalmente e che una volta che i Cattivi saranno stati rimossi dal potere, le nazioni si svilupperanno automaticamente e ineluttabilmente verso un modello democratico liberale. Questo è ancora in gran misura il punto di vista odierno. Se avete qualcosa a che fare con idee di ricostruzione post-conflitto o di costruzione della pace, in particolare idee commercializzate da organizzazioni come le Nazioni Unite e l'UE, vi verrà presentata una serie di passaggi in sequenza verso un'ipotetica utopia, ma con niente che li tenga insieme. Così, ad esempio, viene mostrato che un cessate il fuoco porta alla smobilitazione, quindi al riavvio del processo politico, quindi alle elezioni, quindi alla stabilità. Ma se domandate esattamente come un cessate il fuoco porterà a riavviare il processo politico (o addirittura perché dovrebbe farlo) verrete accolti con un imbarazzato silenzio. E ovviamente nella vita reale generalmente non è così: è strano che sia il liberalismo, piuttosto che il marxismo, a credere nell'inevitabilità storica.

Quindi, se questa è la tradizione da cui provengono i russi, ed è per questo che l'occidente ha difficoltà a capire cosa sta accadendo in Ucraina, allora cosa possiamo comprendere sul tipo di piano più ampio e a lungo termine che i russi potrebbero avere, e su come procederanno? Tuttavia, prima di iniziare è necessario aggiungere due osservazioni.

In primo luogo, dovremmo evitare la tentazione di presupporre ovunque dei “masterplan”. È facile cadere nelle teorie del complotto sugli Illuminati, il gruppo Bilderberg, la "cabala anglo-sionista" o qualche cospirazione ideata da Washington per distruggere l'economia europea. Questa è roba da bestseller d’aeroporto, non è la vita reale. In secondo luogo, e in parte come conseguenza di questo, non stiamo parlando di un piano complesso e dettagliato nel corso delle generazioni, ma piuttosto di una serie di obiettivi relativamente semplici a diversi livelli, coerenti con quelle che sono state le affermazioni russe fino ad ora, e con uno sguardo imparziale e ragionevole su ciò che ovviamente sono i loro obiettivi di sicurezza. Da bravi studenti di Clausewitz, ci aspetteremmo che i russi considerino la guerra a tutti i suoi livelli, quindi affidiamoci di nuovo a lui come nostra guida.

Si consideri anzitutto quanto detto da Clausewitz sulla necessità che la vittoria sia completa, e definitiva, per evitare che il nemico possa ricominciare la guerra. E qui ricordiamo che, nel 1945, l'Armata Rossa non si fermò al confine russo, ma arrivò fino a Berlino, dove occupò metà del paese e installò un regime fantoccio. Questo tipo di conclusione di una guerra in realtà non è insolito: nel 1814, dopo la sconfitta finale di Napoleone, effettivamente le truppe russe occuparono Parigi. È solo negli ultimi decenni che degli accordi di pace pienamente inclusivi - che affrontano le cause alla base dei conflitti, con la partecipazione dei gruppi vulnerabili e lo svolgimento di negoziati dettagliati che portano a complessi regimi di costruzione della pace e a onnicomprensivi trattati di pace - sono diventati la norma. Questa volta certamente non andrà così, motivo per cui dobbiamo stare molto attenti a come utilizziamo la parola "negoziazione", ma non è nemmeno probabile che i russi vogliano occupare fisicamente l'Ucraina più del necessario. Quindi cosa significherebbe vittoria completa, in questo senso?

Secondo Clausewitz, la prima variabile sarebbe quella del tempo. Per i russi, l'Ucraina deve essere lasciata in una situazione in cui non sia in grado di costituire una minaccia per un periodo di tempo ragionevole. È difficile essere precisi, ma un periodo di venticinque anni sembra plausibile. Ora, anche se i russi non facessero altro, l'ipotesi migliore è che ci vorranno almeno dieci anni buoni per ricostituire le forze ucraine a un livello di efficacia simile a quello del febbraio 2022. Ma si noti che ciò implica la disponibilità di notevoli fondi (di cui l'Ucraina non dispone) o di considerevoli aiuti organizzati e sostenuti dall'estero, inclusi sostanziali rifornimenti di nuovi armamenti da parte delle già esaurite forze armate statunitensi ed europee, o sostanziali investimenti in nuove strutture produttive specifiche per l'Ucraina. Nessuna delle due ipotesi sembra molto probabile. Inoltre, dovrebbe essere reclutata e addestrata una nuova generazione di ufficiali, riparata o ricostruita l'infrastruttura militare, e dovrebbe essere sviluppato tutto un processo di conversione dall'equipaggiamento militare ex sovietico a quello occidentale, insieme alla dottrina operativa associata. E naturalmente l'infrastruttura di base del paese dovrebbe essere riparata affinché l'esercito possa funzionare. Le possibilità di raggiungere questo obiettivo, tanto più nel breve periodo di un decennio, non sono elevate.

Quindi il problema potrebbe risolversi da solo. Tuttavia, probabilmente non è nell'interesse della Russia che l'Ucraina sia completamente disarmata, perché ciò porterebbe a una potenziale instabilità, che potrebbe ricadere sulla Russia stessa. Qualunque governo succederà all'attuale regime di Kiev dovrà essere in grado di controllare il proprio territorio. Quindi i russi potrebbero imporre un trattato di pace all'Ucraina che, ad esempio, includa la creazione di una gendarmeria professionale, autorizzata a guidare veicoli corazzati leggeri ed elicotteri, ma non di più. I tentativi di sviluppare o acquisire sistemi più potenti sarebbero impossibili da nascondere e facili da schiacciare. Questa è una soluzione molto più elegante e molto più economica rispetto ai tentativi di costruire massicce fortificazioni o occupare territori non di lingua russa.

Tuttavia, è ovvio da tempo che l'Ucraina è solo la parte visibile dell'iceberg strategico, per entrambe le parti. L'Occidente vuole, grosso modo, un ritorno agli anni '90 e la fine di un concorrente ideologico e strategico. Gli obiettivi russi ovviamente sono di impedire questo disegno, ma quasi certamente vanno molto oltre. A differenza di tanti altri, non ho idea di cosa ci sia nelle teste del governo russo, ma è possibile fare alcune deduzioni generali dalle bozze di trattato che i russi hanno fatto circolare nel dicembre dello scorso anno. Questi sono testi di trattati, e per di più bozze, quindi è improbabile che costituiscano qualcosa di più di una lista di obiettivi desiderati che in realtà dovrebbero probabilmente essere corretti al ribasso. Ma possiamo fare alcune deduzioni ragionevoli.

Il principale obiettivo russo in Europa è quello di essere la superpotenza militare regionale, in un'Europa che sia militarmente debole, in parte dipendente economicamente dalla Russia, e non rappresenti una minaccia militare. Quindi, per quanto riguarda l’Europa occidentale, ora non siamo lontani da questo obiettivo: solo l'Ucraina si può dire che rappresentasse una minaccia militare, e non è più così. L'idea sarebbe allora quella di convertire l'anello di Paesi attorno ai confini della Russia, Ucraina e Bielorussia (in pratica, i paesi Baltici, Romania e Polonia) in stati realmente neutrali, senza truppe straniere di stanza nel loro territorio. Ciò non significherebbe necessariamente che questi paesi escano dalla NATO, perché le truppe statunitensi, ad esempio, sono di stanza comunque anche in paesi non NATO. Piuttosto, ci sarebbe un tacito accordo (come con la Finlandia durante la Guerra Fredda) che questi stati si comportino con rispetto nei confronti della Russia. Parte di questa soluzione sarebbe il ritiro del numero relativamente ridotto di truppe statunitensi ancora in Europa. È probabile che ciò faccia parte dell'obiettivo parallelo di distruggere di fatto la NATO come alleanza, dimostrando che, in pratica, non ha alcuna utilità militare e, di conseguenza, che quella che viene generalmente chiamata la "garanzia di sicurezza" americana è priva di valore. Si noti che questo non significa che la NATO non possa sopravvivere in qualche forma dormiente e formale: è improbabile che i russi si oppongano a questo.

In tutto ciò, bisogna tenere presente un altro concetto di Clausewitz: il ‘centro di gravità’. Clausewitz ha scritto molto su questo in diverse parti di On War, ma il modo più semplice per comprenderne il significato è considerarlo come l'obiettivo più importante della guerra, da cui dipende tutto il resto. È 'la sostanza ultima della forza nemica' sulla quale dovrebbe essere concentrato il massimo sforzo possibile. Clausewitz osserva che può trattarsi, ma non necessariamente, delle forze militari del nemico. Alla fine del libro, difende strenuamente la decisione di Napoleone di entrare a Mosca nel 1812, piuttosto che inseguire l'esercito russo sconfitto. Nessuna vittoria militare concepibile, sostiene, avrebbe costretto un paese delle dimensioni della Russia a ritirarsi dalla guerra, mentre prendere e occupare la capitale nemica avrebbe potuto giungere a questo. Alla fine, ammette che il piano sia fallito, ma in realtà valeva la pena tentare la conquista di Mosca. Se lo zar e l'aristocrazia fossero stati scossi dalla perdita della città, come sperava Napoleone, la guerra sarebbe finita. Quello era il 'centro di gravità'.

Clausewitz osserva inoltre che il 'centro di gravità' potrebbe essere sferrare un colpo contro un alleato più potente. Quindi, nel caso delle operazioni nella stessa Ucraina, ciò si riferisce alla volontà dell'occidente di continuare a sostenere militarmente, politicamente ed economicamente il regime di Kiev, perché se questa si esaurisce, finirà anche l'effettiva resistenza ucraina, e si aprirà la strada ad altri obiettivi strategici. In una guerra in cui sia la Russia che l'occidente stanno attenti a non colpirsi direttamente, questa volontà dovrà essere attaccata indirettamente, convincendo di fatto l'occidente ad arrendersi, perché il successo è impossibile. Ci sono precedenti per questo, anche se possono sembrare sorprendenti. Le forze NVA/VietCong che combattevano contro gli Stati Uniti e le forze del Vietnam del Sud erano ben consapevoli di non poter ottenere una vittoria militare convenzionale. Quello che potevano fare era portare gli americani al punto in cui si rendessero conto che la lotta era senza speranza, semplicemente continuando la guerra e infliggendo danni politici ed economici agli stessi Stati Uniti. E questo hanno fatto.  Con i francesi in Algeria e i portoghesi in Angola si è avuta una situazione abbastanza simile: entrambi erano militarmente dominanti, ma ogni guerra si è conclusa con l'esaurimento politico ed economico e un cambio di governo. L'Afghanistan è un esempio più recente di in approccio più o meno simile. Quindi, nel nostro caso, l'obiettivo russo è probabilmente l'esaurimento politico ed economico dell'occidente, sino al punto in cui un ulteriore sostegno all'Ucraina sembri inutile, o addirittura impossibile. E anche se potrebbe non essere stato parte dei piani originali, è difficile credere che i russi possano rammaricarsi del fatto che l'occidente continui, almeno per un po', a indebolirsi militarmente ed economicamente per una causa senza speranza.

Quindi, a quel livello, i russi stanno presumibilmente cercando di far sì che l'occidente rinunci a ogni speranza di una soluzione a loro favorevole. Ciò significa che non hanno alcun incentivo a scendere a compromessi o ad accettare colloqui di pace. In effetti, cercano solo di dettare i termini della pace, forse lungo le linee delineate sopra. Se l'occidente non si arrende, le operazioni in Ucraina continueranno finché sarà necessario. A un livello strategico più elevato, i russi probabilmente intendono anche che la guerra duri abbastanza a lungo da rendere chiara in maniera trasparente la debolezza della NATO e l'impotenza degli Stati Uniti, in modo tale da poter raggiungere più facilmente il tipo di obiettivi più ampi che ho appena delineato, oltre a indebolire le economie occidentali.

Ora, non ho idea se questo sia effettivamente ciò che i russi intendono fare: posso solo dire che mi sembra del tutto possibile. Questa è, dopotutto, una società che prende Clausewitz più seriamente di Harry Potter, e Tolstoy come una guida alla guerra migliore di Twitter. E non ho idea se avrà successo. Ma la cosa più importante è che, se l'analisi di cui sopra è anche lontanamente corretta, allora l'occidente è intellettualmente e politicamente mal attrezzato per capire cosa stanno facendo i russi, figuriamoci per reagire efficacemente.


* L'autore scrive sotto lo pseudonimo di Aurelien, e di sé dice di aver fatto una lunga carriera professionale nel governo durante gli anni della Guerra Fredda, e di aver poi passato passato un bel po' di tempo a insegnare e scrivere, soprattutto per un pubblico accademico e professionale. In sostanza, dice di aver girato abbastanza il mondo, incontrato abbastanza persone e fatto abbastanza cose da avere un'idea di come le cose funzionino nella vita reale... 

19/11/22

La carenza di munizioni dell’esercito americano è un fenicottero rosa (non un cigno nero)


Sul sito The National Interest, riconducibile ad ambienti all'interno del Dipartimento della Difesa americano, vengono denunciati i gravi problemi di esaurimento delle scorte di armamenti cui si trova di fronte l'amministrazione Biden nella sua guerra di assistenza all'Ucraina.  Problemi che al Pentagono tutti conoscevano, ma che sono stati ignorati a causa dei pregiudizi cognitivi che affliggono i leader e i reponsabili ad essi collegati. Un caso classico di 'fenicottero rosa', che a differenza del cigno nero è un evento ben prevedibile ma che giunge ugualmente del tutto inaspettato. 

Segnalato in un ottimo thread su Twitter da Roberto Iannuzzi


di *Dan Goure, 10 novembre 2022


I militari dovrebbero stabilire dei requisiti realistici per le scorte di munizioni, basati sulla certezza degli alti livelli di finanziamento che dovranno essere portati avanti in qualsiasi futuro conflitto con la Russia o la Cina.

 Gli sforzi dell'amministrazione Biden per assistere l'Ucraina nella sua guerra con la Russia fanno luce su due gravi problemi della sicurezza nazionale: le scorte inadeguate di munizioni del Dipartimento della Difesa e le difficoltà che deve affrontare la base industriale della difesa per rispondere alla richiesta di un rapido aumento della produzione di armamenti di importanza fondamentale. Sfortunatamente, questi problemi non sono certo una sorpresa per gli alti funzionari responsabili della Difesa.

Si sa da tempo, sia negli ambienti governativi che al di fuori di essi, che l'inventario delle munizioni del Pentagono, in particolare le armi di precisione, è inadeguato a sostenere un conflitto di alta intensità che duri più di pochi mesi. Né la base industriale, né le catene di approvvigionamento sono assolutamente in grado di ricostituire rapidamente le scorte esaurite o di aumentare la produzione di sistemi d'arma essenziali. È necessaria un'azione immediata per affrontare questi due problemi.

Le élite della sicurezza nazionale degli Stati Uniti sono continuamente colte di sorpresa dagli eventi del mondo reale. Vi ricorderete il termine "Cigno Nero", un concetto che per un certo tempo ha avuto molto successo nelle discussioni e nelle pubblicazioni sulla difesa. Era una espressione tratta da un libro sulla capacità di fare previsioni scritto da Nassim Nicholas Taleb, che si riferiva a eventi altamente improbabili e generalmente non previsti, con impatti significativi. Negli ambienti della difesa, i cigni neri erano sfide alla sicurezza nazionale difficili da prevedere. Ad esempio, le improvvise esplosioni di ordigni nel sud-ovest asiatico sono state viste da molti come un cigno nero che inizialmente l'esercito americano era mal preparato a contrastare.

Ma non tutte le sfide alla sicurezza nazionale inaspettate, ma di grande impatto, sono cigni neri. Uno dei principali esperti della difesa di questo paese, Frank Hoffman, ha introdotto l’espressione complementare "Fenicottero Rosa", che ha definito come "un evento prevedibile che viene ignorato a causa dei pregiudizi cognitivi di un leader o di un gruppo di leader, intrappolati da potenti forze istituzionali." In sostanza, si tratta di una situazione in cui si viene colti di sorpresa a causa della riluttanza dei responsabili ad affrontarla.

In seguito alla guerra russo-ucraina, l'esercito americano si trova davanti a dei fenicotteri rosa. Quando la Russia ha invaso l'Ucraina, gli Stati Uniti hanno iniziato a spostare in quel paese grandi quantità di munizioni, inclusi 1.400 sistemi antiaerei portatili Stinger; 8.500 sistemi anticarro Javelin; 38.000 altri sistemi anticarro; 1.500 missili anticarro TOW; 150 pezzi di artiglieria da 150 155 mm e 105 mm; dozzine di missili a lungo raggio per i sistemi di artiglieria missilistica MLRS e HIMARS; un milione di proiettili per obice da 155 mm non guidati; 9.000 proiettili da 155 mm di sistemi RAAM (Remote Anti-Armor Mine); e diverse migliaia di proiettili di artiglieria da 155 mm guidati ad alta precisione.

Di conseguenza, gli Stati Uniti affrontano una crisi di munizioni. Il prelievo dalle scorte di munizioni statunitensi ha raggiunto un punto critico, poiché la domanda di queste bombe, proiettili e missili è aumentata notevolmente. Sfortunatamente, decenni di finanziamenti insufficienti hanno portato a una base industriale della difesa con scarsa capacità di intervento.

Il conflitto ucraino ha messo sotto i riflettori quelli che possono essere definiti come due fenicotteri rosa. Il primo è l'inadeguatezza delle scorte di munizioni esistenti, comprese sia le cosiddette “bombe stupide" che i proiettili di artiglieria, oltre a una serie di armi guidate e mirate ad alta precisione. Alla fine dell'estate del 2022, il Pentagono aveva esaurito le sue scorte di una serie di munizioni fondamentali e poteva promettere all'Ucraina di fornirne ancora solo nel giro di pochi mesi, o addirittura anni.

Il secondo fenicottero rosa è la capacità limitata della base industriale della difesa di aumentare la produzione di munizioni e armi essenziali. Dalla fine della Guerra Fredda, il Pentagono ha consentito la riduzione della base industriale della difesa e, in nome dell'efficienza, ha rifiutato di finanziare qualsiasi eccesso di capacità produttiva, che sarebbe stata necessaria per soddisfare le esigenze attuali. Di conseguenza, con poche eccezioni, non c'è stata a disposizione praticamente nessuna capacità di aumento della produzione, né per sostenere l'Ucraina, né per ricostituire rapidamente le scorte di munizioni statunitensi esaurite.

Si tratta di fenicotteri rosa perché tutti al Pentagono sapevano, da decenni, che le scorte esistenti di munizioni e missili erano inadeguate. Nel 2019  era stato riferito che l'Air Force aveva utilizzato così tante bombe guidate JDAM (Joint Direct Attack Munition) in Afghanistan e in Iraq, che stava per esaurire le scorte. Questo non vale solo per le munizioni più vecchie, ma anche per le più moderne armi da tiro di precisione. Anche prima dell'inizio del conflitto ucraino, il Congressional Research Service aveva avvertito che il Pentagono si stava procurando munizioni avanzate di precisionea lungo raggio - il tipo che sarebbe più necessario in uno scontro di alto livello con la Russia o la Cina - in quantità così ridotte che le forze armate statunitensi le avrebbero esaurite rapidamente.

Ironia della sorte, nello stesso mese in cui la Russia ha invaso l'Ucraina, il Pentagono ha pubblicato i risultati del suo studio sullo stato della concorrenza nella base industriale della difesa. Affrontando la condizione del settore dei missili e delle munizioni, il rapporto osserva che sin dalla fine della Guerra Fredda il numero delle aziende in questo settore si è ridotto, da trenta ad appena sette. Inoltre, osserva il rapporto, le pressioni sul bilancio della difesa hanno portato a un cronico sottofinanziamento dei programmi per i missili e le munizioni.

In aggiunta, l'attuale base industriale della difesa ha una capacità limitata di aumentare rapidamente la produzione. Nel caso dei missili antiaerei Stinger, l'arma deve prima essere riprogettata e poi testata, perché alcune parti sono diventate obsolete. L'espansione della produzione non è una questione di soldi; è una questione di tempo. Come ha riconosciuto James Taiclet, CEO di Lockheed Martin, ci vorranno almeno fino a due anni per raddoppiare la produzione del missile Javelin.

Cosa si può fare per affrontare l'attuale crisi delle munizioni e prevenire un problema futuro in caso di un conflitto di alto livello? Un passo immediato, proposto dal deputato Michael Gallagher (R-WI) e altri al Congresso, sarebbe quello di avviare contratti pluriennali di approvvigionamento di munizioni che massimizzino i ritmi di produzione. Un'altra azione a breve termine suggerita da Gallagher è quella di aggiornare e potenziare le autorità del Defense Production Act, per eliminare la burocrazia e fornire finanziamenti a lungo termine per sostenere la modernizzazione e l'espansione delle linee di produzione. Un terzo passo, proposto da altri, consiste nell'accelerare le procedure di appalto e ottenere fondi per l'industria in tempi rapidi. Infine, e soprattutto, come raccomandato dal generale dell'esercito in pensione John Ferrari in un recente articolo, i militari devono stabilire requisiti realistici per le scorte di munizioni, basati sulla certezza degli alti livelli di finanziamento che dovranno essere portati avanti in qualsiasi futuro conflitto con la Russia o la Cina.

 

* Dan Gouré, Ph.D., è vicepresidente del think tank di ricerca sulle politiche pubbliche Lexington Institute. Gouré ha un background nel settore pubblico e nel governo federale degli Stati Uniti, di recente ha prestato servizio come membro del Department of Defense Transition Team del 2001.

 

17/11/22

D. Rodrik e S.M. Walt - Come costruire un migliore ordine globale

 


Su Foreign Affairs  un articolo molto importante di due tra i più autorevoli studiosi di relazioni internazionali, Dani Rodrik e S.M. Walt, della Harvard University. Essi propongono in maniera dettagliata  un approccio più costruttivo ai rapporti tra le grandi potenze che possa permetter loro di raggiungere l’obiettivo della sicurezza nazionale, senza necessariamente perseguire il primato globale. L'attuale approccio occidentale viene chiaramente definito non più adeguato, perché andando avanti così non è difficile  immaginare un mondo sempre meno prospero e più pericoloso.  Tuttavia, dicono gli autori, questo futuro non è inevitabile, e propongono un modello di relazioni strutturato in quattro parti, in base al quale affrontare le maggiori tensioni del mondo di oggi: dai rapporti tra Usa e Cina, ai rapporti con l'Iran e alla guerra attuale in Ucraina.  Naturalmente sta ai leader politici delle grandi potenze cambiare direzione, ma sta anche ai politici di tutti gli altri paesi, e ai cittadini che essi rappresentano,  far pressioni per un approccio più ragionevole e meno pericoloso.  


Come costruire un migliore ordine globale 

Limitando la rivalità tra grandi potenze in un mondo anarchico

di Dani Rodrik e Stephen M. Walt, Settembre/Ottobre 2022

 

L'ordine globale si sta deteriorando davanti ai nostri occhi. Il declino relativo del potere statunitense e la concomitante ascesa della Cina hanno indebolito il sistema di regole parzialmente liberale che un tempo era dominato dagli Stati Uniti e dai suoi alleati. Le ripetute crisi finanziarie, la crescente disuguaglianza, il rinnovato protezionismo, la pandemia di COVID-19 e il sempre maggiore affidamento sulle sanzioni economiche hanno posto fine all'era dell'iperglobalizzazione post Guerra Fredda. L'invasione russa dell'Ucraina può aver rivitalizzato la NATO, ma ha anche approfondito il divario tra est ed ovest e nord e sud. Nel frattempo, lo spostamento di molti paesi verso le priorità interne e una geopolitica sempre più competitiva hanno fermato la spinta alla crescente integrazione economica e bloccato gli sforzi collettivi per affrontare i pericoli globali incombenti.

L'ordine internazionale che emergerà da questo decorso degli eventi è impossibile da prevedere. Guardando al futuro, è facile immaginare un mondo meno prospero e più pericoloso, caratterizzato da Stati Uniti e Cina sempre più ostili, un'Europa rimilitarizzata, blocchi economici regionali orientati verso l'interno, un mondo digitale diviso lungo linee geopolitiche e relazioni economiche sempre più basate sugli armamenti per fini strategici.

Ma si potrebbe anche immaginare un ordine più favorevole, in cui gli Stati Uniti, la Cina e altre potenze mondiali competono in alcune aree, cooperano in altre, e osservano un codice di regole nuove e più flessibili, progettate per preservare gli elementi cardine di un’economia mondiale aperta e prevenire i conflitti armati, consentendo ai paesi un maggiore margine di manovra per affrontare le priorità economiche e sociali urgenti a livello nazionale. Più ottimisticamente, si può persino immaginare un mondo in cui le principali potenze lavorino insieme attivamente per limitare gli effetti del cambiamento climatico, migliorare la salute globale, ridurre la minaccia delle armi di distruzione di massa e gestire congiuntamente le crisi regionali.

Stabilire un ordine nuovo di questo tipo, più favorevole, non è così difficile come potrebbe sembrare. Attingendo agli sforzi del U.S.-China Trade Policy Working Group (gruppo di lavoro sulla politica commerciale USA-Cina), un forum convocato nel 2019 dal giurista della New York University Jeffrey S. Lehman, dall'economista cinese Yang Yao e da uno di noi (Dani Rodrik), per delineare un approccio più costruttivo ai rapporti bilaterali, proponiamo un semplice modello strutturato in quattro parti atto a guidare le relazioni tra le grandi potenze. Questo modello presuppone solo un accordo minimo su dei principi fondamentali - almeno all'inizio - e riconosce che potrebbero anche rimanere dei contrasti duraturi sulle tante questioni che dovrebbero essere affrontate. Piuttosto che imporre un insieme dettagliato di regole prescrittive (come fanno l'Organizzazione mondiale del commercio e altre istituzioni internazionali), questo quadro funzionerebbe come un "meta-regime": un dispositivo per guidare un processo attraverso il quale degli stati rivali o addirittura avversari potrebbero cercare un accordo o una conciliazione su una serie di problemi. Quando non trovano un accordo, come spesso accade, l'adozione del modello può comunque migliorare la comunicazione tra loro, chiarire perché non trovano un accordo e offrire loro incentivi per evitare di infliggere danni agli altri, anche se cercano di proteggere i propri interessi.

Fondamentalmente, questo modello potrebbe essere messo in atto dagli stessi Stati Uniti, Cina e le altre grandi potenze, per affrontare una varietà di questioni controverse, tra cui il cambiamento climatico e la sicurezza globale. Come è già stato dimostrato in diverse occasioni, l'approccio potrebbe portare a un traguardo che non può essere raggiunto con un'attenzione esclusiva alla competizione tra grandi potenze: un modo per le potenze rivali o persino avversarie di trovare un terreno comune, al fine di  mantenere le condizioni materiali necessarie per l'esistenza umana, far progredire la prosperità economica e ridurre al minimo i rischi di una grande guerra, pur preservando la propria sicurezza.

Gli incentivi a competere sono sempre presenti in un mondo privo di un'autorità centrale, e senza dubbio i poteri più forti continueranno a guardarsi l'un l'altro con sospetto. Se una qualsiasi delle maggiori potenze fa del dominio economico e geopolitico il proprio obiettivo prioritario, le prospettive per un ordine globale più favorevole sono scarse. Ma le pressioni sistemiche alla competizione lasciano ancora molto spazio all'agire umano, e i leader politici possono ancora decidere se abbracciare la logica della rivalità a tutto campo o lottare per qualcosa di meglio. Gli esseri umani non possono sospendere la forza di gravità, ma alla fine hanno imparato a superarne gli effetti e hanno preso il volo. I condizionamenti che incoraggiano gli Stati a competere non possono essere eliminati, ma i leader politici possono ancora intraprendere delle azioni per mitigarli, se lo desiderano.

 

MENO REGOLE, COMPORTAMENTI MIGLIORI

Secondo molte ricostruzioni, l'ordine internazionale emerso negli anni '90 è stato sempre più indebolito dalle dinamiche della competizione tra grandi potenze. Tuttavia, il deterioramento dell'ordine basato sulle regole non deve sfociare necessariamente in un conflitto tra grandi potenze. Sebbene gli Stati Uniti e la Cina diano entrambi la priorità alla sicurezza, tale obiettivo non rende irrilevanti gli obiettivi nazionali e internazionali che entrambi condividono. Inoltre, un paese che ha investito tutte le sue risorse in capacità militari e ha trascurato altri obiettivi, come un'economia equa e prospera o la transizione climatica, non potrebbe considerarsi sicuro nel lungo periodo, anche se in partenza era una potenza globale. Il problema, quindi, non è il bisogno di sicurezza in un mondo incerto, ma il modo in cui tale obiettivo viene perseguito e i compromessi che gli stati devono affrontare quando cercano di bilanciare la sicurezza con altri obiettivi importanti.

È sempre più chiaro che l'attuale approccio occidentale non è più adeguato per affrontare le molte forze che governano le relazioni di potere internazionali. Un futuro ordine mondiale dovrà accogliere le potenze non occidentali e tollerare una maggiore diversità negli assetti e nelle pratiche e istituzionali nazionali. Le preferenze politiche dell'occidente prevarranno meno, la ricerca di armonizzazione tra le economie che ha caratterizzato l'era dell'iperglobalizzazione sarà attenuata, ed a ciascun paese dovrà essere concesso un maggiore margine di manovra nella gestione della propria economia, società e sistema politico. Le istituzioni internazionali come l'Organizzazione mondiale del commercio e il Fondo monetario internazionale dovranno adattarsi a questa realtà. Piuttosto che ulteriori conflitti, tuttavia, queste pressioni potrebbero portare a un ordine nuovo e più stabile. Così come è possibile per le grandi potenze raggiungere l’obiettivo della sicurezza nazionale senza perseguire il primato globale, è possibile e persino vantaggioso per i paesi ottenere i benefici dell'interdipendenza economica nell’ambito di regole internazionali più flessibili e permissive.

Nel nostro schema, le maggiori potenze globali non hanno bisogno di concordare in anticipo le regole dettagliate che regolerebbero le loro interazioni. Invece, come abbiamo delineato in un documento di lavoro per la Harvard Kennedy School, concorderebbero solo su un approccio di fondo alle loro relazioni, in cui tutte le azioni e le questioni sarebbero classificate entro quattro categorie generali: quelle che sono proibite, quelle in cui gli aggiustamenti reciproci da parte di due o più stati potrebbero avvantaggiare tutte le parti, quelle intraprese da un singolo stato e quelle che richiedono un coinvolgimento multilaterale. Questo approccio in quattro parti non presuppone che all'inizio le potenze rivali si fidino l'una dell'altra, né che concordino su quali azioni o problemi appartengano a questa o quella categoria, ma, col tempo, riuscire ad affrontare con successo le divergenze all'interno di questo quadro potrebbe fare molto per aumentare la fiducia e ridurre le possibilità di conflitto.

La prima categoria – le azioni proibite - attingerebbe a norme già ampiamente accettate da Stati Uniti, Cina e altre grandi potenze. Come minimo, questa categoria potrebbe includere degli obblighi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite (come il divieto di acquisire territori mediante conquista), violazioni dell'immunità diplomatica, uso della tortura o attacchi armati contro navi o aerei di un altro paese. Gli Stati potrebbero anche accettare di rinunciare a politiche economiche "beggar thy neighbor", in cui i vantaggi interni vanno a discapito diretto degli altri, a cui vengono arrecati danni: l'esercizio del potere monopolistico nel commercio internazionale, ad esempio, e la deliberata manipolazione delle valute. Gli stati violeranno questi divieti con una certa frequenza e talvolta i governi non saranno d'accordo sul fatto che una particolare azione vìoli una norma stabilita. Ma riconoscendo questa categoria generale, riconoscerebbero che ci sono dei limiti alle azioni accettabili e che oltrepassarli ha delle conseguenze.

La seconda categoria comprende le azioni in cui gli stati possono trarre vantaggio modificando il proprio comportamento, in cambio di simili concessioni da parte di altri. Esempi ovvi includono accordi commerciali bilaterali e accordi sul controllo degli armamenti. Attraverso aggiustamenti politici reciproci, i rivali possono raggiungere accordi a mutuo vantaggio economico o eliminare specifiche aree di vulnerabilità, rendendo così entrambi i paesi più prosperi e sicuri e consentendo loro di spostare la spesa per la difesa su altri bisogni. In teoria, si potrebbe immaginare che gli Stati Uniti e la Cina (o un'altra grande potenza) accettino di limitare determinati dispiegamenti o attività militari, come operazioni di ricognizione vicino al territorio dell'altro o attività informatiche dannose che potrebbero influire negativamente sull'infrastruttura digitale dell'altro, in cambio di equivalenti limitazioni dall'altra parte.

Quando due stati non possono raggiungere un accordo reciprocamente vantaggioso, il modello offre una terza categoria, in cui entrambe le parti sono libere di intraprendere azioni autonome per promuovere obiettivi nazionali specifici, coerenti con il principio di sovranità, ma soggette a eventuali divieti concordati in precedenza. I paesi intraprendono spesso azioni economiche autonome a causa delle diverse priorità nazionali. Ad esempio, tutti gli stati stabiliscono i propri limiti di velocità autostradale e politiche dell’istruzione in base alle preferenze nazionali, anche se limiti di velocità più elevati possono aumentare il prezzo del petrolio sui mercati mondiali e il miglioramento degli standard educativi può influire sulla concorrenza internazionale nei settori ad alta intensità di competenze. In tema di sicurezza nazionale, accordi significativi tra avversari o rivali geopolitici sono particolarmente difficili da raggiungere e l'azione indipendente è la norma. Ciononostante, il quadro impone che tali azioni debbano essere ben calibrate: per evitare ritorsioni ed escalation che rischiano di portare a un riarmo destabilizzante o addirittura a un conflitto aperto, i rimedi dovrebbero essere proporzionati alla minaccia alla sicurezza in questione e non progettati per danneggiare o punire un rivale.



Naturalmente, ciò che un paese considera una risposta ben calibrata, da parte di un avversario può essere percepito come una provocazione, e le stime relative allo scenario peggiore sulle intenzioni a lungo termine di un rivale possono rendere difficile una risposta misurata. Tali pressioni sono già evidenti nella competizione militare crescente tra Stati Uniti e Cina. Eppure entrambi i paesi hanno potenti incentivi a limitare le loro azioni e i loro obiettivi indipendenti. Dato che entrambi sono paesi molto grandi, con una popolazione elevata, una ricchezza considerevole e ragguardevoli arsenali nucleari, nessuno dei due può nutrire alcuna speranza realistica di conquistare l'altro o di costringerlo a cambiare il proprio sistema politico. L'unica possibilità realistica è la coesistenza, e gli sforzi a tutto campo da entrambe le parti per ottenere la superiorità strategica semplicemente distoglierebbero risorse da importanti bisogni sociali, comporterebbero la rinuncia a potenziali guadagni dalla cooperazione e aumenterebbero il rischio di una guerra altamente distruttiva.

La quarta e ultima categoria riguarda quelle questioni in cui un'azione efficace richiede il coinvolgimento di più Stati. Il cambiamento climatico e il COVID-19 ne sono esempi evidenti: in entrambi i casi, la mancanza di un accordo multilaterale efficace ha incoraggiato molti stati ad agire in maniera autonoma, con conseguenti emissioni di carbonio eccessive nel primo caso e un accesso globale inadeguato ai vaccini nel secondo. Nel campo della sicurezza, gli accordi multilaterali come il Trattato di non proliferazione nucleare hanno fatto molto per limitare la diffusione delle armi nucleari. Poiché qualsiasi ordine mondiale si basa in definitiva su norme, regole e istituzioni che determinano il modo in cui la maggior parte degli stati agisce in via ordinaria, la partecipazione multilaterale su molte questioni chiave rimarrà indispensabile.

Visto nel suo insieme, il nostro modello consente alle potenze rivali di andare oltre la semplice dicotomia di "amico o nemico". Senza dubbio gli stati a volte adotteranno delle politiche con il preciso scopo di indebolire un rivale o riuscire a prevalere. Il nostro approccio non farebbe scomparire del tutto questo aspetto della politica internazionale, né per le grandi potenze né per i molti altri paesi. Tuttavia, inquadrando le loro relazioni intorno a queste quattro categorie,  potenze rivali come Stati Uniti e  Cina sarebbero incoraggiate a spiegare le loro azioni e reciprocamente chiarire le loro motivazioni, rendendo così molte controversie meno deleterie. Altrettanto importante, il quadro aumenta le probabilità che la cooperazione cresca nel tempo. Un confronto strutturato secondo le linee che proponiamo consente alle parti di separare potenziali zone di cooperazione dalle questioni più controverse o divisive, farsi conoscere, sviluppare un certo grado di fiducia e comprendere meglio le preferenze e le motivazioni dei loro partner e rivali, come accade quando si considerano situazioni concrete del mondo reale.

 

TRASPARENZA STRATEGICA

Diversi conflitti recenti dimostrano chiaramente i vantaggi del nostro approccio. Si consideri la competizione USA-Cina sulla tecnologia wireless 5G. L'emergere della società cinese Huawei come forza dominante nelle reti 5G globali ha preoccupato i responsabili politici statunitensi ed europei, non solo per le conseguenze commerciali ma anche per le implicazioni sulla sicurezza nazionale: si ritiene che Huawei abbia stretti legami con l'establishment della sicurezza cinese. Ma la dura risposta degli Stati Uniti, che ha cercato di paralizzare le attività internazionali di Huawei e di fare pressioni sugli operatori di telecomunicazioni statunitensi affinché non intrattengano rapporti commerciali con la società, ha solo aumentato le tensioni. Al contrario, il nostro quadro, sebbene consentirebbe ai paesi occidentali una notevole libertà nel limitare le attività di aziende cinesi come Huawei all'interno dei propri paesi, in gran parte per motivi di sicurezza nazionale, limiterebbe anche i tentativi degli Stati Uniti e dei loro alleati di indebolire le industrie cinesi attraverso restrizioni internazionali premeditate e scarsamente giustificate.

In effetti, i frutti di una strategia meglio calibrata per affrontare il conflitto Huawei si sono già visti. Contrariamente alle azioni intraprese da Washington, il governo britannico ha stipulato un accordo con Huawei in base al quale i prodotti dell'azienda nel mercato delle telecomunicazioni britannico vengono sottoposti a una valutazione annuale sulla sicurezza. Le valutazioni sono condotte dal Huawei Cyber ​​Security Evaluation Center, il cui consiglio di amministrazione comprende un rappresentante di Huawei insieme ad alti funzionari del governo britannico e del settore delle telecomunicazioni del Regno Unito. Se la valutazione annuale rileva aree di preoccupazione, i funzionari devono renderle pubbliche e dichiarare le motivazioni. Così, il rapporto HCSEC del 2019 ha rilevato che il software e il sistema di sicurezza informatica di Huawei rappresentano dei rischi per gli operatori britannici e richiederebbero aggiustamenti significativi per poter essere affrontati. Nel luglio 2020, il Regno Unito ha deciso di bandire Huawei dalla sua rete 5G.

In fin dei conti, la decisione potrebbe aver avuto meno a che fare con il rapporto HCSEC che con le pressioni da parte degli Stati Uniti, ma questo esempio illustra comunque le possibilità di un approccio più trasparente e meno controverso. Il ragionamento tecnico su cui è stata presa una decisione sulla sicurezza nazionale può essere considerato e valutato da tutte le parti, comprese le aziende nazionali con una partecipazione commerciale negli investimenti di Huawei, il governo cinese e la stessa Huawei. Questa caratteristica da sola può aiutare a costruire la fiducia, mentre ciascuna parte può avere una comprensione più completa delle motivazioni e delle azioni degli altri. La trasparenza può anche rendere più difficile per i governi nazionali invocare preoccupazioni di sicurezza nazionale come copertura per considerazioni commerciali puramente protezionistiche. E può facilitare il raggiungimento di accordi reciprocamente vantaggiosi a lungo termine.

Tuttavia, è probabile che la maggior parte delle azioni nel settore dell'alta tecnologia finisca nella nostra terza categoria, in cui gli Stati adottano misure unilaterali per promuovere o proteggere i propri interessi. Qui, il nostro quadro richiede che le risposte siano proporzionate ai danni effettivi o potenziali, piuttosto che un mezzo per ottenere un vantaggio strategico. L'amministrazione Trump ha violato questo principio impedendo alle società statunitensi di esportare microchip e altri componenti verso Huawei e i suoi fornitori, indipendentemente da dove operassero o dagli scopi per i quali i loro prodotti venivano utilizzati. Invece di cercare di proteggere gli Stati Uniti dallo spionaggio o da qualche tipo di attacco informatico, la chiara intenzione era quella di sferrare un colpo fatale a Huawei, privandola di input essenziali. Inoltre, la campagna degli Stati Uniti ha avuto gravi ripercussioni economiche per altri paesi. Molti paesi a basso reddito in Africa beneficiavano dei dispositivi relativamente economici di Huawei. Poiché la politica degli Stati Uniti ha importanti implicazioni per questi paesi, Washington avrebbe dovuto impegnarsi in un processo multilaterale che riconoscesse i costi che la repressione di Huawei avrebbe inflitto agli altri - un approccio che avrebbe conservato la buona volontà globale a un prezzo accettabile per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

 

AZIONE, NON ESCALATION

Il nostro modello suggerisce anche come il rapporto travagliato tra gli Stati Uniti e l'Iran potrebbe essere migliorato a vantaggio di entrambe le parti. Per cominciare, l'attuale livello di diffidenza potrebbe essere ridotto se entrambe le parti si impegnassero pubblicamente a non tentare di rovesciare l'altra e ad astenersi da atti di terrorismo o sabotaggio sul territorio dell'altra. Un accordo in questo senso dovrebbe essere facile da raggiungere, almeno in linea di principio, dato che tali azioni sono già vietate dalla Carta delle Nazioni Unite; inoltre, l'Iran non ha la capacità di attaccare direttamente gli Stati Uniti e i precedenti sforzi statunitensi per indebolire la Repubblica islamica sono ripetutamente falliti.

Anche se di breve durata, l'accordo sul nucleare del 2015 ha mostrato come anche avversari incalliti possano essere messi d’accordo su una questione controversa attraverso aggiustamenti reciprocamente vantaggiosi. L'accordo, noto come Joint Comprehensive Plan of Action (JCPOA), è un perfetto esempio di questo approccio negoziato: Cina, Francia, Germania, Russia, Regno Unito, Stati Uniti e Unione europea hanno concordato di revocare le sanzioni economiche legate al programma nucleare iraniano, e l'Iran ha accettato di ridurre le sue scorte di uranio arricchito e di smantellare migliaia di centrifughe nucleari, allungando notevolmente il tempo necessario a Teheran per produrre abbastanza uranio per armi da costruire una bomba.


I sostenitori del JCPOA speravano che l'accordo avrebbe portato a una discussione più ampia su altre aree oggetto di controversia: i successivi negoziati, ad esempio, avrebbero potuto limitare i programmi di missili balistici dell'Iran e le sue altre attività regionali, in cambio di un'ulteriore riduzione delle sanzioni o del ripristino delle relazioni diplomatiche. Come minimo, i colloqui in questo senso avrebbero consentito ad entrambe le parti di spiegare e giustificare le proprie posizioni e avrebbero dato a ciascuna parte una più chiara comprensione degli interessi, delle linee rosse e delle sensibilità dell'altra parte. Sfortunatamente, queste possibilità sono state precluse quando l'amministrazione Trump ha abbandonato unilateralmente il JCPOA nel marzo 2018.

Gli scettici potrebbero affermare che il destino del JCPOA rivela i limiti di questo approccio. Se l'accordo fosse stato nell'interesse di entrambe le parti, potrebbero obiettare, oggi sarebbe ancora in vigore. Ma il miope ritiro degli Stati Uniti ha chiaramente peggiorato la situazione di entrambe le parti. L'Iran è molto più vicino alla produzione di una bomba rispetto a quando era in vigore il JCPOA, i due paesi sono semmai ancora più diffidenti l'uno nei confronti dell'altro e il rischio di guerra è probabilmente più alto. Anche un accordo oggettivamente vantaggioso non durerà, se una o entrambe le parti non ne comprendono i vantaggi.

Dato l'attuale stato delle loro relazioni, gli Stati Uniti e l'Iran continueranno ad agire in modo indipendente per proteggere i propri interessi. Tuttavia, c'è motivo di credere che entrambe le parti comprendano il principio secondo cui le azioni unilaterali dovrebbero essere proporzionate. Quando gli Stati Uniti hanno lasciato il JCPOA nel 2018, ad esempio, l'Iran non ha risposto riavviando immediatamente il suo programma nucleare completo. Invece, ha aderito all'accordo originale per mesi, nella speranza che gli Stati Uniti lo riconsiderassero o che gli altri firmatari ne rispettassero i termini. Quando ciò non si è verificato, l'Iran ha abbandonato l'accordo in modo graduale e palesemente reversibile, segnalando la sua disponibilità a tornare alla piena conformità se anche gli Stati Uniti lo avessero fatto. Anche la reazione dell'Iran alla campagna di "massima pressione" dell'amministrazione Trump è stata misurata. Ad esempio, l'assassinio da parte degli Stati Uniti dell'alto generale iraniano Qasem Soleimani con un attacco di droni non ha portato l'Iran a un'escalation; al contrario, la sua risposta si è limitata ad attacchi missilistici non letali su basi che ospitavano le forze statunitensi in Iraq. Anche gli Stati Uniti hanno occasionalmente mostrato moderazione, come quando l'amministrazione Trump ha scelto di non reagire quando l'Iran ha abbattuto un drone da ricognizione statunitense nel giugno 2019. Nonostante la profonda animosità, finora entrambe le parti hanno riconosciuto i rischi di un'escalation e la necessità di calibrare attentamente le loro azioni indipendenti.

 

DALL'AGGRESSIONE ALLA MEDIAZIONE

Non c'è dubbio che la guerra della Russia in Ucraina abbia oscurato le prospettive di costruire un ordine mondiale più favorevole. L'atto di aggressione di Mosca è stata una chiara violazione della Carta delle Nazioni Unite e alcune truppe russe sembrano essere colpevoli di atrocità in tempo di guerra. Queste azioni dimostrano che anche norme consolidate contro la guerra di conquista o altri crimini di guerra non sempre riescono a prevenirli. Eppure la risposta internazionale all'invasione mostra anche che calpestare tali norme può avere conseguenze potenti.

La guerra evidenzia anche l'importanza della nostra seconda categoria - negoziazione e aggiustamenti reciproci - e cosa può accadere quando gli stati non sfruttano al meglio questa opzione. I funzionari occidentali si sono impegnati con le loro controparti russe in diverse occasioni prima dell'invasione della Russia, ma non hanno affrontato la preoccupazione dichiarata di Mosca, vale a dire la minaccia che ha percepito a causa degli sforzi occidentali per portare l'Ucraina nella NATO e nell'UE. Da parte sua, la Russia ha avanzato richieste di vasta portata, che sembravano offrire poco spazio ai negoziati. Invece di esplorare un vero compromesso su questo problema, come un impegno formale da parte di Kiev e dei suoi alleati occidentali per mantenere l'Ucraina neutrale, combinato con una riduzione dell'escalation da parte della Russia e rinnovati negoziati sullo status dei territori conquistati dalla Russia nel 2014, entrambe le parti hanno irrigidito le rispettive posizioni. Il 24 febbraio 2022, la Russia ha lanciato la sua invasione illegale.

Il fallimento nel raggiungere un compromesso attraverso negoziati lascia la Russia, l'Ucraina e le potenze occidentali nella terza categoria del nostro quadro: l'azione indipendente. La Russia ha invaso unilateralmente l'Ucraina e gli Stati Uniti e la NATO hanno risposto imponendo sanzioni senza precedenti alla Russia e inviando miliardi di dollari di armi e sostegno all'Ucraina. In linea con il nostro approccio, tuttavia, anche in mezzo a questo conflitto eccezionalmente brutale, ciascuna delle parti ha finora cercato di evitare l'escalation. All'inizio, l'amministrazione Biden ha dichiarato che non avrebbe inviato truppe statunitensi a combattere in Ucraina né vi avrebbe imposto una no-fly zone; la Russia si è astenuta dal condurre attacchi informatici diffusi, espandere la guerra oltre il territorio ucraino e utilizzare armi di distruzione di massa. Mentre la guerra continuava, tuttavia, questo senso di moderazione ha cominciato a venir meno, con il Segretario alla Difesa degli Stati Uniti Lloyd Austin che ha affermato che gli Stati Uniti hanno cercato di indebolire la Russia a lungo termine e funzionari russi che hanno accennato all'uso di armi nucleari, indicando che i loro obiettivi di guerra potrebbero essere in espansione.

Anche l'azione unilaterale in Ucraina ha causato danni significativi a terzi. Aumentando drasticamente il costo dell'energia, le sanzioni occidentali alla Russia hanno inferto un duro colpo alle economie di paesi a basso e medio reddito, molti dei quali già devastati dalla pandemia di COVID-19. E i blocchi russi delle spedizioni di grano dall'Ucraina hanno esacerbato una crescente crisi alimentare mondiale. Poiché la guerra ha colpito molti altri paesi, è probabile che porre fine ai combattimenti e infine revocare le sanzioni richieda un impegno multilaterale. La Turchia ha già contribuito a mediare un accordo per consentire la ripresa delle esportazioni di grano ucraino e gli stati che fanno affidamento su queste esportazioni cercheranno senza dubbio accordi che rendano meno probabili interruzioni future. Se l'impegno ucraino a rimanere neutrale farà parte dell'accordo, dovrà essere approvato dagli Stati Uniti e da altri membri della NATO. Kiev vorrà senza dubbio rassicurazioni dai suoi sostenitori occidentali e da altre terze parti interessate o forse un'approvazione sotto forma di risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

GRANDI POTENZE, MAGGIORE COMPRENSIONE

La guerra in Ucraina ci ricorda che un modello come il nostro non può da solo produrre un ordine mondiale più favorevole. Non può impedire agli stati di rimanere incastrati in un costoso conflitto o di perdere delle opportunità per migliorare le relazioni. Ma utilizzare queste ampie categorie per guidare le relazioni delle grandi potenze, invece di cercare di resuscitare un ordine liberale dominato dagli Stati Uniti o imporre dall'alto nuove regole di governance globale, ha molti vantaggi. In parte perché i requisiti per aderirvi sono così minimi, il modello può rivelare se le potenze rivali sono seriamente impegnate a creare un ordine più favorevole. Uno Stato che rifiutasse il nostro approccio fin dall'inizio o le cui azioni al suo interno dimostrassero che gli impegni che assume a parole sono fasulli, incorrerebbe in gravi costi reputazionali e rischierebbe di provocare nel tempo una maggiore opposizione. Al contrario, gli stati che sposano questo modello e attuano in buona fede i suoi semplici principi, sarebbero considerati dagli altri in modo più favorevole e manterrebbero probabilmente un maggior sostegno internazionale.

Forse in nessun altro caso i potenziali benefici del nostro modello sono così evidenti come nel caso delle relazioni USA-Cina. Fino ad ora, gli Stati Uniti non sono riusciti ad esprimere una politica verso la Cina compatibile con la sicurezza e gli interessi economici vitali degli Stati Uniti senza mirare anche a ripristinare il primato degli Stati Uniti, danneggiando l'economia cinese. Lungi dall'accogliere la Cina all'interno di un sistema multipolare di regole flessibili, l'attuale approccio cerca di contenere la Cina, ridurre il suo potere relativo e limitare le sue opzioni strategiche. Quando gli Stati Uniti si riuniscono con un club di democrazie apertamente rivolto contro la Cina, non dovrebbe sorprendere che il presidente cinese Xi Jinping si avvicini al Presidente russo Vladimir Putin.

Tuttavia, questa non è l'unica strada da percorrere. Sia la Cina che gli Stati Uniti hanno sottolineato la necessità di cooperare in certe aree chiave, anche se competono in altre, e il nostro approccio fornisce un modello pratico proprio per fare questo. Indirizza i due rivali a cercare punti di accordo e azioni che entrambi riconoscono che debbano essere bandite; li incoraggia a cercare compromessi reciprocamente vantaggiosi; e ricorda loro di mantenere le loro azioni indipendenti entro limiti ragionevoli. Impegnandosi in questo quadro, Stati Uniti e Cina segnalerebbero un desiderio condiviso di limitare gli ambiti del contrasto ed evitare una spirale di animosità e sospetto sempre crescenti. Oltre a cooperare sul cambiamento climatico, la preparazione alla pandemia e altri interessi comuni, astenendosi da tentativi palesi di danneggiare reciprocamente la prosperità interna o la legittimità politica dell'altro, Washington e Pechino potrebbero perseguire una serie di misure di controllo degli armamenti, gestione delle crisi e riduzione del rischio, attraverso un processo di negoziazione e compromesso.

Sulla spinosa questione di Taiwan, gli Stati Uniti dovrebbero continuare la politica deliberatamente ambigua che hanno seguito dal Comunicato di Shanghai del 1972 - sostenendo gli sforzi di difesa di Taiwan e condannando i tentativi di riunificazione forzata di Pechino, pur opponendosi all'indipendenza unilaterale di Taiwan. Abbandonare questa politica a favore di un riconoscimento più diretto di Taiwan rischia di provocare una guerra, da cui nessuno trarrebbe vantaggio. Il nostro approccio flessibile non aiuterebbe se la Cina decidesse di invadere Taiwan per motivi puramente interni, ma renderebbe meno probabile che Pechino intraprenda questo fatidico passo come risposta alle proprie preoccupazioni sulla sicurezza.

Anche la gestione della competizione USA-Cina sulla sicurezza ha una dimensione multilaterale. Sebbene i paesi asiatici siano preoccupati per il crescente potere della Cina e vogliano la protezione degli Stati Uniti, non vogliono dover scegliere tra Washington e Pechino. Gli sforzi per rafforzare la posizione degli Stati Uniti in Asia sono destinati ad essere allarmanti per la Cina, ma l'entità delle sue preoccupazioni e l'intensità della sua risposta non sono predeterminate, e minimizzarle (per quanto possibile) è nell'interesse di tutti. Mentre Washington si sforza di rafforzare le sue alleanze asiatiche, quindi, dovrebbe anche sostenere gli sforzi regionali per ridurre le tensioni in Asia e incoraggiare i suoi alleati a evitare inutili contese con la Cina o tra di loro. Gli accordi commerciali regionali promossi dagli Stati Uniti, come l’ Indo-Pacific Economic Framework for Prosperity appena lanciato, dovrebbero concentrarsi sulla massimizzazione dei benefici economici piuttosto che cercare di isolare ed escludere la Cina.

Anche se in questa discussione abbiamo enfatizzato le relazioni tra stato e stato, il nostro approccio potrebbe essere altrettanto produttivo per attori non statali, organizzazioni della società civile, accademici, opinion leader e chiunque abbia un interesse in una particolare area problematica. Incoraggia i membri della comunità globale ad andare oltre la netta antinomia tra conflitto e cooperazione, e a concentrarsi su questioni pratiche: quali azioni dovrebbero essere assolutamente vietate? Quali compromessi o aggiustamenti sarebbero fattibili e reciprocamente vantaggiosi? Quando è prevedibile e legittima un'azione autonoma, e come distinguere le azioni ben calibrate da quelle eccessive? E quando i risultati desiderati richiederanno accordi multilaterali per garantire che terzi non subiscano effetti negativi dagli accordi o dalle azioni intraprese da altri? Tali confronti non produrranno un consenso immediato o totale, ma degli scambi più strutturati su queste questioni potrebbero evidenziare possibili compromessi, suscitare spiegazioni o giustificazioni più chiare per posizioni concorrenti e aumentare le probabilità di raggiungere risultati reciprocamente vantaggiosi.

È possibile - qualcuno direbbe probabile - che la diffidenza reciproca, la leadership incompetente, l'ignoranza o la pura sfortuna si combinino insieme per produrre un futuro ordine mondiale significativamente più povero e sostanzialmente più pericoloso di quello attuale. Ma un esito di questo tipo non è inevitabile. Se i leader politici e i paesi che essi rappresentano desiderano veramente costruire un mondo più prospero e sicuro, gli strumenti per farlo sono disponibili.

 

* DANI RODRIK è Ford Foundation Professor di International Political Economy presso la Harvard Kennedy School.

STEPHEN M. WALT è Robert e Renee Belfer Professor di International Affairs alla Harvard Kennedy School.

 

 

15/11/22

Ennesime cattive notizie


Una notizia che è passata quasi sotto silenzio, ma che meriterebbe molta più attenzione, è quella riportata da Gilbert Doctorow, analista politico indipendente di lunga esperienza particolarmente esperto di questioni russe, secondo la quale gli USA stanno strutturando nel cuore della Germania un centro di coordinamento per il supporto all'Ucraina con tutte le caratteristiche di un vero quartier generale di lungo periodo, dal quale dirigere le operazioni della guerra alla Russia. In pratica stanno organizzando la terza guerra mondiale in Europa. 
(Altra preziosa segnalazione di @BuffagniRoberto)

Ennesime cattive notizie: il nuovo centro di coordinamento statunitense a Stoccarda per le operazioni in Ucraina – una pietra miliare sulla via della Terza Guerra Mondiale



Oggi ho ricevuto un’e-mail dal mio buon amico Francis A. Boyle, professore di diritto all’Università dell’Illinois, riguardante la creazione a Stoccarda di un nuovo centro di coordinamento americano per le operazioni di guerra in Ucraina, diretto da un generale a tre stelle. La notizia sembra essere stata messa in secondo piano la scorsa settimana a causa dell’attenzione prestata dai maggiori media occidentali al ritiro russo da Kherson e dell’ingresso delle forze ucraine in quella città.  Ma a giudicare dall’interpretazione di Boyle, ci sono tutte le ragioni per puntare i riflettori su questo evento e per cercare di stimolare una discussione più ampia possibile sui media alternativi, sia digitali che tradizionali.

Offro la seguente citazione dall’e-mail di Boyle con il suo permesso:


"La storia che segue è una classica notizia da copertina del Pentagono. Non c’è bisogno di un generale a tre stelle e di uno staff di 300 persone per tenere d’occhio le armi americane fornite all’Ucraina. Si tratta di un vero e proprio comando militare per condurre una guerra contro la Russia. L’ultima volta che ho avuto a che fare personalmente con un generale a 3 stelle è stato quando ho tenuto una conferenza a West Point sulla deterrenza nucleare, di fronte, tra gli altri, ad un generale a 3 stelle responsabile di operazioni di guerra al Pentagono. Il Pentagono mette un generale a 3 stelle a capo di operazioni di guerra, non per tenere un’inventario. E non c’è bisogno di uno staff di 300 persone per  fare verifiche di questo genere. È un quartier generale di guerra. Entreremo in guerra contro la Russia, a meno che il popolo americano non trovi un modo per fermarla!

Francis A. Boyle

Professore di diritto

STOCCARDA, Germania – Un generale a tre stelle guiderà un nuovo quartier generale dell’esercito americano stazionato in Germania e composto da circa 300 addetti responsabili per il coordinamento dell’assistenza alla sicurezza in Ucraina, ha dichiarato questa settimana un alto funzionario militare statunitense."

 

Per coloro che non conoscono Francis Boyle, rimando alla sua breve biografia sul sito dell’Università dell’Illinois: https://law.illinois.edu/faculty-research/faculty-profiles/francis-boyle/

A questo posso aggiungere che i suoi studi di scienze politiche per master e dottorato ad Harvard vertevano principalmente sulle relazioni russo/sovietiche, e che nel periodo trascorso ad Harvard ha lavorato con molti dei miei stessi professori. In questo senso, Boyle è un conoscitore della Russia ben qualificato, anche se all’universita’ dell’Illinois si occupa principalmente di studi sulla difesa dei diritti umani. Quest’anno Francis è stato anche particolarmente degno di nota per i suoi sforzi nel promuovere, come hanno fatto anche diversi membri chiave del Congresso americano, gli articoli di impeachment contro il Presidente Biden, che ha redatto lui stesso. L’ accusa: condurre una guerra non dichiarata alla Russia in violazione della Costituzione. Finora l’iniziativa ha avuto poco seguito, ma quando il nuovo Congresso a maggioranza repubblicana si insedierà nel 2023 le prospettive di trovare supporto potrebbero migliorare notevolmente.

Nonostante le notizie preoccupanti o allarmanti di cui sopra, chiudo questo articolo con un barlume di speranza che il mondo non sia ancora completamente impazzito.  Dalla persona che gentilmente traduce i miei articoli in tedesco, ho appreso la notizia dell’inizio di quello che potrebbe essere un movimento nazionale nella Repubblica Federale all’insegna dello slogan “Ami Go Home”. Il movimento comincerà con una manifestazione a Lipsia, nella Germania dell’Est, il 26 novembre. Le proteste si ispirano al pensiero di Oskar Lafontaine, un politico tedesco che ha ricoperto posizioni di primo piano nella SPD (il Partito Social Democratico tedesco) e poi in Die Linke (La Sinistra): ovvero, l’idea che sia giunto il momento che le “forze di occupazione” americane lascino la Germania in modo che il paese possa finalmente e pienamente recuperare la propria sovranità. Chi non conosce bene la politica tedesca può identificare più facilmente Lafontaine come il marito dell’eloquente membro dell’opposizione del Bundestag Sahra Wagenknecht.

Mi sembra opportuno aggiungere che, secondo il consiglio del mio traduttore quando mi ha trasmesso le notizie sulla manifestazione ‘Ami Go Home’, i veri organizzatori non appartengono alla sinistra tedesca ma, al contrario, all’estrema destra. Questa interpretazione è stata riconfermata da un lettore ben informato che vive a Berlino. Se volete, chiamatelo un altro esempio di impersonificazione o di sindrome dell’impostore. Stiamo vivendo tempi davvero interessanti.

P.S. i lettori potranno tirarsi su ascoltando questa canzone che sicuramente sarà riproposta nella manifestazione che si terrà in Germania



 

(Traduzione dalla fonte inglese di Roberto Pozzi)

 


13/11/22

La scelta difficile di Surovikin

 


Da Big Serge Thoughts, una analisi molto esauriente ed equilibrata delle diverse ipotesi alla base della decisione russa di ritirarsi da Kherson, che fa riflettere sull'importanza del rapporto tra ragione politica e ragione militare.  (Ancora grazie a @BuffagniRoberto, sempre ineccepibile nelle sue scelte)


di Big Serge, 13 novembre 2022


La Russia abbandona Kherson 


Nel gennaio 1944 la sesta armata tedesca, appena ricostituita, si trovò in una situazione operativa catastrofica nell'ansa meridionale del fiume Dnepr, nell'area di Krivoi Rog e Nikopol. I tedeschi occupavano un saliente pericoloso, che si sporgeva precariamente sulle linee dell'Armata Rossa. Vulnerabile su due lati e di fronte ad un nemico superiore quanto a uomini e potenza di fuoco, qualsiasi generale degno di questo nome avrebbe cercato di ritirarsi il prima possibile. In questo caso, tuttavia, Hitler insistette sul fatto che la Wehrmacht tenesse il saliente, perché la regione era l'ultima fonte di manganese rimasta alla Germania, un minerale cruciale per la produzione di acciaio di alta qualità.

Un anno prima, nelle prime settimane del 1943, Hitler era intervenuto in un'altra, più famosa battaglia, vietando a quella che era l’incarnazione precedente della Sesta Armata di uscire da una sacca che le si era formata intorno a Stalingrado. Vietata la ritirata, la Sesta fu completamente annientata.

In entrambi i casi vi è stato uno scontro tra la pura prudenza militare e necessità e obiettivi politici più ampi. Nel 1943, a Stalingrado, non c'era una stringente ragione militare o politica per mantenere nella sacca la 6a armata: l'intervento politico nel processo decisionale militare fu sia insensato che disastroso. Nel 1944, invece, Hitler (per quanto difficile sia ammetterlo) aveva un valido argomento. Senza manganese dall'area di Nikopol, la produzione bellica tedesca era condannata. In questo caso, l'ingerenza politica era forse giustificata. Lasciare un esercito in un saliente vulnerabile è negativo, ma lo è anche esaurire il manganese.

Questi due tragici destini della Sesta Armata illustrano la rilevante questione di oggi: come analizziamo la differenza tra il processo decisionale militare e quello politico? Più precisamente, a cosa attribuiamo la sconvolgente decisione russa di ritirarsi dalla riva occidentale del Dnepr nell'oblast di Kherson, dopo averla annessa solo pochi mesi fa?

Vorrei analizzare questo problema. Innanzitutto, non si può negare che dal punto di vista politico il ritiro sia una significativa umiliazione per la Russia. La questione diventa, tuttavia, se questo sacrificio fosse necessario sul piano militare o politico, e cosa potrebbe significare nel corso futuro del conflitto.

A mio avviso, il ritiro dalla sponda occidentale di Kherson deve essere stato guidato da una delle seguenti quattro possibilità:

1. L'esercito ucraino ha sconfitto l'esercito russo sulla sponda occidentale e lo ha respinto attraverso il fiume.

2. La Russia sta preparando una trappola a Kherson.

3. È stato negoziato un accordo di pace segreto (o almeno un cessate il fuoco) che include la restituzione di Kherson all'Ucraina.

4. La Russia ha fatto una scelta operativa politicamente imbarazzante, ma prudente dal punto di vista militare.

Esaminiamo semplicemente questi quattro punti ed analizziamoli in sequenza.

 

Possibilità 1: sconfitta militare

La riconquista di Kherson è stata giustamente celebrata dagli ucraini come una vittoria. La domanda è di che tipo di vittoria si tratta: politica/di facciata o militare? Diventa banalmente ovvio che rientra nel primo caso. Esaminiamo alcuni fatti.

Prima di tutto, fino alla mattina del 9 novembre - ore prima dell'annuncio della ritirata - alcuni corrispondenti di guerra russi esprimevano scetticismo sulle voci del ritiro, perché le linee difensive avanzate della Russia erano completamente intatte. Non c'era alcuna parvenza di crisi tra le forze russe nella regione.

In secondo luogo, al momento dell'inizio del ritiro l'Ucraina non stava portando avanti alcuno sforzo offensivo intenso nella regione e i funzionari ucraini addirittura esprimevano scetticismo sul fatto che il ritiro fosse reale. In effetti, l'idea che la Russia stesse tendendo una trappola ha origine dai funzionari ucraini, che a quanto pare sono stati colti alla sprovvista dalla ritirata. L'Ucraina non era preparata a inseguire o sfruttare la situazione e dopo il ritiro dei soldati russi avanzava con cautela nel vuoto. Anche con la Russia che si ritirava, avevano chiaramente paura di avanzare, perché i loro ultimi tentativi di sfondare le difese nell'area avevano provocato fortissime perdite.

Nel complesso, il ritiro della Russia è stato attuato molto rapidamente, con una pressione minima da parte degli ucraini: proprio questo fatto è alla base dell'idea che si trattasse di una trappola o del risultato di un accordo concluso dietro le quinte. In entrambi i casi, la Russia si è semplicemente spostata indietro attraverso il fiume senza essere inseguita dagli ucraini, subendo perdite trascurabili e portando via praticamente tutto il suo equipaggiamento (finora, un T90 guasto è l'unica cattura ucraina degna di nota). Come risultato netto, sul fronte di Kherson rimane un forte squilibrio di vittime a favore della Russia, che ancora una volta si ritira senza subire nessuna sconfitta sul campo di battaglia e mantenendo le sue forze intatte.

 

Possibilità 2: è una trappola

Questa teoria è emersa molto presto dopo l'annuncio del ritiro. Ha avuto origine dai funzionari ucraini che sono stati colti alla sprovvista dall'annuncio, ed è stata poi ripresa (per assurdo) dai sostenitori russi che speravano che si stesse giocando una partita a scacchi in 4D - non è così. La Russia sta giocando una partita a scacchi standard 2D, che è l'unico tipo di scacchi che ci sia, ma ne parleremo più avanti.

Non è chiaro cosa si intenda esattamente con "trappola", ma cercherò di completare il quadro. Ci sono due possibili interpretazioni: 1) una manovra convenzionale sul campo di battaglia che comporta un contrattacco tempestivo e 2) una sorta di mossa non convenzionale con un'arma nucleare tattica o la rottura di una diga a cascata.

È chiaro che non c’è nessun contrattacco sul campo di battaglia in vista, per il semplice motivo che la Russia ha fatto saltare i ponti dietro di sé. Senza forze russe rimaste sulla sponda occidentale e con i ponti distrutti, non c'è alcuna capacità immediata per nessuno dei due eserciti di attaccare in forze. Certo, possono bombardarsi a vicenda attraverso il fiume, ma per il momento la linea di contatto effettiva è congelata.

Ciò lascia aperta la possibilità che la Russia intenda fare qualche mossa non convenzionale, come usare un'arma nucleare a basso rendimento.

L'idea che la Russia abbia attirato l'Ucraina a Kherson per far esplodere una bomba atomica è... stupida.

Se la Russia volesse usare un'arma nucleare contro l'Ucraina (cosa che non è, per ragioni che ho argomentato in un articolo precedente), non c'è alcun motivo sensato per cui sceglierebbe come sito in cui farlo un capoluogo regionale che è stato da loro stessi annesso. La Russia non ha carenza di sistemi di lancio. Se volessero bombardare l'Ucraina, molto semplicemente, non si porrebbero il problema di  abbandonare la propria città per farne il luogo dell'esplosione. Semplicemente bombarderebbero l'Ucraina. Non è una trappola.

 

Possibilità 3: accordo segreto

Questa idea è nata dalla notizia che il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, Jake Sullivan, è stato in contatto con la sua controparte russa, e in particolare dalla sensazione che la Casa Bianca abbia spinto per i negoziati. Secondo una ipotetica variante dell'"accordo Sullivan", l'Ucraina riconoscerebbe le annessioni della Russia a est del Dnepr, mentre la sponda occidentale di Kherson tornerebbe sotto il controllo di Kiev.

Lo trovo improbabile per una serie di ragioni. Prima di tutto, un accordo del genere rappresenterebbe una clamorosa vittoria di Pirro per la parte russa: mentre si otterrebbe la liberazione del Donbas (uno degli obiettivi espliciti dell'OSM), si lascerebbe l'Ucraina sostanzialmente intatta e abbastanza forte da essere una spina nel fianco perenne, come stato ostile anti-russo. Ci sarebbe il problema di una probabile ulteriore integrazione dell'Ucraina nella NATO e, soprattutto, l'aperta resa di un capoluogo di regione annesso.

Dalla parte ucraina, il problema è che la riconquista di Kherson non fa che aumentare la (falsa) percezione di Kiev che la vittoria totale sia possibile e che la Crimea e il Donbas possano essere recuperati completamente. L'Ucraina sta godendo di una serie di progressi territoriali e sente che si sta aprendo per lei una finestra di opportunità.

In definitiva, non sembra esserci alcun accordo che possa soddisfare entrambe le parti, e da questo ne consegue che l'innata ostilità tra le due nazioni deve essere risolta sul campo di battaglia. Solo Ares può giudicare questa controversia.

Quanto ad Ares, ha lavorato sodo a Pavlovka.

Mentre il mondo era ossessionato dal passaggio di mano relativamente incruento a Kherson, Russia e Ucraina hanno combattuto una sanguinosa battaglia per Pavlovka e la Russia ha vinto. L'Ucraina ha anche tentato di rompere le difese russe nell'asse Svatove ed è stata respinta con pesanti perdite. In definitiva, il motivo principale per dubitare delle notizie che parlano di un accordo segreto è il fatto che la guerra continua su tutti gli altri fronti - e che l'Ucraina sta perdendo. Rimane quindi solo un'opzione.

 

Possibilità 4: una scelta operativa difficile

Questo ritiro era stato segnalato in maniera discreta poco dopo l’assegnazione dell’incarico al generale Surovikin dell'operazione in Ucraina. Nella sua prima conferenza stampa, Surovikin aveva segnalato l'insoddisfazione per il fronte Kherson, definendo la situazione "tesa e difficile" e alludendo alla minaccia dell'Ucraina di far saltare le dighe sul Dnepr e allagare l'area. Poco dopo, è iniziato il processo di evacuazione dei civili da Kherson.

Ed ecco cosa penso che Surovikin abbia deciso su Kherson.

Kherson stava diventando un fronte inefficiente per la Russia a causa dell'mpegno logistico delle forze di rifornimento attraverso il fiume, con una capacità limitata di ponti e strade. La Russia ha dimostrato di essere in grado di sostenere l’onere di questo sostegno (mantenendo le truppe rifornite durante tutte le offensive estive dell'Ucraina), ma la domanda diventa: 1) a quale scopo e 2) per quanto tempo.

Idealmente, la testa di ponte diventa il punto di partenza per un'azione offensiva contro Nikolayev, ma lanciare un'offensiva richiederebbe il rafforzamento del raggruppamento di forze a Kherson, il che aumenta di conseguenza l'onere logistico di tenere le posizioni dall’altra parte del fiume. Con un fronte molto lungo da gestire, Kherson è chiaramente uno degli assi più logisticamente impegnativi. La mia ipotesi è che Surovikin abbia preso il comando e quasi immediatamente abbia deciso di non voler aumentare il carico di questo sostegno logistico cercando di spingere su Nikolayev.

Pertanto, se non deve essere lanciata un'offensiva dalla posizione di Kherson, la domanda diventa: perché mantenere la posizione? Politicamente è importante difendere un capoluogo di regione, ma da un punto di vista militare, se non si passa all'offensiva al sud, la posizione diventa priva di significato .

Cerchiamo di essere ancora più espliciti: a meno che non venga pianificata un'offensiva nei confronti di Nikolayev, la testa di ponte di Kherson è militarmente controproducente.

Tenendo la testa di ponte a Kherson, il fiume Dnepr diventa un moltiplicatore di forza negativo, aumentando il carico logistico e con la continua minaccia che, se l'Ucraina riesce a distruggere i ponti o far esplodere la diga, le forze possano rimanere tagliate fuori. Mantenere le forze oltre il fiume diventa un pesante fardello senza alcun beneficio evidente. Invece, ritirandosi sulla sponda orientale, il fiume diventa un moltiplicatore di forza positivo, fungendo da barriera difensiva.

Nel senso operativo più ampio, Surovikin sembra voler evitare la battaglia a sud mentre si prepara a nord e nel Donbas. È chiaro che ha assunto questa decisione poco dopo aver preso il comando dell'operazione - ne ha accennato per settimane, e la velocità e la precisione del ritiro suggeriscono che fosse ben pianificato, con molto anticipo. Il ritiro oltre il fiume aumenta significativamente l'efficacia in combattimento dell'esercito e diminuisce l'onere logistico, liberando risorse per altri settori.

Ciò si adatta al generale modello russo di fare scelte dure sull'allocazione delle risorse, combattendo questa guerra nell'ambito del semplice criterio dell'ottimizzazione dei livelli delle perdite e della costruzione del tritacarne perfetto. A differenza dell'esercito tedesco nella seconda guerra mondiale, l'esercito russo sembra essere libero dall'interferenza politica nella presa di decisioni militari razionali.

In questo modo, il ritiro da Kherson può essere visto come una sorta di anti-Stalingrado. Invece di ingerenze politiche che ostacolano i militari, abbiamo i militari liberi di fare scelte operative anche a costo di mettere in imbarazzo le figure politiche. E questo, in definitiva, è il modo più intelligente - anche se appare umiliante - di combattere una guerra.