28/02/17

Ted Malloch: Il punto di vista americano sull'integrazione europea

Su TheParliamentMagazine, pubblicazione che offre una rassegna di notizie, opinioni e commenti sulla politica europea,  un lungo intervento di Ted Malloch, in cui il prossimo probabile ambasciatore USA a Bruxelles espone in maniera ampia la posizione dell'amministrazione Trump nei confronti della UE in campo commerciale, militare e di politica estera.  Malloch dichiara chiaramente che gli USA non sono più interessati all'integrazione europea nella sua forma attuale di entità sovranazionale, considerata lesiva degli interessi americani, in primo luogo a cause delle tendenze deflattive dell'eurozona che minacciano l'economia mondiale. 

 

di Ted Malloch, 14 febbraio 2017


Traduzione di Margherita Russo


Esclusivo: la nuova amministrazione del Presidente Trump dice chiaramente che l'America non è più interessata all'idea integrazionista di un'''unione sempre più stretta' tra i paesi dell'UE. Così scrive Ted Malloch, designato come favorito per il posto di ambasciatore USA presso l'UE.


Il punto di vista prevalente sull'integrazione europea che ha predominato dal 1945 fino al 1990 negli Stati Uniti è considerevolmente mutato dopo la Guerra Fredda. Oggi è in procinto di cambiare ancora una volta - non a caso con l'avvento di Trump alla Casa Bianca.


Che il progetto di integrazione europea sia un disastro dovrebbe ormai essere cosa nota a tutti. Una cosa del genere non avrebbe mai trovato l'avvallo né di Churchill né di Roosevelt . L'Unione europea è ormai un organismo anti-democratico, intasato dalla burocrazia e da un dilagante anti-americanismo.


Considerati i vitali interessi americani in Europa in campo commerciale, militare, culturale e di politica estera, una buona relazione con l'Europa resta di primaria importanza per gli USA. Resta però da vedere come.


L'amministrazione Trump ha spiegato fermamente ed a chiare lettere che l'America non è più interessata all'integrazione europea nelle sue modalità correnti. Di fatto, potrebbe anche decidere di appoggiare un'inversione rispetto alla sempre più accelerata traiettoria verso un modello socialista e protezionista di Stati Uniti d'Europa.


Questa tendenza va considerata per quello che è. È deleteria per gli affari, gli investimenti e la sicurezza americani, e finisce col tradursi in una regolamentazione eccessiva, una bassa crescita, alti livelli di disoccupazione e di rigidità strutturale. Gli USA dovrebbero quindi certamente favorire gli scambi bilaterali con l'Europa, ma affermare nel contempo fermamente la loro opposizione ad un'Europa federale, ed opporre un secco No ad un governo unico europeo.


Questo potrebbe essere il momento di rivedere le premesse di base degli USA nei riguardi dell'Europa. Ciò potrebbe significare per l'America un ridimensionamento di tutto il suo rapporto complessivo con l'Europa, in particolare per quanto concerne la sua futura unione o disunione.


Per molto tempo, a partire da Dulles, il Dipartimento di Stato è stato dell'avviso che la strada migliore per assicurare la pace in Europa fosse di unificarla. Al centro di questo ragionamento vi era la relazione Francia-Germania. Oggi, però, la questione è, che tipo di Europa, e che tipo di unione dobbiamo auspicare?


Cosa servirebbe meglio l'interesse nazionale americano in un'ottica di lungo periodo? Esiste una necessaria equivalenza tra quello che una volta si chiamava Comunità Economica Europea e l'[attuale] evoluzione verso un governo unico europeo?


È sensato perseguire questa politica dopo il trattato di Maastricht del 1992 e quelli successivi? Oppure esistono errori di fondo in una tale logica integrazionistica, come spiegato da personaggi come Lord Dahrendorf e molti altri ancora? Non sarebbe meglio ridefinire radicalmente l'Unione europea?


Noi americani dobbiamo inoltre realisticamente chiederci: quali sono i pericoli del fallimento dell'UE? Queste sono le questioni da considerare, alla luce delle ampie ramificazioni delle loro conseguenze e sequenzialità. Nessuno qui auspica il fallimento dell'Europa o la sua sparizione.


USA e UK, di questo ne siamo coscienti, sono diversi dal resto dell'Europa: noi crediamo nella democrazia e nella trasparenza, mentre l'UE è intrinsecamente anti-democratica ed opaca. È opportuno per l'America continuare a promuovere un modello di Europa così sbagliato, così alieno alle nostre tradizioni? Un tale atteggiamento non è forse contrario all'interesse americano? Sicuramente non rispecchia la volontà espressa da Trump di porre l'America prima di tutto.


Dovremmo tenere bene a mente che l'America ha forti legami storici di lunga data con l'Europa; che le nostre parentele ed affinità sono molto radicate. Nonostante il nostro generoso contributo allo sviluppo post-bellico ed alla democrazia in Europa, per non parlare dell'onerosa difesa militare, l'anti-americanismo è oggi preponderante in Europa. Perché?


Perché tanta ingratitudine da parte degli Europei e delle loro istituzioni? La risposta risiede nel risentimento europeo verso la potenza americana. Credetemi, l'anti-americanismo in Europa non è un'idea astratta, né è limitata ai 'soliti noti' di sinistra. Pervade tutta la cultura ed il processo decisionale dell'Unione europea.


L'UE utilizza anche il pretesto delle regole antitrust per implementare politiche industriali anti-americane. E non parlo solo di Microsoft. La lista delle aziende colpite è già lunga e si allunga sempre più. La Commissione europea intende disciplinare qualsiasi caso che coinvolga grandi imprese straniere che possano minacciare o compromettere gli interessi economici dell'UE.


Non si tratta di forme velate di protezionismo né di vaghe barriere non-commerciali; è molto di più, e molto più trasparente. Questa mentalità, ed in particolare la politica agricola comune europea, stravolge inoltre l'economia mondiale e qualsiasi principio di equo commercio. L'UE predilige sussidi a favore degli agricoltori europei piuttosto che aiuti o maggiori scambi con gli USA ed i paesi in via di sviluppo.


Sapevate, ad esempio, che ogni mucca riceve in media €862 l'anno in sussidi UE?


Gli interessi americani sono ulteriormente minati dalle molteplici contraddizioni interne intrinseche all'UE - sociali, economiche e politiche, che pregiudicano i valori ed i fini degli USA.


Fra queste [contraddizioni], l'Euro, una moneta sbagliata, è di gran lunga la più grave. L'Euro offre scarse protezioni contro gli shock economici e si affida a trasferimenti fiscali a livello dell'Unione per appianare gli squilibri economici, che sono numerosi. Queste non sono che mezze misure per le economie che compongono l'UE.


Per di più, come dimostrato dall'ex capo economista della Banca Mondiale Joseph Stieglitz, (si veda: The Euro and Its Threat to Europe), [l'Euro] ha spostato l'ago della bilancia a favore della Germania. L'avanzo delle partite correnti della Germania ammonta pesantemente all'otto percento del PIL, imponendo una tendenza deflattiva su tutta l'Eurozona.


L'incongruenza di base della filosofia neo-funzionalista su cui si fonda l'UE sta nella premessa che l'integrazione politica si può raggiungere tramite l'integrazione economica. Una premessa profondamente sbagliata, aggravata ulteriormente dal ritmo forzato di tale integrazione.


La cura per la catastrofe europea è un'autentica democrazia - un governo del popolo e non di burocrati non eletti travestiti da esperti. I commissari europei non sono eletti e non devono rendere conto a nessun parlamento Queste élite globaliste con le loro annesse sovrastrutture sono distaccate dal popolo e dunque totalmente anti-europee.


La Nato è innegabilmente stata fulcro e pilastro dell'alleanza USA-Europa per la difesa, la sicurezza e la politica internazionale. Tuttavia, dopo l'accordo di St. Malo del 1998, l'Europa ha iniziato a voltare le spalle all'America e alla Nato, attuando una politica di difesa autonoma in competizione con la Nato e gli USA.


La difesa UE è ormai, a tutti gli effetti, al di fuori del contesto Nato. Gli Europei preferirebbero avere una loro forza militare - possibilmente meno dispendiosa. La condivisione dei costi è sempre stato un problema per gli europei, che, ad eccezione di cinque paesi, rifiutano di pagare il due percento del PIL come da accordi. Chiaramente stanno approfittando della generosità americana.


L'UE inoltre opera apertamente contro gli interessi americani all'estero - in Medio Oriente, Israele, Iran, nel campo dell'energia, a Cuba, all'ONU, e potrei andare avanti ancora a lungo. Finora l'America ha fatto finta di non vedere e si è voltata dall'altra parte. Ma adesso non più. Il presidente Trump ha preso la situazione sotto controllo - e sotto osservazione.


L'America in questi primi giorni dell'amministrazione Trump deve riesaminare la sua politica storica verso l'integrazione europea nell'ottica di mettere in primo piano l'America. Le politiche attuali non possono continuare poiché le premesse sono sbagliate ed i risultati infruttuosi.


L'Alleanza Translantica dovrà senza dubbio continuare. Ottime relazioni tra Europa ed America sono certamente fondamentali. Ma l'integrazione europea non è affatto nell'interesse dell'America.


Se i governi europei sostengono di condividere i valori di democrazia e libertà, che li si metta alla prova. Sottopongano la UE a referendum in tutti i paesi membri. È giunto il momento di guardare realisticamente e con sano scetticismo all'Unione europea, alla sua agenda neanche poi così tanto segreta di 'unione sempre più stretta'.


La Brexit ci fornisce un'opportunità per fermarci e riconoscere che l'UE è in realtà un entità debole e in pieno peggioramento. Qualora se ne creino le condizioni, potrebbe addirittura sfaldarsi del tutto. Gli USA devono quindi rafforzare le strette relazioni già esistenti con ciascuno degli stati europei - alcuni dei quali non fanno neanche parte del tutto o in parte dell'UE. L'America non è anti-Europa.


Badate bene: l'architettura globale è in evoluzione, e si sta muovendo in direzione di una maggior fiducia negli stati nazionali sovrani piuttosto che in blocchi integrati o entità sovranazionali.


Nella visione di Trump, il futuro sarà molto diverso dal passato. Di conseguenza, anche i nostri rapporti con l'Europa dovranno cambiare. In Between Kin and Cosmopolis, il teologo politico di Oxford Nigel Biggar dà una descrizione dell'etica della nazione. È lì che l'Europa dovrebbe cercare le sue risposte - non in un progetto di ulteriore integrazione. Il dialogo degli USA con l'Europa è cambiato.



Informazioni sull'autore


Theodore (Ted) Roosevelt Malloch insegna alla Henley Business School ed è stato Senior Fellow presso la Oxford University. È il candidato più quotato ad ambasciatore USA presso l'UE.

25/02/17

KTG: Ministro bavarese dichiara che la Grecia dovrebbe dare in pegno oro e immobili per nuovi prestiti

Nel disinteresse generale dei media mainstream, i negoziati sul rifinanziamento del debito greco di febbraio sono in stallo e la Grecia è di nuovo sull'orlo della bancarotta o dell'uscita dall'euro. In questa situazione, con la Grecia messa in ginocchio dai creditori internazionali, è immancabile l'esternazione di qualche politico tedesco sulla necessità di imporre condizioni ancora più umilianti. Questa volta è il turno di Markus Soeder, ministro delle finanze bavarese. Da Keep Talking Greece.

 

20 febbraio 2017

Nuovi finanziamenti alla Grecia? Gli ultra-conservatori tedeschi hanno qualche idea... Sì, nuovi aiuti sotto condizionalità. Quali condizioni? Le condizioni usuali che di solito pongono gli strozzini: oro e immobili.

Il ministro delle Finanze della Baviera Markus Soeder (Csu) ha dichiarato al quotidiano Bild che se la Grecia dovesse ricevere nuovi aiuti, dovrebbero essere poste nuove condizioni: pegni sotto forma di contanti, oro o immobili.

Soeder ha anche detto che la Grecia deve attuare le riforme per ricevere nuovi aiuti - ma questo lo affermano tutti.

Soeder appartiene al partito conservatore Unione Cristiano Sociale, gemello della CDU di Angela Merkel.

Durante la crisi del debito del governo greco, Soeder è stato tra i più accesi nel chiedere che la Grecia uscisse dall'eurozona. Nel 2012, dichiarò un'intervista: "Atene deve essere un esempio di come questa zona euro possa anche mostrare i denti."

Il politico, cinquantenne, è stato etichettato dal settimanale tedesco Der Spiegel come uno dei dieci politici europei più pericolosi.

Der Spiegel ha definito questi 'politici pericolosi' così: "qualsiasi politico che ricorra al populismo a buon mercato, al fine di riscuotere consensi nella politica interna".

Benché Soeder non abbia fornito dettagli su che tipo di oro avrebbe accettato, il gioco delle associazioni mentali mi ha fatto rabbrividire. Non senza ragione.

Nel 2012, sotto la guida di Soeder, la Baviera ha impegnato 500.000 euro (687.546 dollari) di fondi pubblici per l'Istituto di storia contemporanea (IfZ), con sede a Monaco, al fine di produrre una versione critica e annotata del Mein Kampf di Adolf Hitler da pubblicare nel 2015, alla scadenza dei diritti d'autore. Soeder all'epoca dichiarò che la pubblicazione avrebbe avuto lo scopo di "demistificare" il manifesto di Hitler. In ogni caso, nel 2013 il governo bavarese ha interrotto i suoi finanziamenti al progetto.

L’euro 15 anni dopo: il fact checking dell'ISPI non regge il fact checking

All'inizio di questa settimana l'ISPI (Istituto per gli studi di politica internazionale) ha pubblicato un sedicente fact checking sull'euro che promette "un'informazione sintetica e il più possibile fondata su dati oggettivi". In pratica, sette affermazioni sull'euro sono state definite "vere" o "false", con brevi note esplicative. Quali che fossero le reali intenzioni degli estensori, il risultato ha poco a che vedere con un fact checking e molto più con una semplice esposizione di opinioni, poco o nulla avvalorata da dati. Ora, come ha affermato Alberto Bagnai in un articolo recentemente pubblicato su questo sito, "l’euro è uno dei più grandi successi della scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza economica l’aveva previsto". Commentando dunque alla luce dei dati e di quanto insegna la scienza economica i sette punti proposti dall'ISPI, Andrea Wollisch, laureato in Economia e Scienze sociali, giunge a conclusioni decisamente diverse rispetto a quelle propagandate dall'Istituto.

 

di Andrea Wollisch (@BocPentito), 24 febbraio 2017

 

1 - L’euro ha fatto aumentare i prezzi?


Che in un'Europa dove si combatte la deflazione si tiri nuovamente fuori questa vecchia questione, significa essere ignari del dibattito. Certo che i prezzi oggi ristagnano, ma è un pessimo segno. Il tasso di inflazione dei prezzi al consumo dipende dall’incontro tra domanda e offerta di beni di consumo. L’inflazione è andata calando poiché è aumentata l’offerta (basti pensare a tutti i prodotti importati che invadono il nostro paese ormai da decenni), ma soprattutto perché è diminuita la domanda: la disoccupazione è salita e i salari reali sono fermi. Le politiche economiche imposte dai trattati europei (liberalizzazioni, privatizzazioni, riduzioni dei diritti dei lavoratori) hanno tra i loro effetti, e probabilmente tra i loro obiettivi, quello di moderare le richieste salariali dei lavoratori, che sono uno dei fattori determinanti del tasso di inflazione: se i prezzi ristagnano è perché non ci sono soldi da spendere.

Grafico: Andamento del salario reale (indice) e del tasso di inflazione: quando l'inflazione cala, i salari reali cessano di crescere.



Fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/svalutazione-e-salari-ad-usum-piddini.html

 

2 - Con l’euro l’Italia ha perso sovranità monetaria?


L’Italia decise di rinunciare ad esercitare la propria sovranità monetaria con due scelte: la partecipazione allo Sme (1978) e l’adesione all'Atto unico europeo (1986) con il quale si deregolamentarono i movimenti di capitale. In questo modo la nostra capacità di fissare tassi d’interesse interni differenti e indipendenti da quelli dei sistemi finanziari esteri si affievolì molto; tuttavia in un momento di crisi come quello del 1992 fummo in grado di riprendere in mano almeno parzialmente la nostra sovranità monetaria uscendo dallo Sme e svalutando: e i risultati ci furono. Contrariamente a quanto molti avevano previsto, dopo la svalutazione l'inflazione scese (dal 5,2% del ‘92 al 4% del ‘94)[i], l'economia italiana ripartì (+2,9% nel 1995)[ii] e migliorarono sia la bilancia dei pagamenti sia la posizione netta sull’estero, come evidenziato dal grafico sottostante. E questo alla faccia della sovranità "formale" di cui parla l'ISPI.



Fonte: Relazione annuale della Banca d’Italia sul 1995, pag. 131.

Con l’Euro la possibilità di riprendersi la propria sovranità in caso di bisogno è stata esclusa.

Inoltre, bisogna considerare che una politica monetaria comune tra paesi con esigenze e obiettivi diversi non può essere ottimale per tutti contemporaneamente: difatti oggi non va più bene ai tedeschi, perché tassi così bassi stanno mettendo in difficoltà i loro fondi pensione gestiti col sistema della capitalizzazione. Tassi alti, d'altra parte, metterebbero in crisi i paesi fortemente indebitati.

  

3 - La moneta unica ha fatto guadagnare di più alla Germania che all’Italia?

Le riforme Hartz hanno fatto calare i salari dei lavoratori tedeschi, compensando i loro mancati guadagni con copiosi aiuti statali (e future pensioni da fame). In questo modo la Germania è riuscita ad avere un’inflazione persistentemente più bassa rispetto a tutti gli altri partner europei, guadagnando così competitività anno dopo anno ed esportando sempre di più.
In una condizione normale in cui ogni paese ha la sua moneta, di fronte a una grande richiesta di beni tedeschi la moneta nazionale tedesca si sarebbe rivalutata, rendendo i prodotti tedeschi troppo cari e riequilibrando il mercato. Grazie all’Euro,  la politica tedesca ha potuto evitare una rivalutazione della propria moneta ed è stato quindi possibile per la Germania praticare quella che è in pratica una svalutazione reale competitiva e accumulare ingenti surplus di partite correnti (ovvero esportare molto più di quanto importa). In Italia è avvenuto l’opposto. Inizialmente, senza tagliare i salari, siamo andati in deficit con l’estero; successivamente, obbligati dalle istituzioni europee, abbiamo fatto “le riforme” e ora con meno diritti e un salario minore siamo tornati in attivo con l’estero, ma a costo di una drammatica compressione dell'economia, di un alto tasso di disoccupazione e di un peggioramento del rapporto tra debito pubblico e PIL.

Grafico: Divergenza dell’inflazione: l’unione monetaria raggiunge l’obiettivo della Bce solo considerando l'inflazione media.



Fonte: The Euro - A story of misunderstanding, Flassbeck e Spiecker, 2011.

 

Grafico: La divergenza del costo del lavoro per unità di prodotto apre un profondo gap di competitività nell’unione monetaria.



Fonte: The Euro - A story of misunderstanding,  Flassbeck e Spiecker, 2011.

 

 

4 - Il ritorno alla lira farà crescere le nostre esportazioni?


Premessa: far crescere le esportazioni in questo momento non è un obiettivo sensato. Se vogliamo uscire dalla crisi, noi dobbiamo concentrarci sulla crescita della domanda interna, preoccupandoci di rimanere in equilibrio con l’estero.  Ma far ripartire la domanda interna con una moneta sopravvalutata, ci porterebbe nuovamente a sbilanciarci, importando troppo.
L’Italia ha ora un leggero surplus con l’estero: in caso di ritorno alla lira, la svalutazione, nell’attuale contesto di libertà di movimento dei capitali, dipenderà dalle aspettative degli operatori rispetto alle politiche economiche che si intendono perseguire. Ciò che sarebbe certo, in ogni caso, è la rivalutazione della nuova valuta tedesca, dovuta all’enorme surplus di bilancia commerciale della Germania: e questo porterebbe a riequilibrare la situazione con l'Italia, che non si troverebbe più a dover competere con un concorrente come la Germania, che gode di una moneta sottovalutata, ovvero di una sorta di sconto fisso sui beni che esporta.

Il grafico sottostante mostra molto chiaramente  come, ai tempi dello SME, in presenza di rivalutazioni del marco, il gap di produttività tra Italia e Germania regolarmente spariva (fase B-C), mentre si allargava ogni volta che la banda di oscillazione della lira veniva ridotta (fase A-B e fase C-D) o, dopo il 1996, eliminata (fase E).

 



Fonte: http://goofynomics.blogspot.it/2012/03/cosa-sapete-della-produttivita.html

 

5 - I paesi Ue fuori dall’Eurozona crescono più di quelli che stanno dentro?


I paesi dell’Ue che non fanno parte dell’eurozona sono tutti cresciuti di più, non solo quelli considerati “indietro” come ad esempio i nuovi entrati dell’Est europeo, ma anche e soprattutto quelli più avanzati come la Svezia e il Regno Unito, per non parlare poi di chi in Europa sta solo geograficamente, come la Svizzera. Un caso emblematico è rappresentato dai paesi scandinavi. Il grafico sottostante mostra chiaramente i gap di crescita dei quattro paesi, molto simili tra di loro tranne che per la rispettiva posizione verso l’Euro e la UE: Svezia e Norvegia, i paesi che crescono di più, hanno moneta propria e libera di oscillare; la Danimarca, pur non adottando l’Euro, vi ha agganciato il cambio della Corona con un rapporto piuttosto rigido (e infatti è penultima, distanziata dai primi due); ultima e in piena crisi, la Finlandia, membro UE che ha adottato l’Euro.



Fonte: http://vocidallestero.it/2016/05/31/la-grande-divergenza-scandinava/

Ma l’aspetto peggiore è la disomogeneità della crescita e in generale delle performance economiche all’interno dell’eurozona, i cui paesi membri hanno progressivamente visto divergere le proprie economie anziché convergere, come era stato promesso.

 

6 - Senza la moneta unica gli stati avrebbero affrontato meglio la crisi?


Il cambio flessibile è fondamentale per assorbire shock asimmetrici o compensare divergenze strutturali tra economie: la moneta unica, togliendo lo strumento della flessibilità, ha in realtà reso le economie degli stati coinvolti più fragili di fronte a crisi e squilibri.
L’Euro, inoltre, nei primi anni ha favorito l’afflusso di capitali verso la periferia dell’eurozona, facendo lievitare il debito estero di questi ultimi e gonfiare bolle speculative, fino alla crisi finanziaria americana. Il brusco arresto di questo ciclo ha creato enormi problemi finanziari, bancari e di bilancia dei pagamenti agli stati, i quali non avendo più la sovranità monetaria, e non potendo quindi agire attraverso gli strumenti che questa consente, sono stati costretti ad accettare attraverso il “fondo salva-stati” prestiti fortemente condizionati, che li hanno obbligati non solo all'austerità, ma anche e soprattutto a riformare i propri mercati del lavoro, diminuendo drasticamente le tutele, e a privatizzare importanti settori ed infrastrutture. La disoccupazione è esplosa, la domanda si è ulteriormente contratta e la crisi non ha fatto che avvitarsi su se stessa: il caso drammatico della Grecia insegna.
Inoltre buona parte di quegli stessi prestiti condizionati sono serviti per far rientrare dalle proprie esposizioni estere le banche tedesche e francesi (l’Italia ha contribuito con il 17% al fondo, pur avendo solo il 4% delle perdite bancarie derivate dalla crisi).
L’Euro ha creato le premesse per la creazione di questi istituti e per l’attuazione di politiche di deflazione salariale e disoccupazione di massa.

Grafico: Crediti esteri delle banche del “centro” verso le banche della “periferia” dell’eurozona (sinistra) e delle banche tedesche rispetto ai PIGS, l’Italia e la Francia (destra).



Fonte: “An Optimum Currency Crisis”, Pasimeni, 2014

 

 7 -   L’euro funziona male perché la sua costruzione è incompleta?


Che l'euro non potesse funzionare era stato previsto dai maggiori economisti. Più che "incompleta", però, la costruzione è stata capovolta: si è partiti della moneta, e questo ha provocato tali squilibri e tensioni da mettere a rischio ulteriori avanzamenti verso una Europa unita (come previsto da Kaldor nel lontano 1971). Che ce ne si accorga solo oggi lascia quantomeno perplessi.
I passi che in teoria sarebbero necessari per far funzionare l’eurozona prevedono la costruzione di un vero stato europeo, dotato di un bilancio proprio sostanziale e con entrate proprie, oltre alla creazione di un debito pubblico europeo comune. Queste nuove istituzioni potrebbero essere efficaci solo se trasferissero ingenti risorse dagli stati che beneficiano dell’attuale situazione a quelli che stanno peggio. Non è difficile oggi prevedere che questo non accadrà mai. Molti paesi, a partire dalla Germania, non hanno alcun interesse a proseguire su questa strada. Non esiste in questo momento, se mai è esistita, la volontà politica e nemmeno popolare per passi del genere. Queste proposte sono una forzatura, una fuga in avanti di chi continua a parlare di sogno europeo.
L’Euro, facendo divergere le economie, ha accentuato le differenze e i contrasti tra i diversi interessi nazionali e ha quindi reso paradossalmente meno probabili questi sviluppi.

 

 

Fonti:

 

- Appendice statistica alla relazione annuale della banca d’Italia sul 1996.

- Relazione annuale della Banca d’Italia sul 1995.

- Pasimeni P. (2014), An Optimum Currency Crisis, The European Journal of Comparative Economics Vol. 11 (2), pp. 173-204.

- http://vocidallestero.it/2016/05/31/la-grande-divergenza-scandinava/

- http://goofynomics.blogspot.it/2012/03/cosa-sapete-della-produttivita.html

- Flassbeck H. - Spiecker F. (2011). The Euro: a story of misunderstanding. Intereconomics, 46(4): 180-187.

- http://goofynomics.blogspot.it/2012/04/svalutazione-e-salari-ad-usum-piddini.html

- Garber, P.M. (2010), “The Mechanics of Intra-euro Area Capital Flight”, Economics Special Report, Frankfurt am Main: Deutsche Bank Global Markets Strategy.

- Cour-Thimann, P., «Target Balances and the Crisis in the Euro Area», CESifo Forum, vol. 14, Special Issue, April, 2013.

 

Nota: per ovvi motivi, in questo articolo l'argomento è stato trattato in estrema sintesi. Per i lettori interessati a informarsi più ampiamente e consultare l'ampia bibliografia disponibile in materia consigliamo i saggi di Alberto Bagnai Il tramonto dell'euro (Imprimatur, 2012) e L'Italia può farcela (Il Saggiatore, 2014).

 

[i] Dati tratti dall’appendice statistica alla relazione annuale della banca d’Italia sul 1996.

[ii] Vedi sopra.

23/02/17

Counterpunch: lo sgradito ritorno di Tony Blair il guerrafondaio

Un articolo di J. Wight su Counterpunch ci ricorda che, anche dal punto di vista di un “Remainer”,  l’intervento nel dibattito di Tony Blair rappresenta un’aberrazione. Quest’uomo, che non ha esitato a svendere i valori della socialdemocrazia alle proprie brame di soldi e potere, passando sopra i cadaveri innocenti di coloro che ha trascinato in una guerra immotivata, non esita oggi a “incitare il popolo” alla sollevazione contro una decisione presa democraticamente.

L’unico posto da cui dovrebbe essergli consentito esprimersi è dal banco degli imputati, per tutti i suoi numerosi crimini contro l’umanità.

 

Di John Wight, 21 febbraio 2017

Proprio quando cominciavate a sentirvi tranquilli, ecco che ritorna Frankenstein – o quantomeno il suo omologo politico - sotto forma di Tony Blair, l’ex primo ministro britannico ed emblema della venalità, corruzione e opportunismo del liberismo occidentale contemporaneo.

La decisione di Blair di intervenire nell’attuale crisi politica che attanaglia il Regno Unito riguardo alla Brexit, può solamente essere definita offensiva. La sua chiamata alle armi, che incita il popolo britannico a “sollevarsi contro la Brexit”, lanciata dalla rinomata fortezza dei potenti, il quartier generale di Bloomberg nella City di Londra, non farà altro che aumentare i consensi per la Brexit, visto che la permanenza al potere di Blair le ha solo aperto la strada.

Blair è uno sciocco illuso se pensa davvero di avere la credibilità o il potere perché un suo intervento di questo genere sulla scena politica si risolva in qualcosa di diverso da un completo disastro. Con l’anniversario dell’inizio della guerra del 2003 in Iraq che ricorre il mese prossimo, e che riporterà alla memoria il ruolo svolto da Blair nella morte di circa un milione di persone, oltre che nella destabilizzazione della regione e nell’esplosione del terrorismo che ha portato tante stragi negli anni seguenti, l’unico posto da cui oggi Blair dovrebbe poter tenere discorsi è dal banco degli imputati della Corte Penale Internazionale dell’Aja, dove la sua presenza è attesa da tempo.

Tony Blair, in compagnia di Barack Obama e Hillary Clinton, è il paradigma di tutto quanto c’è di sbagliato e depravato nella democrazia liberale. Che si parli del loro legame con gli interessi di Wall Street e della City di Londra, dell’abbandono dei poveri e della classe lavoratrice in cambio di una politica di appartenenza, dell’idolatria del libero mercato e del neoliberalismo, senza dimenticare la devozione servile all’imperialismo occidentale travestito da difesa della democrazia e dei diritti umani – questi personaggi hanno messo sottosopra il mondo, arricchendo a dismisura se stessi e i loro compari.

Aborrire tutto ciò che la Brexit rappresenta, l’esplosione del populismo di destra, spinto dall'intolleranza contro i migranti  e dall’ultra nazionalismo che lo alimenta, non impedisce di capire come la Brexit sia stata innescata dal collasso della politica di centro sinistra, e dallo svuotamento della socialdemocrazia avvenuto sotto il governo di Blair. Lo stesso ragionamento vale quando parliamo di Trump e della cupidigia del governo Obama negli Stati Uniti.

 

La crisi economico-finanziaria esplosa nel 2008, e il cui impatto stiamo ancora subendo quasi dieci anni dopo, è stato un risultato diretto delle politiche neoliberiste adottate da Blair e da Bill Clinton negli anni ’90 – politiche che sono poi state portate avanti dai governi successivi. Il fatto è che il disprezzo e la rabbia nei confronti della classe politica in entrambi i Paesi non sono apparsi improvvisamente nell’arco di una notte. Si sono accumulati per anni, fino a quando il referendum per decidere se il Regno Unito dovesse rimanere nella UE ha dato l’opportunità a quanti avevano più sofferto a causa delle politiche neoliberiste di esprimere nelle urne il loro disprezzo dello status quo.

Circostanze simili hanno caratterizzato l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca, sull’altra sponda dell’Atlantico. C’è almeno uno dei suoi appassionati critici liberal che si prenda la briga di chiedersi come abbia fatto un santone dell’immobiliare, star del reality show televisivo, senza alcuna esperienza politica, ad avere la meglio su politici esperti a livello nazionale, come Jeb Bush, Marco Rubio e Ted Cruz, vincendo le primarie repubblicane nel 2016, per poi sconfiggere Hillary Clinton alla sfida per la presidenza a novembre dello stesso anno?

La risposta naturalmente sta nel curriculum di questi politici, la cui carriera è un monumento a lunghi anni di servizio nelle stanze del potere di Washington, odiate da milioni di americani.

Finché la classe politica britannica e statunitense non ammetteranno infine la propria responsabilità nel rifiuto da parte del popolo di tutto ciò che esse rappresentano, non ci sarà mai una fine alla polarizzazione politica e sociale che sta diventando la nuova realtà di questi paesi. Rimangono ancorati al passato, aggrappandosi alle virtù del libero mercato, della NATO e del “centralismo” occidentale. In questo campo, assomigliano a quei soldati giapponesi che si rifiutavano di uscire dai fortini nella giungla in cui erano asserragliati durante la seconda guerra mondiale, ancora più di dieci anni dopo la fine della guerra.

Per tornare a Tony Blair, è un uomo che, non soddisfatto di aver contribuito a mettere a ferro e fuoco il mondo, poi è sparito in un tramonto di impareggiabile sfarzo e ricchezza, il prezzo del peccato ricevuto per i servizi resi ai più corrotti e ripugnanti governi e multinazionali esistenti sulla faccia della terra. Ogni sua espressione o apparizione pubblica è un insulto ai milioni di uomini, donne e bambini in Iraq che sono stati macellati a causa delle guerre imperialiste brutali e illegali che lui ha scatenato nel 2003 in combutta con Washington.

Questo ci ricorda che la richiesta di giustizia che proviene dalle loro tombe deve ancora essere ascoltata.

 

21/02/17

Nassim Taleb: Non è fascismo! E' una rivolta in atto contro gli pseudo-esperti

Dopo aver correttamente previsto la crisi economica del 2008, la vittoria della Brexit, le elezioni presidenziali americane ed altri eventi, Nassim Nicholas Taleb, autore della collana "Incerto" sulle incognite globali, che include "Il Cigno Nero. Come l'improbabile governa la nostra vita", è considerato una sorta di oracolo dissidente. L'economista-matematico è anche stato criticato per aver auspicato una “semplificazione” del sistema economico, e per le sue argomentazioni a favore del Presidente USA Donald Trump e dei movimenti populistici globali. In un'intervista al quotidiano The Indu, Taleb spiega perché ritiene che nel mondo sia in atto una “rivolta globale contro gli psuedo-esperti”.


Di Suhasini Haidar, 29 gennaio 2017


Traduzione di Margherita Russo


L'economista-matematico Nassim Nicholas Taleb sostiene che sia in atto una rivolta contro gli pseudo-esperti


Per iniziare, vorrei chiederle del suo prossimo libro, Skin in the Game, quinto volume della collana Incerto. Lei ha una strana abitudine con i suoi libri: prima della loro uscita, pubblica alcuni capitoli sul suo sito. Perché lo fa?


Mettere online il mio lavoro mi stimola ad andare più a fondo su un argomento. Quando pubblico online, il mio pensiero inizia a strutturarsi. L'unico modo per giudicare un libro è sulla base di quella cosa chiamata effetto Lindy, ossia dalla sua sopravvivenza. I miei libri tendono a sopravvivere. Ho notato che The Black Swan ha avuto successo perché è stato subito captato online, molto prima di essere pubblicato. Inoltre preferisco i social alle interviste nei media convenzionali, perché molti giornalisti non fanno bene il loro lavoro, e fanno passare per giornalismo quelle che sono liste di Top Ten dello ‘zeitgeist’.

I media però non sono un'organizzazione unica ad entità monolitica.


Be', mi riferisco agli Stati Uniti, dove leggo notizie più credibili nei social che nei media mainstream. Sono però positivamente colpito dai media indiani, che presentano entrambi i lati della storia. Negli USA si leggono solo le versioni ufficiali, governative o accademiche.

In Skin in the Game sembra partire da alcune riflessioni contenute in The Black Swan che suggeriscono brutti presagi per l'economia mondiale. Lei prevede un'altra crisi?

Oh, assolutamente! L'ultima crisi [2008] non è ancora finita perché è stata solo rimandata. [Barack] Obama è un attore. Fa la sua bella figura, sa crescere i figli, è una persona perbene. Ma non ha risolto i problemi del sistema economico, ci ha solo iniettato della novocaina [un anestetico locale]. Ha rimandato il problema alleandosi con i banchieri, che invece avrebbe dovuto perseguire. Ed è solo raddoppiando il deficit in rapporto al PIL che si sono creati sei milioni di posti di lavoro, con un debito enorme ed un sistema non risanato. I tassi d'interesse sono stati mantenuti a zero, e non è servito. In pratica negli USA il problema è stato trasferito dalle imprese private allo Stato. Quindi il sistema resta molto vulnerabile.

Secondo lei Obama avrebbe anestetizzato il sistema. L'amministrazione Trump ce la farà a fare fronte a ciò?

Certo. Ha ricevuto il mandato proprio perché ha capito il problema economico. Non salta subito all'occhio come Obama abbia creato ineguaglianze quando ha distorto il sistema. [Oggi] si può arricchire solo chi già dispone di capitali. Trump mette nel sistema un certo senso degli affari. Non c'è bisogno di essere dei geni per capire cosa c'è che non funziona. Se Trump non fosse stato eletto, e al suo posto avessimo il proprietario di una bottega del souk [bazaar] di un quartiere di Aleppo, questi avrebbe fatto le stesse cose che Trump sta facendo. Come ad esempio telefonare alla Boeing per chiedere perché stiamo pagando così tanto.

Lei è considerato una specie di oracolo, ha anticipato il tracollo economico, ha previsto il voto sulla Brexit, gli esiti della crisi siriana. Ha affermato che lo Stato Islamico avrebbe beneficiato dall'estromissione di Bashar al-Assad ed ha previsto la vittoria di Trump. Come lo spiega?

Non lo Stato Islamico, a quel tempo c'era al-Qaeda, ed io ho detto che l'amministrazione USA li stava aiutando finanziariamente. Vede, bisogna avere il coraggio di dire certe cose che altri non dicono. Nella vita ho avuto fortuna finanziariamente, non ho avuto bisogno di lavorare per vivere e posso passare il tempo a pensare. Quando Trump si è candidato alla presidenza, ho detto che il suo programma è chiaro e comprensibile per un bottegaio. Perché il bottegaio può dire se Trump sbaglia, dato che può capire dove sbaglia. Ma con Obama non si capisce nulla di quello che dice, per cui il bottegaio non sa dov'è lo sbaglio.

La scelta è allora tra semplificazione e sovra-intellettualizzazione?

Esattamente. Trump non si è mai candidato ad essere un arcivescovo, quindi non lo si è mai visto comportarsi come un santo, e va bene così. Obama invece si comportava come l'Arcivescovo di Canterbury, e prometteva di fare miracoli, ma la gente non ha visto alcun miglioramento. Come dicevo, un negoziante di Aleppo, o un pizzicagnolo di Mumbai, alla gente sarebbero piaciuti come Trump. Lui dice parole di buonsenso, quando chiede perché paghiamo così tanto per questa spazzatura o perché la tassazione deve essere così complessa, o perché dovremmo avere le lobby fra i piedi. Il linguaggio diretto di Trump può piacere o no. Ma neanche il modo in cui gli intellettuali trattano chi non è d'accordo con loro è tanto bello. Mi viene in mente un mio amico accademico che era a favore della Brexit, e che mi diceva di sentirsi come un lebbroso in UK. Lo stesso è successo negli USA a chi era a favore di Trump

Ma ci sono anche validi motivi per essere preoccupati da Trump.

Mah, ad esempio ad un imprenditore quello che dice Trump non darebbe fastidio. La classe degli intellettuali, composta in America da non più di 200.000 persone, non è rappresentativa di tutti quelli che ce l'hanno con Trump. La vera questione è il ‘problema dei falsi esperti’, quelli che non sanno di non sapere, e presumono di sapere quello che pensa la gente. Un elettricista non ha questo problema.

L'elezione di Trump fa parte di un fenomeno globale? Lei ha evidenziato le similitudini con l'elezione di Narendra Modi in India.

Be', [nei casi di] Trump, Modi, Brexit, e adesso della Francia, questi paesi presentano problemi simili. Ciò che è evidente è che la gente è stufa delle classi dirigenti. Non è fascismo. Non ha niente a che vedere col fascismo. Ha a che fare con il problema dei falsi esperti, di un mondo con troppi esperti. Se avessimo delle élite diverse, il problema non sussisterebbe.

Ci sono altre similitudini, per citare gli studi fatti sui movimenti populistici a livello globale: questi leader sono maggioritari, sfruttano il risentimento, utilizzano i social media per avere un contatto diretto con gli elettori, e sono in grado di prendere decisioni drastiche.

Ho detto spesso che un matematico pensa con i numeri, un giurista con le leggi, ed un idiota con le parole. Le parole non significano niente. Credo che si debba trarre la conclusione che c'è una rivolta globale contro gli pseudo-esperti. L'ho vista con la Brexit, e Nigel Farage [leader dell'UK Independence Party], che ha lavorato come trader per 15 anni, ha detto che il problema dei politici è che nessuno di loro ha mai lavorato. Fare il burocrate non è un vero lavoro.

Come imprenditore ha certamente ragione riguardo agli esperti e pseudo-esperti che definisce ‘di sinistra’. Come spiega però le altre componenti non economiche del fenomeno: xenofobia, islamofobia, misoginia, ecc.?

Non capisco come una persona di sinistra possa difendere il salafismo, o l'estremismo religioso. In democrazia si può permettere a chiunque di avere un'opinione, ma non di propugnare il messaggio di distruggere la democrazia. Perché qualcuno dovrebbe portare in occidente il messaggio di distruggere l'occidente? Qui il ragionamento va in tilt. Dunque in Yemen, l'intervento [saudita] va bene, mentre l'intervento [della Russia] ad Aleppo non può essere consentito. Non credo che Trump abbia detto che i criminali messicani non dovrebbero essere lasciati entrare negli USA per razzismo; si riferiva ai criminali. Essere nazifobico non significa essere anti-tedesco. Opporsi al salafismo non è islamofobia.  Anche Obama ha deportato messicani e si è rifiutato di accettare immigrati.

L'anti-globalizzazione è una parte di questo pensiero?


Non sono contro la globalizzazione, ma sono contro le grandi multinazionali globali. Una delle ragioni è il loro costo. Oggigiorno tutti i progetti hanno dei costi aggiuntivi perché devono tener conto anche dei rischi globali. In natura esiste ‘l'effetto isola’.  Il numero delle specie presenti su un'isola diminuisce sensibilmente [se le si porta] sul continente. In modo analogo, quando le piccole economie si aprono, perdono parte della loro etnicità e diversità. Gli artigiani sono soppiantati dalla globalizzazione. Basti pensare a quanti di loro hanno perso il lavoro perché la gente compra camicie anti-piega e telefonini a basso costo. Io sono un localista.  Il problema è che la globalizzazione passa attraverso grandi multinazionali che sono per natura predatorie, quindi è necessario contrastarne gli effetti negativi.

In che direzione vede il mondo muoversi adesso? Più a destra, o ritornerà verso il centro?

Non penso che andrà né destra né a sinistra, e non posso dire niente sul breve periodo. Ma credo che nel lungo periodo, il mondo potrà sopravvivere solo avvicinandosi a  un modo di vivere naturale. Molte piccole comunità autonome, e un insieme di mega isole con delle frontiere, un processo decisionale rapido, ed una messa in atto trasparente. Un insieme di Svizzere, ecco di cosa c'è bisogno. Non c'è bisogno di leader, non ci servono. Serve solo che chi sta al vertice non faccia danni.

20/02/17

Münchau: C'È Sempre Meno Consenso Attorno all'Idea di Indipendenza della Banca Centrale

Sul Financial Times, Wolfgang Münchau torna a parlare del tema dell'indipendenza della Banca Centrale, messa in discussione sempre più apertamente anche negli Stati Uniti. Münchau sostiene che in democrazia l'indipendenza della Banca Centrale è sostenibile solo se c'è consenso unanime sul suo mandato. L'attività della Banca Centrale, tuttavia, richiede spesso dei compromessi tra obiettivi diversi, e questo non può prescindere dalla decisione politica. Il fatto stesso che si sollevino sempre più spesso voci di protesta verso le banche centrali implica che l'unanimità sta venendo meno, e con essa la giustificazione democratica della loro "indipendenza".

 

di Wolfgang Münchau, 19 febbraio 2017

La politica monetaria implica compromessi che sono di natura fondamentalmente politica.

È difficile trovare un simbolo più potente della lettera scritta da Patrick McHenry a Janet Yellen per rappresentare i cambiamenti che stanno per avvenire nel nostro ordine economico liberale. Il vicepresidente della commissione per i servizi finanziari della Camera dei Rappresentanti americana ha messo in discussione il diritto del Presidente della Federal Reserve di poter trattare le regole della stabilità finanziaria "con i burocrati globali in terre straniere senza ... l'autorizzazione a farlo". Raramente l'opposizione alla globalizzazione finanziaria è stata espressa in termini così concisi.

La lettera solleva due questioni. Ci sono ancora le condizioni politiche per l'indipendenza della Banca Centrale negli Stati Uniti e nel mondo? Se sì, quali dovrebbero essere i limiti del suo mandato?

La mia risposta alla prima questione è "sì e no". Le condizioni per l'indipendenza della Banca Centrale non sono più presenti in tutti i paesi, e anche dove ci sono, bisogna garantire che l'indipendenza sia strettamente limitata agli aspetti centrali del mandato della Banca. Questi aspetti differiscono a seconda delle giurisdizioni. Il Federal Reserve Act stabilisce che il ruolo della Fed è quello di massimizzare l'occupazione, garantire la stabilità finanziaria e moderare i tassi di interesse a lungo termine. Il mandato primario della Banca Centrale Europea è invece quello di garantire la stabilità dei prezzi, mentre per la Banca di Inghilterra è quello di raggiungere un determinato livello target di inflazione.

Dobbiamo ricordare che l'indipendenza della Banca Centrale non rappresenta l'ordine naturale delle cose. Fino a non molto tempo fa la maggior parte delle banche centrali erano semplicemente istituzioni pubbliche, ed erano soggette a direttive politiche che spesso venivano dal Ministro delle finanze. Divennero indipendenti dopo che un periodo di instabilità dei prezzi negli anni '70 e '80 ha generato in molti paesi un consenso su quale dovesse essere il ruolo della banca centrale. Se quasi tutti concordano sugli obiettivi di una politica tecnicamente complessa, allora - questo è l'argomento a favore dell'indipendenza della Banca Centrale - staremo tutti meglio se lasciamo l'implementazione di questa politica agli esperti. L'argomento principale per l'indipendenza della Banca Centrale, dunque, non è che essa porti di per sé a dei migliori risultati, ma che siamo tutti d'accordo su ciò che dovrebbe essere fatto. In molti paesi, tra cui gli Stati Uniti, questo consenso esiste ancora. Ma la lettera di McHenry ci dice anche che il consenso su un'ampia definizione dell'indipendenza della Banca Centrale non è più così forte come un tempo.

Una volta che il consenso sugli obiettivi della politica monetaria viene meno, la stessa idea di indipendenza della Banca Centrale diventa difficile da difendere su una base democratica. La situazione americana differisce per un aspetto importante rispetto a quella europea: l'obiettivo della politica monetaria è definito in modo molto più ampio. Da un certo punto di vista ciò rende più semplice difendere l'indipendenza della Banca Centrale. L'obiettivo è definito in modo così ampio che è difficile essere in disaccordo. Ma cosa succede se diversi obiettivi entrano in conflitto tra loro? Sono d'accordo con Otmar Issing, ex capo economista della BCE, sul fatto che l'indipendenza della Banca Centrale è giustificabile politicamente solo quando la Banca Centrale ha come obiettivo una singola variabile - nel caso della BCE, la stabilità dei prezzi. La presenza di più obiettivi implica che deve essere trovato un compromesso, e trovare questo compromesso è fondamentalmente un compito politico.

L'indipendenza della Banca Centrale richiede qualcosa di più che un ampio accordo sugli obiettivi stessi. Richiede anche un certo grado di accordo su cosa la stabilità dei prezzi, per esempio, significhi. Questo è un problema alquanto controverso nell'eurozona, dove la Germania non ha mai accettato il target della BCE su un tasso di inflazione annuale "di poco inferiore al 2 percento".

Un tasso di inflazione vicino al 2 percento è oggi ampiamente accettato dai banchieri centrali. Ma nei decenni prima dell'età d'oro dell'indipendenza delle banche centrali, gli economisti dibattevano sul necessario compromesso tra disoccupazione e inflazione. Da allora, la professione economica ha visto una convergenza verso un nuovo insieme di credenze. Un tasso di inflazione basso ma stabilmente positivo è oggi considerato compatibile con la massima occupazione possibile. Vi è un vasto consenso su questa compatibilità, definita da Olivier Blanchard, economista francese, come una divina coincidenza. Eppure la fiducia in questi modelli economici si sta indebolendo, proprio come il sostegno all'indipendenza delle banche centrali. Le due cose potrebbero naufragare assieme.

Da dove arriva questa concessione ai banchieri centrali di poter partecipare ai forum globali di "burocrati in terre straniere", contro la quale ha inveito McHenry? Gli ultimi 10 anni ci hanno insegnato che la regolamentazione finanziaria è anzitutto una questione politica, non una questione tecnica. Il modo in cui regolamentiamo le banche conta, così come conta quali requisiti di capitale imponiamo, e ciò che facciamo quando le banche falliscono. Il ruolo delle banche centrali dovrebbe essere di dare suggerimenti ai paesi e di fornire supporto tecnico.

Dunque non importa se McHenry abbia ragione o abbia torto. Il solo fatto che una lettera del genere sia stata scritta ci dice che le fondamenta dell'indipendenza della Banca Centrale non sono più così solide come prima.

 

Kelly Greenhill - Braccia aperte, porte sbarrate: Paure, ipocrisie e paranoia nella crisi migratoria europea

Abbiamo il piacere di pubblicare la traduzione del paper di approfondimento sulla crisi migratoria che Kelly Greenhill, insegnante di politica internazionale alla Tufts University (Massachussets), ha presentato questo novembre al Goofy5,  la 5^ edizione del convegno "Euro, mercati, democrazia - C'è vita fuori dall'euro (!/?)" organizzato dall'associazione a/simmetrie in collaborazione col Dipartimento di economia dell'Università Gabriele D'Annunzio di Chieti-Pescara.  Come la professoressa Greenhill dimostra attraverso un'analisi dettagliata e un'ampia raccolta di dati, gli attuali fenomeni migratori di massa,  sia pure in origine provocati da guerre ed emergenze umanitarie,  sono poi utilizzati senza scrupoli come strumenti di coercizione  per difendere  degli sporchi interessi.

La professoressa Greenhill è l'autrice del libro  "Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion, and Foreign Policy",  che questa primavera uscirà nell'edizione italiana per la LEG, Libreria Editrice Goriziana.

 

Greenhill, K. M. (2016) Open Arms Behind Barred Doors: Fear, Hypocrisy and Policy Schizophrenia in the European Migration Crisis. European Law Journal, 22: 317–332. doi: 10.1111/eulj.12179


© 2016 John Wiley & Sons Ltd.


Traduzione di Margherita Russo


Abstract: Oltre un milione di profughi e migranti arrivati in Europa nel 2015 hanno messo in evidenza i limiti dei meccanismi di controllo delle frontiere comuni e di ripartizione degli oneri dell'UE. Questo articolo esamina le conseguenze delle reazioni scomposte, paranoiche e spesso ipocrite dell'Unione a quella che è ormai nota come la crisi migratoria europea. Si evidenzierà il modo in cui reazioni unilaterali a livello nazionale hanno reso l'UE nel suo complesso particolarmente vulnerabile ad una pratica ricattatoria unica nel suo genere, basata sulla minaccia (o effettiva causazione) di movimenti massicci di esseri umani come strumento di coercizione non militare verso gli stati. Dopo aver delineato i protagonisti, le motivazioni, e le circostanze di queste modalità di politica internazionale, si offrirà un esempio concreto di tale coercizione nell'analisi dell'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia. L'articolo si conclude con una discussione delle conseguenze più vaste dell'accordo, e delle sue implicazioni per il futuro sia dei rifugiati che dell'UE.


I - Prefazione


Nel 2015 sono arrivati in Europa oltre un milione di profughi e migranti, quasi la metà dei quali in fuga dalla guerra civile in Siria e circa un terzo in cerca di asilo politico. Il problema dell'assunzione di responsabilità per i nuovi arrivati, e di come tale responsabilità dovesse essere condivisa, ha generato risposte politiche molto diverse, talvolta schizofreniche, tra gli stati membri dell'Unione europea (UE), evidenziando la prevalenza dell'interesse nazionale sui princìpi di solidarietà europea. Da queste divergenti risposte nazionali è scaturito un dibattito politico sugli obblighi legali e normativi nei confronti dei rifugiati all'interno di ogni singolo stato e della comunità degli stati membri. In diverse capitali questi dibattiti hanno acuito divisioni interne (spesso pre-esistenti) in modi che hanno finito con l'avvantaggiare notevolmente partiti politici della destra nazionalista.


L'assenza di solidarietà nell'UE, e la mancata risposta collettiva alle sfide umanitarie e politiche che si sono imposte con l'ondata di arrivi, hanno ulteriormente messo a nudo i limiti dei meccanismi di controllo delle frontiere comuni e di ripartizione dei migranti e dei relativi oneri nella UE, meccanismi che non sono mai stati applicati in modo completo e soddisfacente.1 Alcuni membri della zona Schengen hanno unilateralmente reintrodotto controlli frontalieri interni già per la fine dell'anno, appellandosi all'articolo 26 sulle circostanze eccezionali del codice delle frontiere. Altri stati, come l'Ungheria, hanno eretto barriere fisiche all'ingresso lungo le frontiere con stati extra-Schengen.

All'inizio di gennaio del 2016, anche a seguito di queste acute minacce e tensioni all'impresa comune europea, il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk ha dichiarato che l'UE aveva al massimo 2 mesi per salvare l'area di libera circolazione Schengen, e forse la stessa Unione. L'incapacità di pervenire ad una soluzione, avvertiva Tusk, avrebbe condotto al fallimento dell'UE come progetto politico.2 Se le infauste previsioni di Tusk dovessero realizzarsi, non sarebbe la prima volta che migrazioni di massa avrebbero catalizzato una radicale riconfigurazione del panorama politico internazionale. Nell'estate del 1989, ad esempio, il massiccio esodo di tedeschi dell'est in Austria attraverso la Cecoslovacchia e l'Ungheria spinse la Repubblica Democratica Tedesca ad aprire le frontiere occidentali, determinando la caduta del muro di Berlino e la successiva riunificazione delle due Germanie.3 Certo, l'esodo da est ad ovest non avveniva in una situazione di vuoto politico, tuttavia si può affermare che fu la migrazione di massa, e non un'invasione militare, a distruggere la Germania Est, a dare il colpo di grazia per il Patto di Varsavia prefigurando la fine della Guerra Fredda e, in ultima analisi, il collasso dell'Unione Sovietica. Resta però aperta la questione se lo stesso destino potrebbe oggi abbattersi sull'UE. Sembra evidente che le reazioni alla recente ondata non regolamentata da parte di più recenti membri dell'UE, o da stati che hanno recentemente presentato la loro candidatura—ovvero arresti ed espulsioni di massa, chiusura unilaterale delle frontiere e richieste di interventi stranieri—esemplifichino ancora una volta la capacità delle migrazioni irregolari di suscitare sentimenti di insicurezza e paura nelle persone ed i governi. Il Primo Ministro britannico David Cameron, con un vocabolario evocatore degli insetti, ha messo in guardia contro gli 'sciami' di ‘immigrati clandestini’ che starebbero invadendo l'Europa,4 mentre il Primo Ministro ungherese Viktor Orbán ha dichiarato che, ‘a livello europeo, il numero di futuri immigrati potenziali sembra non avere fine, [e per di più gran parte dei nuovi arrivi] non sono cristiani, bensì musulmani’. Orbán ha anche aggiunto che l'ondata di rifugiati in Europa ‘ricorda un esercito’.5 Da parte sua, Jaroslaw Kaczynski, rappresentante del partito polacco Legge e Giustizia ed ex-primo ministro, ha sostenuto che i rifugiati islamici avrebbero diffuso germi e malattie tra le popolazioni locali,6 mentre il leader dei Democratici svedesi Jimmie Åkesson ha affermato che ‘l'islam è il nazismo e comunismo dei nostri giorni’.7

A fronte degli avvenimenti del 1989, questi esempi non troppo originali di retorica infiammatoria, uniti al forte monito di Tusk sui possibili rischi per l'esistenza della UE come entità politica, mettono in evidenza in maniera drammatica la verità, scomoda e quindi spesso ignorata, che gli attacchi militari non sono affatto l'unica maniera per compromettere accordi politici ed assetti di governance già precari (o per pilotare il pubblico verso sentimenti di paura, di insicurezza e di isolamento). I timori riguardo l'immigrazione irregolare possono anche avere lo stesso effetto, con preoccupanti rischi, oltre che per le stesse classi politiche, anche per le norme, i valori e principi umanitari che (almeno apparentemente) sono tenute a difendere.


Per un certo verso potrebbe apparire strano che il sentimento di vivere sotto assedio ed a rischio per via degli attuali flussi dal Medio Oriente ed oltre sia così diffuso all'interno dell'UE. Una tale reazione può sembrare obiettivamente esagerata, se si considerano solo i numeri assoluti. Per quanto sensibilmente più numerosi rispetto ai 280,000 arrivati l'anno precedente, il milione di persone che hanno raggiunto l'Europa nel 2015 non costituiscono che una minima parte degli oltre 60 milioni di rifugiati a livello mondiale.8 Rispetto alla popolazione dell'UE di circa 509 milioni, l'entità degli ingressi è ancora meno significativa. Tuttavia, la condivisione del carico di oneri finanziari, sociali e politici dei recenti arrivi nell'UE è stata tutt'altro che equa. (Attualmente la Germania ha, ad esempio, assorbito il maggior numero di rifugiati in termini assoluti, mentre la Svezia ne ha accolto la più alta percentuale pro capite. In contrasto, altri stati membri non hanno accettato alcun rifugiato). Dal canto loro, gli stati in prima linea lungo la frontiera meridionale dell'UE, come l'Italia e la Grecia, hanno anche dovuto sostenere oneri notevoli. Questi stati costituiscono la porta di ingresso (ed in base alle regole di Dublino, le aree di detenzione e di controllo) per la maggior parte dei nuovi arrivi. Bruxelles è stata decisamente lenta sia nel fornire l'assistenza di cui gli stati in prima linea hanno disperatamente bisogno, che nel facilitare il promesso reinsediamento dei migranti e dei rifugiati in altre parti dell'UE, creando di fatto delle strettoie e trasformando tali stati, privi di mezzi idonei, in vasti campi di detenzione, definiti da alcuni ministri greci come ‘cimiteri di anime.’9 Negli stati di primo approdo, l'incertezza riguardo l'eventualità e la tempistica di un'adeguata assistenza da parte dell'EU e le conseguenze di possibili ulteriori ondate, hanno suscitato considerevoli paure e preoccupazioni relative all'immigrazione. Proprio questi sono i timori che hanno spinto alcuni fra gli stati in prima linea ad ignorare le disposizioni del trattato di Dublino, consentendo a migranti e profughi di transitare sul loro territorio senza essere identificati (e senza restrizioni) verso i paesi del nord, in tal modo incoraggiando, ed in pratica accelerando, una modalità alternativa ed informale di condivisione degli oneri all'interno dell'UE. La cosa ha a sua volta suscitato timori anche negli stati non di prima linea.10

D'altronde, un'analisi basata esclusivamente sui numeri cela il fatto che ciò che tende a far scattare l'allarme—che sia di sicurezza, economico, sociale o culturale—appartiene tanto all'ambito delle percezioni quanto a quello della realtà oggettiva, e che tali percezioni possono essere, e spesso sono, strumentalizzate da soggetti intraprendenti disposti a far leva su tali sentimenti. In effetti, come ho già spiegato nel mio libro del 2010, Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy, l'utilizzo dei rifugiati come strumento di politica estera è una pratica abbastanza comune delle relazioni internazionali. Si tratta di una forma di coercizione non convenzionale, ma promossa già più di 70 volte soltanto a partire dall'introduzione della Convenzione sui rifugiati del 1951, ossia mediamente più di una volta all'anno, ed adottata durante questo periodo da decine di attori distinti contro almeno altrettanti bersagli diversi e, di conseguenza, contro altrettanti gruppi vittime—gli stessi profughi.11 Questo strumento è stato usato sia in guerra che in pace, da attori sia statali che non statali, al servizio degli obiettivi più disparati, che vanno dal semplice sostegno finanziario fino ad una vera e propria invasione militare e ad un cambiamento di regime. Peraltro, in circa tre quarti dei casi identificati gli estorsori sono riusciti a raggiungere i loro obiettivi, quanto meno in parte; circa il 57% delle volte hanno pienamente realizzato i loro scopi dichiarati.12 Ma come è possibile, e perché, che l'utilizzo di esseri umani come strumento di politica estera funzioni così bene, e come si situano gli attuali avvenimenti in Europa all'interno del quadro storico?


Le pagine seguenti offrono uno schema della teoria delineata in Weapons of Mass Migration, e un ritratto degli attori che utilizzano questo tipo di coercizioni e delle loro motivazioni. Un esempio pratico di questo genere di coercizione è dato dall'analisi dell'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia, e di cosa ha spinto l'UE ad arrendersi davanti ai numerosi ricatti politici ed economici della Turchia. Per concludere, si analizzeranno le conseguenze più vaste dell'accordo e le sue implicazioni per il futuro sia dei rifugiati che dell'UE.


II La migrazione come strumento di coercizione: attori, motivi, finalità.


La definizione comune di coercizione è la pratica di causare, o di prevenire, cambiamenti di condotta politica mediante il ricorso a minacce, intimidazioni o altre modalità di pressione—più spesso con interventi militari. Per estensione, con migrazione coercitiva programmata (MCP) si intendono quei movimenti di persone transfrontalieri deliberatamente innescati o manipolati da entità statali o non statali, allo scopo di ottenere vantaggi politici, militari e/o economici da uno o più stati destinatari.13


La migrazione coercitiva programmata è utilizzata da tre diverse categorie di attori: i promotori, gli agenti provocatori e gli opportunisti. I promotori (come l'ex-leader libico Muammar Gheddafi14 ed l'attuale presidente siriano Bashar al-Asaad15) provocano direttamente, o minacciano di provocare, movimenti transfrontalieri di persone per spingere gli stati destinatari a cedere alla loro richieste. Gli agenti provocatori, per contro, non fanno provocano direttamente tali crisi, ma piuttosto agiscono deliberatamente in maniera tale da istigare altri attori a generare flussi migratori (un tipico esempio è quelli dell'Esercito di Liberazione del Kossovo nell'istigare gli attacchi di contingenti militari serbi contro civili di etnia albanese in Kossovo alla fine degli anni '90).16 Gli opportunisti (come la Turchia nel 2015 e 2016) non hanno un ruolo diretto nella creazione di crisi migratorie, ma semplicemente sfruttano a loro vantaggio le ondate migratorie pre-esistenti causate o alimentate da altri. Una delle tattiche degli opportunisti è la minaccia di chiudere le frontiere, creando così emergenze umanitarie, in assenza di misure desiderate o compensazioni. Oppure l'offerta di alleviare crisi esistenti in cambio ricompense politiche e/o finanziarie. Il 60% circa dei casi di MCP finora individuati servono obiettivi politici, il 30% obiettivi militari ed il 50% obiettivi economici (il totale supera il 100% perché spesso i ricattatori sono mossi da scopi multipli ed avanzano richieste composite).

La MCP rappresenta sul piano operativo ciò che è conosciuto nelle relazioni internazionali come strategia di ‘punizione coercitiva’. I ricattatori mirano a provocare conflitti interni e/o malcontento fra l’opinione pubblica all'interno degli stati presi di mira, allo scopo di convincerne le leadership a cedere alle loro richieste, piuttosto che rischiare i probabili costi politici (interni e/o internazionali) nel caso in cui resistano.17 Si può influire sulla MCP in due maniere distinte e non esaustive, definibili in senso lato come ‘invasione’ ed 'agitazione’. In estrema sintesi, l'invasione è incentrata sul manipolare la capacità degli stati di accoglienza di accettare/accomodare/assimilare un determinato gruppo di migranti o profughi, mentre l'agitazione consiste nell'influenzare la loro propensione a farlo. Che si tratti di invasione o di agitazione, la coercizione è a tutti gli effetti un gioco di contrattazione dinamico e composito, in cui le risposte sul piano internazionale alle minacce o alle iniziative intraprese dai ricattatori tendono ad essere trainate da contemporanee (o successive) misure prese all'interno degli stati.18


Nei paesi in via di sviluppo gli sforzi coercitivi si concentrano principalmente sull'invasione, e consistono nel minacciare di mettere pesantemente alla prova o di travolgere la capacità di un paese di far fronte concretamente ed economicamente ad un'ondata—in tal modo di fatto indebolendolo—a meno che non ceda alle richieste dei ricattatori.19 Non è difficile prevedere che, laddove esistono tensioni etniche molto elevate e la capacità di controllo del governo centrale è, nella migliore delle ipotesi, già compromessa, in condizioni di scarsità delle risorse essenziali e di instabilità del consenso e della legittimità politica, un afflusso massiccio costituisce una minaccia reale e persuasiva. Ad esempio, all'inizio del 2014, la Russia minacciò di espellere gran parte dei suoi lavoratori stranieri provenienti dall'Asia centrale se i governi di questi stati avessero appoggiato una risoluzione ONU che condannava l'annessione della Crimea (supporto che puntualmente non si verificò).20


L'invasione può anche rivelarsi una strategia efficace nei paesi sviluppati, generalmente identificati con l'Occidente. Ciò vale in particolare se la crisi in atto è ampia ed improvvisa, perché persino i paesi molto industrializzati necessitano di tempi di organizzazione per gestire efficacemente ondate esistenti o minacciate, come mostrano gli avvenimenti del 2015 in Europa. Le società industriali avanzate, tuttavia, generalmente dispongono di maggiori risorse da mobilitare in caso di crisi, il che rende più difficile travolgere (o minacciare in modo credibile di farlo) le loro effettive capacità di fronteggiarla.


Nei paesi sviluppati, dunque, è spesso l'agitazione politica a fornire il perno del ricatto mediante migrazione, piuttosto che dall'invasione. I ricattatori internazionali cercano di influenzare i comportamenti dei paesi di destinazione sul piano interno avviando una forma perfettamente legale di ricatto politico, che punta allo sfruttamento ed inasprimento di ciò che Robert Putnam chiama l'‘eterogeneità’ degli interessi politici e sociali all'interno degli stati.21 Sfruttare questa eterogeneità è possibile, specialmente nelle democrazie liberali occidentali, perché ondate migratorie come quelle causate da crisi belliche tendono a generare risposte diverse ed estremamente controverse all'interno delle società destinate sostenerne il costo delle conseguenze. Come enunciato da Marc Rosenblum: ‘gli sforzi di piegare le politiche migratorie all'interesse nazionale sono in competizione con esigenze strategiche pluralistiche provenienti dai partiti, dagli enti locali, o specifiche per determinati settori o classi sociali’.22Analogamente a ciò che già accade generalmente per tutte le questioni relative all'immigrazione, le crisi migratorie, effettive o minacciate, tendono a dividere le società in (come minimo) due gruppi reciprocamente incompatibili ed altamente polarizzati: gli schieramenti pro e contro. In un contesto di entità sopranazionali come l'UE, una tale eterogeneità può dividere gli stati (ed effettivamente li divide) fra quelli più (Germania) o meno (Ungheria) propensi ad accettare rifugiati ed immigrati. Non sorprende quindi che un sondaggio eseguito da Pew nella primavera 2015 rilevava opinioni contrastanti non solo all'interno degli stati membri ma anche attraverso l'intera UE:

‘I greci e gli italiani, i cui paesi confinano con il Mediterraneo e quindi sono in punto d'approdo naturale per i barconi che attraversano il mare, sono anche più propensi a ritenere gli immigrati un peso per la società, poiché questi si appropriano di posti di lavoro e prestazioni previdenziali. Viceversa, i cittadini britannici e tedeschi tendono a ritenere la presenza degli immigrati un vantaggio per il loro paese, grazie all'afflusso di nuovi talenti e forza lavoro. L'opinione pubblica in questi paesi dell'UE è meno preoccupata di un possibile aumento della criminalità dovuta all'immigrazione. Ma il 51% del greci pensano che gli immigrati siano responsabili dei crimini più di altri gruppi, così come il 48% dei tedeschi ed il 45% degli italiani.’‘Per quanto riguarda in particolare i profughi, quattro cittadini dell'UE su dieci ritengono che le politiche del proprio paese dovrebbero essere più restrittive, ed ancora una volta, sulla base del sondaggio sulle tendenze transatlantiche 2014 del German Marshall Fund, questo è un punto di vista particolarmente dominante in Italia (57%) e Grecia (56%). Greci ed italiani sono anche più suscettibili a preoccupazioni riguardo l'immigrazione da paesi extra-UE (84% e 76%, rispettivamente esprimono timori al riguardo).’23



Anche cosa significhi essere pro- o anti-immigrazione è un concetto che varia secondo gli stati di destinazione e secondo le crisi. In base alle circostanze, le richieste degli schieramenti a favore dei profughi/migranti vanno da risposte relativamente limitate, come l'assunzione dei costi del reinsediamento della comunità di profughi o migranti in un paese in via di sviluppo, fino ad impegni ben più significativi—o anche permanenti—come concedere l'asilo o la cittadinanza. Viceversa, le posizioni dei gruppi anti-immigrazione spaziano dal richiedere il rigetto delle istanze di assistenza finanziaria o, più radicalmente, l'intercettazione degli immigrati, al rifiuto di concedere loro l'asilo politico, o anche, in casi estremi, all'espulsione. Nella sostanza, poiché i paesi destinatari non possono contemporaneamente ‘accettare’ e ‘respingere’ un determinato gruppo di migranti o profughi, i loro politici, confrontati con interessi altamente mobilitati e polarizzati su entrambe le sponde dello spartiacque, si ritrovano di fronte a un bivio—in cui è impossibile soddisfare le richieste di una fazione senza alienare l'altra. Non è quindi l'eterogeneità in sé a renderli vulnerabili. Le strategie di mobilitazione funzionano piuttosto proprio grazie alla presenza di questi gruppi rivali con interessi tendenzialmente incompatibili che sono risolutamente impegnati a difendere (così come, nel contesto dell'UE, di quelli che si potrebbero definire come paesi rivali), congiuntamente al fatto che i governi dei paesi destinatari possono avere ottime ragioni di natura politica, legale e/o morale per evitare di entrare in contrasto sia con l'uno che con l'altro. A tali condizioni, i leader nazionali sono esposti a forti incentivi interni e, nel caso dell'UE, sopranazionali, per cedere alle richieste di livello internazionale degli estorsori—specialmente se ciò promette di evitare o far cessare una crisi migratoria reale o potenziale, evitando in questo modo ai governi dei paesi destinatari di ritrovarsi tra i proverbiali incudine e martello.24


Come si può immaginare, l'esistenza di questa dinamica, e la potenziale vulnerabilità che ne può scaturire, non sono una novità. A dispetto di retoriche affermazioni in senso contrario, le democrazie liberali occidentali hanno generalmente avuto da sempre una relazione paranoica, che non si esiterebbe a definire ipocrita, verso i migranti ed i profughi. Come giustamente affermava nel 2011 Marco Scalvini, in piena crisi libica, dopo l'ennesima minaccia dell'allora leader libico Muhammar Gheddafi di ‘rendere nera l'Europa’ con migranti e profughi: ‘l'inquietudine per un'invasione di profughi dall'Africa rivela le contraddizioni oggi presenti in Europa, dove da una parte si proclama l'obbligo morale all'emancipazione universale, mentre dall'altra, politiche e prassi confermano la tendenza a rifiutare l'asilo agli stessi profughi che le stesse hanno contribuito a creare’.25

Nonostante il carico sostenuto dall'UE non rappresenti che una parte esigua dei migranti, in molti stati membri i flussi sono chiaramente considerati talmente eccessivi da diventare pericolosi relativamente alle loro dimensioni, come le infiorettature retoriche descritte all'inizio di questo articolo rendono chiaro.26 Opinionisti, politici e persino alte cariche dello stato si ritrovano ad argomentare che gli immigrati con un retaggio religioso, linguistico ed etnico diverso da quello della maggioranza nei nuovi paesi di appartenenza rappresenterebbero una minaccia alla pubblica sicurezza. Nello scenario che ha seguito l'attentato alle Torri Gemelle, in particolare, una prevalenza di stereotipi negativi su arabi e musulmani si è accentuata nel dibattito pubblico europeo, con un'equiparazione ed una identificazione spesso indiscriminata fra Medio Oriente, Islam e terrorismo. Agli occhi di queste persone, coloro che approdano alle sponde dell'Europa non sono rifugiati in cerca di protezione ed assistenza ma piuttosto un pericolo per la sicurezza nazionale, la stabilità sociale e l'identità culturale. Sono i soldati dell’‘esercito di invasione’ di Orban.


Il dibattito politico diffuso all'interno dell'UE attinge a sentimenti nazionalisti tradizionalisti e ad argomentazioni di stampo xenofobo, secondo cui gli immigrati e i profughi riducono gli standard di vita della nazione, privando delle risorse sociali le popolazioni originarie, sottraendo lavoro a candidati più meritevoli, trapiantando le tensioni dei paesi d'origine e rendendosi responsabili di un numero sproporzionato di reati.27 Una narrazione confermata dalle centinaia di aggressioni sessuali e furti avvenuti a Colonia in Germania nel capodanno 2015, che videro coinvolti numerosi immigrati provenienti dal Nord Africa e dal Medio Oriente.28


In ultima analisi, nonostante in linea di massima i paesi occidentali siano tenuti moralmente, quando non giuridicamente, ad offrire asilo e protezione a chi sfugge da persecuzioni, violenze (ed in qualche caso anche dalla povertà), almeno una parte dei loro cittadini sono generalmente riluttanti a sopportarne i relativi costi, reali o percepiti, ed i rischi per la sicurezza.29 Analogamente, a livello europeo, nonostante l'UE come unità sopranazionale si vanti di aver posto in primo piano i diritti umani, i singoli stati membri (ed i loro cittadini) sono divisi su come reagire al problema dei profughi, e queste divisioni si vanno approfondendo con il passare del tempo. I nazionalisti europei di estrema destra hanno di conseguenza adottato una linea dura contro l'immigrazione, e le loro reazioni unilaterali a livello nazionale dominano sui proclami sopranazionali di respiro universale. Questa resistenza offre ai ricattatori un potenziale cuneo con il quale infliggere danni, in grado di mettere a rischio la relazione dei leader con la loro base, e addirittura di incitare il malcontento generale all'interno degli stati destinatari. Come ben sintetizzato da Oliver Cromwell Cox, sulla base di un ‘autentico principio democratico’ i popoli ‘non potrebbero essere costretti a fare ciò che non vogliono’ (…) È sufficiente soltanto che il gruppo dominante si convinca della minaccia posta dai valori e dalle pratiche culturali dell'altro gruppo; che siano effettivamente pericolose o meno è irrilevante’.30 Quindi, a prescindere da se i profughi e gli immigrati rappresentino o no una minaccia reale, il fatto che siano percepiti come un rischio radicale alla loro sicurezza, cultura o esistenza mobilita individui e gruppi tesi e motivati in opposizione al loro accoglimento.


Nelle società caratterizzate da un'eterogeneità di interessi e da uno squilibrio nella distribuzione dei costi e benefici associati con le migrazioni di massa (ed ovviamente questo vale ancor di più nell'UE), che solo una (o l'altra) fazione si mobiliti a fronte di una crisi rappresenta l'eccezione più della norma. Pertanto, a fronte di una crisi imminente o in corso, i paesi destinatari si trovano spesso a fronteggiare fazioni altamente polarizzate con interessi reciprocamente incompatibili, ed a confrontare un dilemma politico sostanziale, la risoluzione del quale diviene particolarmente problematica per l'UE, dove interessi incompatibili si palesano a livello sia interno che internazionale, ed in cui i singoli stati cercano di risolvere tale dilemma impegnandosi in un (almeno apparente) scaricabarile, seppur razionale dal punto di vista individuale, e/o adottando politiche volte a scaricare le difficoltà sugli altri.31 Ed effettivamente è proprio ciò cui abbiamo assistito nel contesto della crisi europea attuale, con una serie di defezioni scoordinate dagli accordi collettivi da parte di singoli stati.

L'esistenza di tali dilemmi politici è ben nota agli estorsori che si cimentano in MCP, che perseguono deliberatamente l'obiettivo di sfruttarli a loro vantaggio. Di fatto, potenziali ricattatori spesso cercano non solo di sfruttare le differenze già esistenti fra queste fazioni, ma anche di aumentare la vulnerabilità dei paesi destinatari nel corso del tempo, attraverso azioni designate a catalizzare, direttamente o indirettamente, una maggiore mobilitazione e ad innalzare il grado di polarizzazione, riducendo così le opzioni politiche disponibili ai governi. Fra i metodi utilizzati dai ricattatori vi sono i tentativi di incrementare la portata, le dimensioni e l'ampiezza di un flusso già esistente, o di modificarne le caratteristiche, ad esempio aggiungendo altri soggetti da gruppi ‘indesiderabili’ o simpatizzanti con la loro causa, di minacciare di alzare le tensioni, o più semplicemente di esercitare pressioni su determinati membri delle fazioni pro e contro.


In breve, queste sfide servono a ricattare i paesi destinatari con le cosiddette cause di forza maggiore, strumento di coercizione per eccellenza, rendendo la scelta obbligata dalle circostanze. A dire il vero, ai paesi destinatari resterebbe comunque una scelta, che però è resa inappetibile dalla convinzione che, in caso di inadempienza, le scelte si esaurirebbero.32 Semplicemente, quando le opzioni politiche a disposizione sono poche, la capacità di riconciliare i conflitti interni—soddisfacendo contraddittorie richieste interne (e nel caso dell'UE, comunitarie)—diventa molto circoscritta. A queste condizioni, risulta sempre preferibile l'opzione di fare concessioni, che è esattamente il risultato sperato dal ricattatore. Questo non perché tali concessioni non abbiano un costo, ma perché, in confronto all'eventualità o all'avanzata di una crisi, le previsioni di futuri disagi e costi crescenti vanno valutate in funzione dei costi e benefici associati con la fine immediata della crisi, tramite la resa alle pretese del ricattatore, come sembra sia stato il caso per quanto riguarda l'accordo del marzo 2016 tra l'UE e la Turchia.


III - L'accordo sui migranti tra Europa e Turchia


Nel solco di un accordo preliminare raggiunto nel novembre 2015, il 18 marzo 2016 l'UE ha concluso un accordo con la Turchia nel tentativo di mitigare la crisi migratoria in corso, prevenire ulteriori arrivi incontrollati, ed alleviare le tensioni presenti all'interno dell'UE in relazione agli accordi di Schengen ed al progetto politico ed economico comune europeo. A quel punto, l'UE si trovava, per irla con le parole di un osservatore, ‘si può dire con le spalle al muro, e in uno stato di evidente panico (…) Il fatto stesso che un gruppo di 28 paesi, con interessi sempre più divergenti, sia stato in grado di trovare un consenso, la dice lunga sul livello preoccupazione con il quale i leader vedono il loro futuro politico’.33


La conclusione dell'accordo arrivava sulla scia di una serie di minacce da parte di funzionari turchi, che nei fatti si traducevano con un: ‘Siamo stanchi di aspettare (gli aiuti per questo problema). O cedete alle nostre varie richieste, o in caso contrario vi ritroverete a fronteggiare le conseguenze in termini migratori’. Fra le minacce spicca la battuta fatta del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan durante un discorso tenuto ad Ankara a metà febbraio: ‘Non abbiamo “idiota” stampato in fronte. Possiamo aver pazienza ma faremo ciò che si deve. Non crediate che i nostri aerei ed autobus stiano lì per nulla’. La brusca dichiarazione di Erdoğan seguiva nello stesso discorso all'ammissione di aver minacciato il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker, durante un meeting del G20 nel novembre precedente, che la Turchia avrebbe inviato i profughi in Europa, [aggiungendo che sarebbe stato facile] ‘aprire le frontiere con la Grecia e la Bulgaria in qualsiasi momento e stipare i profughi su degli autobus’. Erdoğan avrebbe inoltre aggiunto, ‘Sono orgoglioso di quello che ho detto. Abbiamo difeso i diritti della Turchia e dei profughi. Ed abbiamo detto [agli europei]: “Ci spiace, apriremo le porte e diremo addio ai migranti”’.34

Per scongiurare l'eventualità che l'UE potesse tirarsi fuori o arretrare da una qualsiasi parte dell'accordo, un mese dopo la sua conclusione ufficiale l'allora Primo Ministro turco Ahmet Davutoglu ha ribadito la posizione della Turchia e confermato la volontà di attuare le sue minacce, annunciando durante una conferenza stampa che ‘Se l'UE non prende le misure convenute, è impensabile che lo faccia la Turchia (…) Arrivati a questo punto, non vedo alcuna possibilità per l'UE di ritornare sui suoi passi. …L'accordo concluso con l'UE è chiarissimo. Vogliamo che questa tragedia umana finisca, che i nostri cittadini possano viaggiare senza visto, e che venga adeguata l'unione doganale. [Ma] se l'UE non dovesse tener fede ai suoi impegni, incluso il patto sui migranti, annulleremo tutti gli accordi ’.35


Coerentemente con la teoria MCP, i paesi dell'UE (ed i loro leader) si sono chiaramente ritrovati intrappolati politicamente tra l'incudine e il martello, così come previsto dai turchi. In questo contesto la situazione specifica della Germania è esemplificativa, ma non unica. Nel 2015, la Cancelliera tedesca Angela Merkel ha mutuato dalla campagna presidenziale di Barack Obama del 2008 lo slogan Wir Schaffen das (un gioco di parole ispirato a ‘yes, we can’, ce la possiamo fare) per la sua politica di apertura all'accoglienza di fino ad un milione di rifugiati in Germania nel 2015. Questo segnale unilaterale della Merkel avrebbe dovuto convincere altri paesi a seguire l'esempio della Germania, primo passo, per così dire, di un'iniziativa più vasta volta a catalizzare un effetto a cascata di solidarietà europea e di condivisione degli oneri. Invece, all'interno dell'UE si è assistito (prevalentemente) ad un effetto a cascata di scaricabarile, con defezioni affrettate da Schengen per motivi di sicurezza ed un aumento significativo del numero di richiedenti asilo che cercavano di raggiungere la Germania, incoraggiati dall'invito esteso pubblicamente dalla Merkel. Nel 2015 l'UE ha ricevuto 1 321 560 richieste d'asilo, che equivarrebbero a 47 000 per ogni stato dell'UE se fossero state distribuite equamente, ma delle quali 476 000 erano rivolte alla sola Germania36).

Un anno più tardi, con un'opinione pubblica tedesca ancora divisa ma progressivamente sempre più ostile all'immigrazione, ed a fronte di avversari temibili alle elezioni per i parlamenti regionali in tre regioni, anche i fautori della linea strategica hanno dovuto riconoscere che il Wir Schaffen das della Merkel era stato un errore.37 Si trattava di una confessione politica necessaria, per quanto difficile, perché le elezioni erano viste come il banco di prova di questa controversa iniziativa, ed particolare perché l'immigrazione era diventata il nodo politico principale della campagna elettorale, nonostante il fatto che la crisi riguardasse solo indirettamente i Länder. Ma questa ammissione non è stata sufficiente per placare il malcontento. Le elezioni hanno punito il partito dei Cristiani Democratici della Merkel in tutti e tre le regioni—facendogli perdere il controllo in due dei tre—mentre il partito anti-immigrazione Alternativa per la Germania guadagnava significativamente terreno; Alternativa per la Germania, già rappresentata in cinque delle 16 assemblee regionali, ha ottenuto ulteriori seggi in altre tre.38 Per di più, come evidenziato precedentemente, questo quadro politico non era limitato alla Germania della Merkel delle ‘braccia aperte ai profughi’, ma già verso la fine del 2015 era ormai comune nel panorama politico interno di un buon numero di stati europei.39 Come spiegato da Martin Schain, mentre a Bruxelles ‘si discutevano direttive su come distribuire il flusso di rifugiati, [i partiti anti-immigrazione] avevano gioco facile nell'attaccare sempre più pesantemente l'Europa [e le loro controparti nazionali pro-immigrazione](…) Questi partiti hanno trovato ampio spazio per influenzare le campagne elettorali, perché i leader europei tendevano invece a girare intorno al problema dei rifugiati’.40


Per paura di un complesso di costi politici crescenti (nazionali ed internazionali), gli stati europei sono stati sempre più aperti a negoziare, ed in ultima analisi a cedere, ad un buon numero di richieste turche che erano state precedentemente giudicate pubblicamente come ‘ricatti’ e ‘provocazioni’.41 In assenza di un orizzonte per la fine delle ondate—e con scarse ed improbabili possibilità realistiche che queste si fermassero spontaneamente—fare concessioni diventava più accettabile delle alternative. Un editoriale della rivista britannica The Spectator spiegava che: ‘L'Europa [aveva] disperatamente bisogno della Turchia come camera d'attesa dei migranti alle sue frontiere…. E, sia chiaro, la Turchia [era] perfettamente cosciente della sua posizione di vantaggio in queste trattative.42 Secondo i processi verbali trapelati da un meeting fra Erdoğan, Tusk e Juncker, Erdoğan disse chiaro e tondo, ‘Possiamo aprire le frontiere con la Grecia e la Bulgaria in qualsiasi momento… E a quel punto, senza un accordo, come pensate di gestire i rifugiati? Come ve ne sbarazzerete?’43 Le concessioni erano certamente una scelta dettata da ‘circostanze eccezionali’.


Nella sostanza, con gli esseri umani al posto delle bombe come strumento di persuasione politica, la minaccia di usare l'arma degli immigrati ha permesso alla Turchia di guadagnare un notevole potere ricattatorio verso l'UE in diversi ambiti, e di estorcere una serie di concessioni legate ad obiettivi già articolati in precedenza.44 Per quanto la tanto agognata no-fly zone al confine tra Turchia e Syria non sia ancora stata implementata al momento in cui questo articolo è stato scritto, numerosi altri compromessi reciproci sono stati raggiunti.45 Sul fronte della migrazione, in cambio dell'autorizzazione data alla Grecia di respingere verso la Turchia ‘tutti i nuovi migranti in situazione irregolare’ arrivati dopo il 20 marzo, l'UE si impegnava ad aiutare la Turchia a sostenere l'onere crescente di ospitare circa tre milioni di profughi, erogando più di sei miliardi di Euro di aiuti finanziari (rispetto ai soli tre miliardi di Euro offerti a novembre46) ed incrementando il reinsediamento dei rifugiati siriani residenti in Turchia.


Gli stati dell'Unione avrebbero accolto un profugo siriano dalla Turchia per ogni immigrato irregolare respinto, fino ad un massimo di 72 000.47 Ma le concessioni fatte dall'Unione Europea non si limitavano a questioni riguardanti l'immigrazione. Gli stati si impegnavano anche ad accelerare la liberalizzazione dei visti per i cittadini turchi ed a ‘resuscitare’ le ormai morenti trattative per l'adesione della Turchia all'UE, con la promessa di riaprire i negoziati su uno dei cinque ambiti politici essenziali prima di luglio di quest'anno.48 Questi mutamenti politici sono particolarmente significativi se si pensa che la Turchia aveva fatto inutilmente pressione per l'avanzamento della sua richiesta di adesione all'UE per oltre un decennio.49


Gli accordi di marzo confermavano inoltre nei fatti che l'UE nel suo complesso conveniva nel riconoscere e considerare la Turchia come un paese sicuro per i rimpatri, nonostante le reiterate violazioni dei diritti umani e le repressioni sulla stampa libera turca da parte del governo. Questa decisione è tuttora ferocemente contestata da diverse associazioni di diritti umani.50 John Dalhuisen di Amnesty International ha così commentato: ‘Invece di far pressione sulla Turchia per migliorare la protezione offerta ai profughi siriani, l'Unione sta nei fatti incentivando il contrario’.51 In pratica, oltre alle concessioni economiche e politiche, la Turchia ha fatto un salto di qualità nel suo prestigio internazionale —non dissimile, secondo i detrattori, dal pescare la carta ‘esci gratis di prigione’ a Monopoli—proprio nel momento in cui il governo turco era invece oggetto di crescenti controlli e critiche per via di uno strisciante autoritarismo. Un editoriale sullo Spectator all'inizio di marzo affermava che:


‘Sono passati quasi 30 anni da quando la Turchia si è candidata ad aderire all'UE. Le trattative si sono fatte più difficili dal 2005, quando è stato evidente che la Turchia non sarebbe stata ammessa fintanto che non avesse fatto seri passi avanti nel processo di democratizzazione e migliorato la sua aberrante reputazione nel campo dei diritti umani. Da allora, il paese non ha fatto che arretrare in questi campi. Tre giorni prima del summit di questa settimana, la polizia turca ha fatto irruzione negli uffici del quotidiano di Istanbul Zaman. … Questa è solo l'ultima di una serie di misure autoritarie repressive: il governo turco ha arrestato dissidenti, e operato un giro di vite sul separatismo curdo. Adesso, quando Erdoğan infierisce sui curdi, può star tranquillo che l'UE non dirà nulla.’‘Il recente comportamento di Erdoğan’s fa capire che non teme più la censura dell'UE…. L'accordo turco rivela il vuoto morale in seno all'UE: un compromesso perenne fra 28 paesi che vedono il mondo in modo molto diverso. Una burocrazia poco funzionale, spinta più dal panico che dalla dedizione ad una serie di ideali.’52


L'accordo UE–Turchia, concluso sotto il torchio dell'MCP, è stato oggetto di pressante attenzione da parte dei mezzi di comunicazione, in parte dovuta alle obiezioni riguardo la sua legalità, e in parte all'ostilità di lunga data in alcuni stati europei verso la Turchia. Eppure, come suggerito all'inizio di questo scritto, la natura dell'accordo, i ricatti che lo hanno accompagnato e le dinamiche politiche interne che hanno portato l'UE a cedere a gran parte delle richieste turche sono tutt'altro che inediti. Non solo non è una novità che i profughi (e le paure nascenti dalla programmazione dei loro movimenti) siano utilizzati come strumento per estorcere concessioni agli stati ricattati, ma non è neanche la prima volta durante l'attuale crisi migratoria europea che queste dinamiche escano allo scoperto.53 Per motivi meglio chiariti nel prossimo punto, potrebbe anche non essere l'ultima.


IV Ripercussioni e conclusioni


L'utilizzo delle migrazioni a scopo coercitivo è una pratica problematica dal punto di vista normativo e materiale, ed i costi, soprattutto per le vere vittime di questo tipo di coercizione, ossia gli stessi sfollati, sono tragicamente alti. Questa scomoda verità non può essere negata intellettualmente. Risulterebbe dunque quasi spontaneo attribuire alla sola Turchia il ruolo del cattivo ricattatore opportunistico, come lo si è fatto spesso nella narrazione dell'accordo UE–Turchia del 2016. Ma è fin troppo facile addossare esclusivamente alla Turchia tutte le colpe di ciò che è trapelato in questo caso specifico di MCP. Per diverse ragioni di convenienza politica, anche se in ultima analisi poco lungimiranti, la stessa UE ha preparato il terreno, e si è resa bersaglio principale, di quest'ultimo esercizio di MCT—con l'aiuto, a dire il vero alquanto esiguo, della comunità internazionale. L'accordo poi raggiunto rischia di non esaurire la questione.


Con l'infuriare delle guerra in Siria, iniziata nella primavera del 2011, i campi profughi nei paesi limitrofi alla Siria sono diventati via via sempre più sovrappopolati, ed i rifornimenti insufficienti. Secondo l'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, circa il 70% dei profughi siriani in Libano vivevano al di sotto della soglia della povertà nel 2015, e, per quanto i numeri assoluti siano minori, oltre l'85% dei profughi siriani in Giordania erano nelle stesse condizioni.54 Ad aggravare ulteriormente la situazione già disperata di molti sfollati, alla fine dell'agosto 2015, a quattro anni e mezzo dall'inizio della guerra, il Piano Regionale ONU per i Rifugiati e la Resilienza in Siria aveva ricevuto meno del 40% degli oltre 4.5 miliardi di dollari che servivano per coprire i bisogni umanitari di base.55 A causa dei finanziamenti limitati, l'ONU ha dovuto tagliare le forniture di aiuti in molti settori, provocando una riduzione in servizi essenziali come alloggi, aiuti economici, assistenza sanitaria ed alimentare. Nell'estate del 2015, il Programma Mondiale Alimentare ha inoltre dichiarato di essere costretto dalle carenze di fondi a dimezzare i buoni alimentari rilasciati ai profughi siriani in Libano.56


Insomma, il peggioramento delle condizioni in Turchia, Libano e Giordania, oltre alle restrizioni interne poste ai siriani residenti dentro e fuori i campi profughi, hanno contribuito ad accrescere la disperazione fra i rifugiati. Ciò ha a sua volta alimentato un aumento significativo dei migranti che abbandonavano gli stati limitrofi alla Siria per l'Europa attraverso la frontiera tra Grecia e Turchia.57 Secondo il funzionario dell'UNHCR Andrej Mahecic, ‘con il considerevole deteriorarsi delle condizioni nei paesi limitrofi e la rapida riduzione degli spazi protetti, numerosi siriani [hanno deciso] di proseguire [per l'Europa]’.58


Per poter notare un incremento nei numeri di coloro che raggiungevano Europa, ovviamente, bastava che i Turchi lasciassero uscire i siriani (e chiunque altro transitasse per la Turchia diretto verso l'UE) dal loro territorio. Ma fino a che i flussi dalla Turchia verso l'Europa non raggiunsero quelli che furono poi considerati ‘livelli di crisi’, l'UE e la comunità internazionale fornirono ben pochi incentivi alla Turchia o ad altri stati limitrofi per ostacolare la migrazione di transito. Come spesso lamentato dalle organizzazioni umanitarie internazionali, i finanziamenti offerti a copertura degli oneri di ospitare oltre tre milioni di rifugiati (nel caso specifico della Turchia) erano palesemente insufficienti. Nel contempo, ogni talvolta che la Turchia o altri paesi limitrofi chiudevano le loro frontiere ai richiedenti asilo, tali chiusure scatenavano critiche e riprovazione da parte della comunità internazionale.59 Sembrava quindi che i vicini della Siria dovessero continuare a fornire protezione a tempo indeterminato per un numero sempre crescente di sfollati, ma senza avere in controparte alcun impegno credibile di assistenza nel sostenere i costi di quest'impegno sempre più oneroso. L'entità della componente della carenza di fondi, di quello che era e rimane parte di un problema ben più vasto, è stato riconosciuta dai leader europei soltanto durante il summit europeo del settembre 2015, quando si sono impegnati a versare all'Alto Commissariato ed al Programma Alimentare Mondiale un ulteriore miliardo di euro per alleviare il deficit. Ma a quel punto era probabilmente ormai troppo poco e troppo tardi.

In secondo luogo, se l'accordo del marzo 2016 sembra al momento aver significativamente ridotto le ondate di sbarchi sulle coste greche, il risultato finale potrebbe rivelarsi un dirottamento piuttosto che un arresto dei flussi, oltre che l'ingresso di nuovi attori all'interno di un un gioco di trattative allargate di MCP con i membri dell'UE. Chiudendo il valico alla frontiera greca, l'UE ha probabilmente soltanto spostato le rotte migratorie verso oriente attraverso la Bulgaria e verso occidente in Libia.60 I gruppi in partenza dalla Libia provengono tuttora (un mese dopo la conclusione dell'accordo) in prevalenza dall'Africa sub-Sahariana, ma ciò potrebbe presto cambiare. Secondo Morten Kjaerum del Raoul Wallenberg Institute, i trafficanti stanno già prendendo in considerazione la Libia come rotta alternativa.61 Inoltre, come riportato dall'UNHCR, dopo l'accordo UE–Turchia ‘gli arrivi [dalla Libia] a marzo erano triplicati rispetto all'anno precedente (…) Con la chiusura del passaggio attraverso l'Egeo, è probabile che i numeri salgano,’ e che i flussi verso l'Italia aumentino bruscamente nelle settimane e nei mesi a seguire.62


Per ironia della sorte, uno degli incentivi principali dietro la mossa di intervenire militarmente per deporre Gheddafi nel 2011 era stata la sua minaccia ricorrente di ‘rendere nera l'Europa’ se l'UE non avesse ceduto ai suoi ripetuti tentativi di ricatto collegati all'immigrazione.63 Nondimeno, la rimozione di Gheddafi non solo non ha significato la fine di simili tentativi di estorsione—le fazioni rivali del governo libico hanno a più riprese minacciato l'UE esplicitamente (o in modo alquanto subdolo)64—, ma ha anche causato ulteriore caos ed instabilità politica a livello regionale, spingendo sempre più sfollati a cercare protezione ed accoglienza altrove. Prima delle Primavere Arabe del 2011 e delle rivolte libiche che ne seguirono, la Libia era stata una mèta principale per i lavoratori migranti. La presenza di immigrati in Libia prima delle rivolte del 2011 era stimata intorno ai 2.5 milioni, inclusi molti originari dall'Africa Sub-Sahariana. Molti fra i migranti entrati dopo la caduta di Gheddafi sono poi rimasti intrappolati quando il paese è ricaduto nel caos, e hanno preferito tentare di raggiungere l'Europa allo scopo di sfuggire alla crescente violenza.


Per complicare ulteriormente la situazione, la caduta di Gheddafi ha rimosso anche uno dei meccanismi più efficaci per controllare le migrazioni in Europa. A seguito di una serie di accordi migratori e di controllo alle frontiere conclusi (coercitivamente) negli anni tra il 2004 e il 2010, la Libia di fatto funzionava da guardacoste per l'Europa in cambio di consistenti aiuti economici e in natura. Come partner nella gestione dei flussi migratori Gheddafi sarà anche stato avido e poco affidabile, ma chi pensava che la sua rimozione avrebbe risolto tutti i problemi è rimasto deluso. I concorrenti che lo hanno sostituito non solo hanno ripreso esattamente da dove Gheddafi aveva lasciato, nel senso di minacciare di inondare l'Europa di migranti e profughi ogni qualvolta che le loro richieste non venissero assecondate, ma non sono neanche stati in grado di pattugliare efficacemente le coste libiche né di sanzionare in alcun caso i trafficanti.


Come se non bastasse, l'uccisione di Gheddafi ha anche creato le condizioni favorevoli affinché l'Islamic State in Iraq e Siria (ISIS) potesse infiltrarsi in Libia e anche (come sembra) nel business del traffico di migranti. Già prima della più recente impennata nel numero di profughi e migranti verso l'Europa, il traffico di esseri umani dal Medio Oriente e dal Nord Africa verso l'UE avrebbe presumibilmente generato circa 323 milioni di dollari per l'ISIS ed altri gruppi di jihadisti.65 Le prove a riguardo rimangono ovviamente molto frammentarie, ma è stata persino avanzata l'ipotesi che la migrazione attraverso il Mediterraneo si sia rivelata un'opportunità di business talmente preziosa per gruppi come l'ISIS che alcuni dei suoi attacchi siano stati appositamente programmati allo scopo di costringere le popolazioni a scappare, per poi trarre profitto dalla loro fuga.66 Vale inoltre la pena ricordare che nel febbraio 2015 la stessa ISIS in Libia avrebbe minacciato di travolgere l'Europa con 500 000 migranti e rifugiati nel caso fosse stata attaccata militarmente.67 Nel frattempo, questo è esattamente ciò di cui si inizia a parlare (ancora una volta).68

In definitiva, nonostante il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk nel marzo 2016 abbia salutato l'accordo come la ‘fine dell'immigrazione illegale in Europa’, questo potrebbe dopo tutto non essere l'ultimo esercizio in MCP a cui assisteremo in Europa prima della fine definitiva dell'attuale crisi migratoria.69 Di fatto, nel tentativo di salvare Schengen e di eludere un insieme di costi e problemi politici a livello comunitario e nazionale, gli stati membri si sono in realtà resi più vulnerabili a futuri ricatti di matrice migratoria, omettendo al tempo stesso di affrontare sia i problemi strutturali sottostanti, che le cause che scatenano o acuiscono le crisi migratorie. Le sagge osservazioni di Elizabeth Collett risultano oggi profetiche:


‘Le ripercussioni di lungo periodo dell'accordo sono troppo politicamente remote per sembrare reali a dei responsabili politici sotto pressione... L'idea di rimpatri uniti a reinsediamenti su vasta scala è ingannevole e, vista da lontano, perfettamente ingenua. Ma i decisori politici hanno esaminato l'accordo UE-Turchia nella prospettiva dei sei mesi precedenti, esasperati dalle preoccupazioni legate a Schengen, piuttosto che nel quadro più vasto degli ultimi (e dei prossimi) cinque anni. La dinamica sempre più complessa e mutevole dei flussi migratori, otre ai ben documentati limiti della capacità di protezione presente in un'ampia fascia di paesi (non solo Grecia e Turchia) indicano che la prossima crisi dell'Unione Europea non può essere lontana.’70


La scelta di privilegiare esigenze politiche interne di breve periodo piuttosto che quelle internazionali si può rivelare politicamente allettante o anche inevitabile, specialmente in periodi ad alto livello di minaccia e preoccupazione dell'opinione pubblica, come all'indomani di attacchi terroristici come quelli di Parigi e Bruxelles. Ciononostante, assumere un tale comportamento, per quanto possa sembrare apparentemente razionale dal punto di vista individuale, potrà tradursi in esiti politici, economici e sociali sub-ottimali sia all'interno che tra i paesi dell'UE, soprattutto se, e nel momento in cui, altri singoli stati faranno altrettanto. Un meccanismo di sovranità accentrata imporrebbe la condivisione dei costi in tempi avversi oltre ad attribuire equamente i benefici in tempi di abbondanza e, per poter funzionare, richiederebbe l'accordo di tutti i membri a sostenerne questi costi collettivi. Si è precedentemente evidenziato come sia troppo facile rimproverare alla Turchia di aver imposto la conclusioni di quello che è stato definito un ‘patto vergognoso.’71 Ma, come come ricordato precedentemente, tali accordi sono tutt'altro che inconsueti nella prassi internazionale. A dire il vero la Turchia non è stata la sola a cimentarsi in ricatti opportunistici durante l'attuale crisi migratoria europea.72 Né è stata, almeno presumibilmente, l'unico stato ad impegnarsi in operazioni di rifacimento della propria immagine politica, o ad infiltrarsi nelle schermaglie politiche interne allo scopo di istigare le contromisure desiderate.73


Finché il Medio Oriente e il Nord Africa resteranno coinvolti in guerre e conflitti diffusi, si può solo prevedere che l'immigrazione illegale nei mesi e negli anni avvenire possa aumentare—con conseguenti analoghe crisi umanitarie e politiche, inevitabili se le politiche e gli accordi di condivisione degli oneri dell'UE, e soprattutto la mentalità alla base della prassi decisionale UE in senso ampio, non dovessero cambiare. Come evidenziato nelle anticipazioni dei rischi che attendono l'Unione, le risposte singole e collettive alle ondate attuali sono i sintomi di un insieme più ampio di tensioni politiche, normative ed etiche, sia all'interno che tra stati membri. Malgrado la sua storia di violenze e nazionalismi—caratterizzata da da guerre devastanti, epurazioni etniche e genocidi—l'Europa moderna si considera una ‘zona di pace’, baluardo di standard liberali universali, protettore e divulgatore dei diritti umani e custode di un'identità europea inclusiva e cosmopolita. Ma quando ultimamente si è scatenata l'emergenza, i membri dell'UE si sono scagliati l'uno contro l'altro, di volta in volta attaccando l'Unione, gli altri stati membri e, quando non è stato loro impedito di farlo, scantonando spesso con notevole destrezza al loro impegno comune di ottemperare a standard liberali e doveri umanitari.74 Benché torni talora in voga affermare il contrario, il nazionalismo europeo non si è mai del tutto spento. Se è vero che l'attuale crisi migratoria ha gettato ulteriore legna al fuoco, questo era già stato attizzato dalla Crisi del '29, dalla crisi dell'Eurozona, e dalla miriade di altre sollecitazioni al progetto comune europeo. Sia che l'EU ne esca più forte e più unita, ipotesi questa plausibile, sia che continui a trascinarsi come di consueto passando da una crisi all'altra, cosa altrettanto possibile, o sia infine che l'attuale crisi migratoria effettivamente presagisca, come alcuni hanno suggerito, il principio della fine, tutto questo dipende dai leader degli stati membri, e da un'opinione pubblica sempre più eterogenea e restia.



  • *Professore associato alla Tufts University and ricercatrice alla Kennedy School of Government Belfer Center for Science and International Affairs della Harvard University. Harvard University, 79 JFK Street, Cambridge, MA 02138, USA.








  1. 1S. Fratzke, Not adding up: the fading promise of Europes Dublin system, Migration Policy Institute Report (March 2015), available at file:///Users/kgreenhill/Downloads/MPIe-Asylum-DublinReg.pdf.






2Tusk gives the EU two months tosave Schengen”’, EuroNews, 19 gennaio 2016; disponibile su http://www. euronews.com/2016/01/19/tusk-gives-the-eu-two-months-to-save-schengen/.; Schengen to Fail in Months if Migration Crisis not Under Control, says Tusk, DW.com, 19 Jgennaio 2016; disponibile su http://www. dw.com/en/schengen-to-fail-in-months-if-migration-crisis-not-under-control-says-tusk/a-18989697.







  1. 3Per ironia della sorte, proprio la riunificazione della Germania ed il dinamico motore economico tedesco hanno permesso all'UE di diventare la prima potenza economica al mondo e mèta privilegiata dell'immigrazione nei decenni seguenti la riunificazione.








  1. 4David Cameron insists describing migrants as aswarmwasntdehumanising”’, The Telegraph, 15 agosto 2015, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/politics/david-cameron/11804861/David-Cameron-says-describing-migrants-as-a-swarm-wasnt-dehumanising.html.








  1. 5Refugeeslook like an army, says Hungarian PM Viktor Orban, The Guardian, 23 ottobre 2015, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2015/oct/23/refugees-look-like-an-army-says-hungarian-pm-viktor-orban.








  1. 6Right-wing Polish leader Kaczynski says migrants carry diseases to Europe, US News and World Report, 15 ottobre 2015, disponibile su http://www.usnews.com/news/world/articles/2015/10/14/right-wing-polish-leader-migrants-carry-diseases-to-europe.








  1. 7Anti-immigrant Sweden democrats now the biggest party, according to poll, The Telegraph, 20 agosto 2015, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/sweden/11814498/Anti-immigrant-Sweden-Democrats-now-the-biggest-party-according-to-poll.html.








  1. 8Why is the EU struggling with migrants and asylum?, BBC.com, 3 marzo 2016, disponibile su http://www.bbc. com/news/world-europe-24583286; UNHCR, Global trends: forced displacement in 2014, disponibile su www. unhcr.org/2014trends/. Rif. inoltre a UNHCR, UNHCR Warns of Dangerous New Era in Worldwide Displacement as Report Shows Almost 60 million People Forced to Flee Their Homes, 18 giugno 2015, disponibile su www.unhcr.org/55813f0e6.html.






9Riportato in M. Holehouse, Greece faces being sealed off from Europe to stop migrant flow in move that creates cemetery of souls,The Guardian, 25 gennaio 2016, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/ europe/eu/12119799/Greece-threatened-with-expulsion-from-Schengen-free-movement-zone.html







  1. 10Ibid. Nel settembre 2015, la Commissione Europea ha proposto una revisione del trattato di Dublino unitamente ad un sistema di quote, finalizzati ad una più equa distribuzione del carico di rifugiati e richiedenti asilo, trasferendo i nuovi arrivi dagli stati periferici in tutto il territorio comunitario. (Il numero di rifugiati che ciascuno stato membro dovrebbe accogliere dipenderebbe dal PIL, dalle dimensioni demografiche, dal tasso di disoccupazione e dalle richieste di asilo già accolte.) Il piano dovrebbe teoricamente consentire il trasferimento di 120,000 rifugiati nell'arco di due anni. Questi numeri tuttavia costituivano solo una minima parte del numero di rifugiati e richiedenti asilo di cui era previsto l'arrivo soltanto prima della fine del 2016. Per di più, il numero definitivo di persone reinsediate nel 2015 è stato di solo 190, nonostante l'impegno di trasferirne circa 200,000. R. Goldman, No end in sight, New York Times, 3 febbraio 2016, disponibile su http://www.nytimes.com/interactive/ 2016/02/04/world/europe/migrant-crisis-by-the-numbers.html.








  1. 11K. M. Greenhill, Weapons of Mass Migration: Forced Displacement, Coercion and Foreign Policy (Cornell University Press, 2010), in particolare il capitolo 1 e l'appendice; e K. M. Greenhill, When virtues become vices: the Achilles heel of migration social policy, in G. P. Freeman, and N. Mirilovic (ed.) Handbook on Migration and Social Policy (Edward Elgar, 2016), 199221.








  1. 12Ibid.








  1. 13Greenhill, Weapons, sopra, n. 12, at 1213.








  1. 14N. Squires and D. McElroy, Libya to unleash wave of migrants on Europe, The Telegraph, 7 aprile 2011.








  1. 15A. Little, citato nel documentario della British Broadcasting Company (BBC2), Moral Combat: NATO at War, trasmesso il 12 marzo 2000. Cf. anche Greenhill, Weapons, sopra, n. 10, capitolo 3.








  1. 16R. Gladstone e D. Cave, Torrent of Syrian refugees strains aid effort and region, New York Times, 24 agosto 2012; D. D. Kirkpatrick, Syrian army attacks village near Jordanian border, New York Times, 6 settembre 2012.








  1. 17The hope is that the government will concede or the population will revolt. R. Pape, Bombing to Win: Air Power and Coercion in War (Cornell University Press, 1996), at 21.








  1. 18R. Putnam, Diplomacy and domestic politics: the logic of two-level games, (1988) 42 International Organization 42760.








  1. 19K. Jacobsen, Factors influencing the policy responses of host governments to mass refugee influxes, (1996) 30.








  1. 20L. Charbonneau, Russia Threatens Countries Ahead of UN Vote on UkraineEnvoys, Reuters.com, 28 March 2014, disponibile su http://www.reuters.com/article/us-ukraine-crisis-un-idUSBREA2R20O20140328.








  1. 21Putnam, sopra, n. 19.








  1. 22M. R. Rosenblum, Immigration and U.S. national interests, in T. E. Givens, G. P. Freeman, and D. L. Leal (eds.), Immigration Policy and Security: U.S., European and Commonwealth Perspectives (Routledge, 2008), 1338, a pag. 15.








  1. 23J. Poushter, Refugees stream into Europe, where they are not welcomed with open arms, FactTank: News in the Numbers, 24 aprile 2015; disponibile su http://www.pewresearch.org/fact-tank/2015/04/24/refugees-stream-into-europe-where-they-are-not-welcomed-with-open-arms/.








  1. 24Come nota Gearty, ciò che rende speciale la presente situazione [per quanto riguarda il processo decisionale] è che in Europa la sovranità è adesso centralizzata. Non più una collezione eterogenea di istituzioni, [ma piuttosto] uno stato, e la sovranità statale comporta nuovi tipi di responsabilità. C. Gearty, The state of freedom in Europe, (2015) 21 European Law Journal, 706721, a pag 708.








  1. 25M. Scalvini, Humanitarian wars and rejected refugees, OpenDemocracy.Net, 17 April 2011; disponibile su http://www.opendemocracy.net/marco-scalvini/humanitarian-wars-and-rejected-refugees.








  1. 26M. Mazower, The Dark Continent: Europes Twentieth Century (Knopf, 1998), pag. 346. Si veda anche R. Mandel, Perceived security threat and the global refugee crisis, (1997) 24 Armed Forces and Society, 77-103; eHuman Rights Watch, Stemming the flow: abuses against migrants, asylum seekers and refugees, (2006), disponibile su https://www.hrw.org/reports/2006/libya0906/.








  1. 27K. Grayson and D. Dewitt, Global demography and foreign policy: a literature brief and call for research, (2003) York Centre for International and Security Studies Working Paper Series, n. 24, a pag. 9.








  1. 28Cologne attacks: New Years Eve crime cases top 500, BBC.com, 11 gennaio 2016, disponibile su http://www. bbc.com/news/world-europe-35277249.








  1. 29Sebbene la natura e la portata degli obblighi legali e normativi legate alla migrazione variano da uno Stato all'altro., in linea di massima la disciplina dei diritti umani ha posto due limiti alla discrezione degli stati per quanto riguarda la legittimità delle politiche, in particolare il diritto di asilo ed il principio di non-discriminazione razziale, entrambi maturati in diritto internazionale consuetudinario vincolante per gli stati. Le espressioni più conosciute di tali norme si trovano nella Dichiarazione dei diritti umani del 1948, la Convenzione ONU sui profughi del 1951 ed il Protocollo del 1967 relativo allo status dei rifugiati.








  1. 30O. Cromwell, Cox, Caste, Class, and Race: A Study in Social Dynamics (Doubleday, 1948), citato in A. Bell-Fialkoff, Ethnic Cleansing (St. Martins Griffin Press, 1999), a pag. 48








  1. 31Tuttavia, come è spesso il caso nei fallimenti relativi ad azioni collettive, le politiche tendenti a rimediare ai problemi di uno stato con mezzi che tendono a peggiorare i problemi di altri stati possono a loro volta esacerbare i problemi dei primo, col risultato di accrescere la vulnerabilità di tutti.








  1. 32L. Freedman, Strategic coercion, in idem (ed.), Strategic Coercion:n Concepts and Cases (Oxford University Press, 1998), 1536, a pag. 29.








  1. 33E. Collett, The paradox of the EUTurkey deal, Migration Policy Institute.org (March 2016), disponibile su http://www.migrationpolicy.org/news/paradox-eu-turkey-refugee-deal.








  1. 34Turkish president threatens to send millions of Syrian refugees to EU, The Guardian, 11 febbraio 2016, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2016/feb/12/turkish-president-threatens-to-send-millions-of-syrian-refugees-to-eu.








  1. 35Citaz. da Agence France-Presse, Turkey threatens to back out of EU migrant deal over visas, France24.com, 19 aprile 2016, disponibile su http://www.france24.com/en/20160419-turkey-migrant-deal-eu-visa-free-travel.








  1. 36N. Lalwani e S. Winter-Lev, Europes asylum system serves neither the refugees nor the countries. Heres a new way of thinking about it, Washington Post (Monkey Cage), 4 aprile 2016, disponibile su https://www. washingtonpost.com/news/monkey-cage/wp/2016/04/04/europes-asylum-system-serves-neither-the-refu-gees-nor-the-countries-heres-a-new-way-of-thinking-about-it/.








  1. 37In un sondaggio di 1203 persone condotto tra il 1214 gennaio 2016, risultava che la maggioranza (56%) si dichiarava insoddisfatta della politica sui rifugiati della Merkel, in contrasto con il 49% a dicembre. Un altro sondaggio condotto da Deutschland Trend per la televisione tedesca rilevava che il 51% degli adulti tedeschi non credeva alla reiterata affermazione della Merkel —‘ce la possiamo fare’—che la Germania fosse in grado di assorbire l'ondata, rispetto al 48% degli intervistati di questo avviso del precedente ottobre. I sondaggi mostrano il timore dei tedeschi che il carico dei rifugiati sa troppo pesante. The Local de, 15 gennaio 2016, disponibile su http://www.thelocal.de/20160115/poll-shows-most-germans-fear-refugee-burden-too-great.








  1. 38M. Chambers e T. Bellon, German voters batter Merkel over migrant policy, Reuters.com, 13 marzo 2016, disponibile su http://www.reuters.com/article/us-germany-election-idUSKCN0WE0ZQ.








  1. 39Oltre al popolarissimo partito Fidesz di Orban in Ungheria, in Polonia nell'ottobre 2015 è stato eletto uno dei parlamenti più orientati a destra d'Europa, mentre il Partito Popolare Danese ha guadagnato la seconda percentuale più alta del voto danese nel giugno 2015 giocando sul sentimento nazionalistico e sulla promessa di preservare i vantaggi dei cittadini danesi. Allo stesso modo, il partito di estrema destra Democratici Svedesifondato negli anni '80 come gruppo neonazistaè adesso uno dei partiti più popolari in Svezia. L'estrema destra austriaca del Partito della Libertà è arrivata seconda alle elezioni regionali del settembre 2015, ed il candidato dell'FPÖ alle presidenziali del 2016 è arrivato secondo con uno scarto minimo. Nel frattempo in Grecia i neo-fascisti di Alba Dorata hanno raccolto la terza quota maggiore dei voti in entrambe le elezioni politiche del paese nel 2015.








  1. 40M. Schain, citato in N. Robins-Early, How the refugee crisis is fueling the rise of Europes right, The World Post, 28 October 2015, disponibile su http://www.huffingtonpost.com/entry/europe-right-wing-refugees_us_562e9e64e4b06317990f1922.








  1. 41M. Holehouse, EU chief: migrant influx is campaign of hybrid warfare by neighbors to force concessions, The Telegraph, 6 ottobre 2015, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/eu/ 11915798/EU-chief-Migrant-influx-is-campaign-of-hybrid-warfare-by-neighbours-to-force-concessions.html.








  1. 42M. Wilczek, When the EU is no longer able to bribe Turkey, the blackmail will begin, The Spectator (marzo 2016), disponibile su http://blogs.spectator.co.uk/2016/03/when-the-eu-is-no-longer-able-to-bribe-turkey-the-blackmail-will-begin/.








  1. 43Turkeys Erdogan threatened to flood Europe with migrants: Greek website, Reuters.com, 8 febbraio 2016, disponibile su http://www.reuters.com/article/us-europe-migrants-eu-turkey-idUSKCN0VH1R0. Il leader turco ha poi confermato di aver reso tali dichiarazioni; Tusk dal Consiglio Europeo e Juncker dalla Commissione Europea hanno invece declinato di confermare o negare l'autenticità del documento.








  1. 44M. Holehouse, Migrant influx is campaign of hybrid warfare”’, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/ news/worldnews/europe/eu/11915798/EU-chief-Migrant-influx-is-campaign-of-hybrid-warfare-by-neigh-bours-to-force-concessions.html; V. Pop, EU seeks Turkish presidents help to stop refugee flow, Wall Street Journal, 8 ottobre 2015, disponibile su http://www.wsj.com/articles/eu-seeks-turkish-presidents-help-to-stop-refugee-flow-1444068094; EU, Turkey seek better relations at emergency refugee summit, AP, 29 novembre 2015, disponibile su https://www.yahoo.com/news/eu-turkey-seek-better-relations-emergency-refugee-summit-164242787.html?ref=gs.








  1. 45T. Arango e C. Yeginsu, Turkey seeks buffer zone on the border with Syria, New York Times, 10 ottobre 2014, disponibile su http://www.nytimes.com/2014/10/10/world/middleeast/turkish-support-of-coalition-fighting-isis-centers-on-border-buffer-zone-.html?_r=0.








  1. 46Una somma apparente ritenuta dai rappresentanti turchi troppo modesta.








  1. 47The European Council, EUTurkey statement, 18 March 2016, disponibile su http://www.consilium.europa. eu/en/press/press-releases/2016/03/18-eu-turkey-statement/.








  1. 48D. Robinson e A. Barker, EU and Turkey agree deal to return migrants, FinancialTimes.com, 18 marzo 2016, online su http://www.ft.com/cms/s/0/94314ec0-eca7-11e5-9fca-fb0f946fd1f0.html#ixzz46JWEZ52x.








  1. 49Q&A: Turkeys EU entry talks, BBC.com, 11 dicembre 2006, disponibile su http://news.bbc.co.uk/2/hi/eu-rope/4107919.stm.








  1. 50European Council, sopra, n. 48; Inoltre, B. Frelick, Is Turkey safe for refugees?, Human Rights Watch.org, 22 marzo 2016, disponibile su https://www.hrw.org/news/2016/03/22/turkey-safe-refugees.








  1. 51Turkeyillegally returning Syrian refugees”’, BBC.com, 1 aprile 2016, disponibile su http://www.bbc.com/ news/world-europe-35941947.








  1. 52The EUs deal with Turkey exposes the moral vacuum at its heart, The Spectator (marzo 2016), disponibile su http://www.spectator.co.uk/2016/03/turkey-is-blackmailing-the-eu/.








  1. 53K. M. Greenhill, Demographic bombing: people as weapons in Syria and beyond, Foreign Affairs.com (dicembre 2015), disponibile su https://www.foreignaffairs.com/articles/2015-12-17/demographic-bombing.








  1. 54Relazione dell'UNHCR, 26 agosto 2015.








  1. 55H. Grant, UN agencies broke and failing in face of ever-growing refugee crisis, The Guardian, 6 settembre 2015, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2015/sep/06/refugee-crisis-un-agencies-broke-failing.








  1. 56Idem.








  1. 57Time to go, The Economist, 26 settembre 2015. Questa valutazione è stata ribadita da M. Kjaerum, Direttore del Raoul Wallenberg Institute of Human Rights and Humanitarian Law ed ex-direttore dell'agenzia danese per i rifugiati. Conversazione con l'autrice, aprile 14, 2016.








  1. 58S. Erlanger e K. De Freytas-Tamura, U.N. funding shortfalls and cuts in refugee aid fuel exodus to Eu-rope, New York Times, 19 settembre 2015.








  1. 59C. Johnston et al., EU urges Turkey to open its borders to Syrians fleeing war-torn Aleppo, The Guardian, 6 febbraio 2016, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2016/feb/06/eu-urges-turkey-to-open-its-borders-to-syrians-fleeing-war-torn-aleppo.








  1. 60Discorso di apertura alla Suffolk Law School, 14 aprile 2016; l'autrice era parte del panel come relatrice.








  1. 61Si veda, ad es., Italy reports upsurge in migrants crossing from Libya, EUObserver.com, 24 aprile 2016, disponibile su https://euobserver.com/migration/132815.








  1. 62C. Stephen, Libya faces new influx of migrants seeking new routes to Europe, The Guardian, 9 aprile 2016, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2016/apr/09/libya-influx-migrants-europe. Attualmente sarebbero almeno 100 000 i migranti già stipati nelle città della costa occidentale libica, in attesa della fine dei temporali invernali e l'inizio della stagione degli sbarchi. Si veda anche J. Yardley, After Europe and Turkey strike a deal, fears grow that migrants will turn to Italy, New York Times, 16 aprile 2016, disponibile su http://www.nytimes.com/2016/04/15/world/europe/after-europe-and-turkey-strike-a-deal-fears-grow-that-migrants-will-turn-to-italy.html








  1. 63K. M. Greenhill, Coercive engineered migration: new evidence from the Middle East, di prossima pubblicazione, manoscritto nel database dell'autrice.








  1. 64C. Freeman, Libya warns it could flood Europe with migrants if EU does not recognise new self-declared government, The Telegraph, 2 novembre 2015, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/ africaandindianocean/libya/11970313/Libya-warns-it-could-flood-Europe-with-migrants-if-EU-does-not-recognise-new-Islamist-government.html; B. Garaboli, Libya threatens to open migrant floodgates into Eu-rope, The Times (London), 29 marzo 2016, disponibile su http://www.thetimes.co.uk/tto/news/world/ middleeast/article4723282.ece.








  1. 65V. Walt, ISIS makes a fortune from smuggling migrants says report, Time, maggio 13, 2015, disponibile su http:// time.com/3857121/isis-smuggling/.








  1. 66Cit. in ibid.








  1. 67Le fonti sono discutibili e quindi da prendere con cautela, tuttavia si veda, ad es., Hannah Roberts, ISIS threatens to send 500,000 migrants to Europe as a psychological weapon, The Daily Mail, 18 febbraio 2015, disponibile su http://www.dailymail.co.uk/news/article-2958517/The-Mediterranean-sea-chaos-Gaddafi-s-chill-ing-prophecy-interview-ISIS-threatens-send-500-000-migrants-Europe-psychological-weapon-bombed.html.








  1. 68C. Stephens, David Cameron under pressure to come clean over plans to send British troops to Libya, The Guardian, 16 aprile 2016, disponibile su http://www.theguardian.com/world/2016/apr/16/libya-cameron-gov-ernment-uk-troops-deployment-questions; E. Schmidt, Pentagon has plan to cripple ISIS in Libya with air barrage, The New York Times, 9 marzo 2016, disponibile su http://www.nytimes.com/2016/03/09/world/ middleeast/pentagon-considers-military-options-against-isis-in-libya.html?_r=0.








  1. 69Days of irregular migration to EU are over, says Tusk, citaz. da SkyNews.com, 8 marzo 2016, disponibile su http://news.sky.com/story/1655412/days-of-illegal-migration-to-eu-over-says-tusk.








  1. 70Collett, sopra, n. 32.







  1. 71I. Oliveira, Sanchez Wants EU-Turkey Pact of Shame Altered, Politico.com, 11 marzo 2016, disponibile su http://www.politico.eu/article/sanchez-rajoy-turkey-eu-deal-refugees-migration-crisis-illegal-pact-of-shame/.






  1. 72Si veda ad es., Six Ways the EU as Tried and Failed to Solve the Migrant Crisis, The Telegraph, 27 gennaio 2016, disponibile su http://www.telegraph.co.uk/news/worldnews/europe/eu/12124225/Six-ways-the-EU-has-tried-and-failed-to-solve-the-migrant-crisis.html; I. Traynor, Italy Threatens to Give Schengen Visas to Mi-grants as EU Ministers Meet, The Guardian, 16 giugno 2015, disponibile su http://www.theguardian.com/ world/2015/jun/15/italy-threatens-to-give-schengen-visas-to-migrants-as-eu-dispute-deepens.








  1. 73Si veda ad es., C. Schnee, Why the Refugee Crisis May Sweep Angela Merkel to a 4th Election Victory, The European, 11 febbraio 2016, disponibile su http://www.theeuropean-magazine.com/christian-schnee/10721-german-politics-in-the-refugee-crisis.






  2. 74Si veda, ad es., una discussione dei significativi costi di questa ipocrisia in, Weapons, sopra, n. 10, capitolo 1.