30/10/18

Le Figaro - Bocciatura del bilancio italiano: "La Commissione gioca a un gioco pericoloso"

Un altro intervento del professor Steve Ohana su Le Figaro (dopo quello già qui pubblicato) commenta il rifiuto del disegno di bilancio italiano da parte della Commissione. A differenza di quanto accaduto in Grecia, in questa occasione la "fronda populista"  dei paesi periferici - intrappolati tra le politiche deflazionistiche imposte dalle regole europee e la minaccia di un taglio della liquidità da parte della BCE - è guidata da un paese come l'Italia, dice Ohana, che da un lato rappresenta il più importante mercato obbligazionario europeo e dall'altro appare attrezzata  a sostenere la sfida e a reagire, avendo alle spalle una annosa e approfondita riflessione sulle problematiche dell'eurozona. La Commissione si trova a dover contrastare frontalmente questa consapevole e aperta minaccia alle politiche liberiste che ne costituiscono la stessa ragion d'essere, ma così facendo il gioco si fa duro e la posta in gioco è la sopravvivenza stessa dell'eurozona. 

 

 

 

FIGAROVOX / TRIBUNE, 26 ottobre 2018 - Per Steve Ohana, vi è un alto rischio che il rifiuto del bilancio italiano da parte della Commissione spinga il governo italiano a misure sempre più ostili a Bruxelles.

 

Steve Ohana è professore di finanza presso l'ESCP Europe, storica e prestigiosa business school di Parigi.

 

Lo scorso martedì la Commissione europea ha respinto ufficialmente il progetto di bilancio presentato dal governo italiano per il 2019.

 

Primo rifiuto di bilancio nella storia dell'Unione europea, esso riflette il dilemma irrisolvibile di molti paesi dell'UE, in particolare quelli dell'Europa meridionale. Da un lato, l'applicazione coscienziosa dei trattati europei li blocca nella trappola deflazionistica della crescita debole e del sovraindebitamento. D'altra parte, nemmeno uno scontro troppo frontale sulle regole europee offre la possibilità di un esito favorevole a uno Stato che non emette il debito nella propria valuta, perché, in quel caso, le autorità europee sono in grado di farlo capitolare consegnando le sue banche e il suo governo alla vendetta dei mercati.

 

Alcuni governi hanno tentato una strada intermedia negoziando con la Commissione per ottenere una certa flessibilità nell'applicazione delle norme comunitarie (senza peraltro poter tornare alla piena occupazione e alla solvibilità). Se negli ultimi anni la Commissione si è dimostrata flessibile nell'applicazione del patto di stabilità con i governi di paesi come Francia, Italia, Portogallo o Spagna, è probabilmente perché i governi in questione hanno mostrato di avere le carte in regola su ciò che non era iscritto in bilancio (in particolare le cosiddette "riforme strutturali" riguardanti il ​​mercato del lavoro, il sistema pensionistico, ecc.). Ma è anche perché hanno saputo essere discreti e mantenere un profilo basso nei loro negoziati con la Commissione. In breve, la maggior parte dei leader politici europei, più o meno apertamente, condivideva l'idea che le regole fossero illegittime sul piano democratico ed economicamente inefficienti.

 

Ad esempio, l'attuale commissario europeo per gli affari economici e finanziari, Pierre Moscovici, già ministro delle finanze di François Hollande, in un'intervista concessa al New York Times nel 2013 ammise che i governi "democraticamente eletti" dovevano "difendere la propria visione" di fronte alla "ortodossia neoliberale" della Commissione ... Tuttavia, i leader europei ritenevano allo stesso tempo che fosse comunque necessario mantenere l'apparenza del rispetto delle regole, al fine di non svelare apertamente l'inettitudine dell'ordine tecnico-giuridico europeo, una rivelazione che avrebbe potuto giovare al "populismo" e ai "nazionalismi" e suonare la campana a morto del "progetto europeo". Forse questa commedia veniva recitata nella speranza che un giorno i governi dei diversi paesi europei avrebbero finito per accettare di modificare queste regole in una direzione più sostenibile o di completare l'unione monetaria attraverso un'unione bancaria e fiscale reale ... Un sogno di un "salto federale dell'UE" ripetutamente portato avanti dai leader centristi europei (da François Hollande a Emmanuel Macron, passando per Matteo Renzi), e che non si è mai realizzato ...

 

L'episodio della Grecia dell'estate 2015 è stato il primo tentativo, consapevolmente rivendicato, di far esplodere le austere catene legali dell'Unione Europea. Conosciamo il risultato: il primo ministro greco Alexis Tsipras ha optato per la capitolazione alle richieste della troika e la principale figura che contestava le regole, il ministro delle finanze greco Yannis Varoufakis, è stato costretto a farsi da parte in favore di posizioni più concilianti.

 

L'avvento al potere della coalizione italiana M5S / Lega nel maggio 2018 ha segnato una nuova svolta in questa fronda dei popoli europei contro l'edificio tecnico-giuridico europeo. La terza più grande economia della zona euro, che rappresenta il più grande mercato obbligazionario europeo, si è messa alla guida della rivolta contro le regole di governance europee. Come ha implicitamente ammesso Pierre Moscovici martedì scorso, l'aspetto più inquietante dell'atteggiamento italiano non è la trasgressione in sé (che non è così "eccezionale", come dichiarato dalla Commissione rispetto ad altri paesi), ma il il modo in cui i leader politici italiani, e in particolare il leader della lega Matteo Salvini, "sostengono" e "rivendicano" questa trasgressione invece di provarne imbarazzo. È anche il fatto che la trasgressione non riguarda semplicemente il bilancio, ma praticamente mette in discussione tutta l'ortodossia economica promossa dalle istituzioni europee per trent'anni (mercato del lavoro flessibile, riforma delle pensioni, privatizzazione delle infrastrutture, ecc.) oltre alle norme europee sull'accoglienza dei migranti. Quindi in questa fronda si annida una minaccia esistenziale per l'UE, tanto più che Salvini ora manifesta l'ambizione di mettersi a capo della nuova Commissione europea dopo le elezioni europee di maggio 2019, con l'obiettivo di rifondare le regole UE e restituire gran parte della sovranità agli Stati

 

È quindi in corso una vera e propria guerra tra l'UE e la nuova coalizione italiana. Potrà anche esserci qualche tregua, ma non potrà esserci che un solo vincitore.

 

Il rifiuto del disegno di bilancio italiano da parte della Commissione è un passo cruciale in questo scontro perché, per la prima volta, è in gioco la stabilità finanziaria mondiale. Molti elementi importanti distinguono questa crisi da quella tra la Grecia e i suoi creditori nel 2015.

 

Da un lato, il debito pubblico italiano, che ammonta a poco meno di 2500 miliardi di euro, è quasi otto volte più grande del debito greco. Inoltre, è ampiamente presente nelle attività di banche, assicuratori e fondi di investimento (mentre quando è scoppiata la crisi greca nel 2015 il debito greco era detenuto principalmente da istituzioni pubbliche). Ricordiamo a titolo di confronto che il debito di Lehman Brothers al momento del suo fallimento ammontava "soltanto" a 600 miliardi di dollari ... Un default dell'Italia sul proprio debito (tramite, ad esempio, la sua ridenominazione in lire) metterebbe in ginocchio il sistema bancario europeo, già molto debole e interconnesso. I margini di manovra degli attori pubblici saranno più ristretti rispetto alla crisi dei mutui subprime e dei debiti dei paesi periferici, in un contesto di cooperazione debole - o persino di sfiducia - sulla scena internazionale, di indebitamento pubblico già elevato e di stanchezza rispetto all'attivismo delle banche centrali.

 

D'altra parte, mentre il governo Tsipras era composto da leader fondamentalmente "pro-europei" e animati dal desiderio di "riformare l'euro" (e quindi privi di un "Piano B" di uscita dalla zona euro in caso il fallimento del loro "Piano A"), la coalizione italiana è composta da leader che sono allo stesso tempo molto più "euroscettici" e probabilmente molto meglio attrezzati intellettualmente rispetto al governo Tsipras su un eventuale "Piano B". Gli economisti Paolo Savona, Claudio Borghi e Alberto Bagnai, che ricoprono posizioni chiave nel governo e nel Parlamento italiano, hanno già fatto una riflessione approfondita sul tema dell'euro, evocando già da molti anni la necessità per l'Italia di prepararsi a un'uscita. Salvini non nascondeva il suo desiderio di uscire dall'euro prima di assumere responsabilità di governo. La critica dell'euro fa anche parte del DNA del Movimento Cinque Stelle, attraverso le posizioni del suo fondatore, Beppe Grillo, fortemente euroscettico. Il primo progetto di coalizione redatto da Salvini e Di Maio, che era trapelato sulla stampa, faceva esplicita menzione di un "meccanismo di uscita dall'euro" nel caso si manifestasse una "chiara volontà popolare" in questo senso. Ricordiamo anche il riferimento ai "mini-bot", una "moneta fiscale" parallela all'euro che se necessario potrebbe essere emessa dal governo.

 

Le dichiarazioni rassicuranti del governo italiano che affermano "l'assenza di un piano B" e la "volontà di restare nell'euro" non dovrebbero essere prese alla lettera, ma piuttosto come un'arma tattica usata da questo governo a servizio di una strategia a lungo termine che non è stata ancora rivelata. La coalizione attualmente non dispone di una maggioranza favorevole ad un'uscita "secca" dall'euro, ma si sforza, a volte in modo contraddittorio, di mettere il più possibile in discussione le norme europee (basandosi sul mandato democratico conferitogli dal popolo italiano), cercando di attribuire alle autorità europee le responsabilità per la crescita dello spread.

 

Giovanni Tria, il ministro italiano dell'economia, ha dichiarato che se lo spread Italia-Germania arrivasse al 4% (oggi è circa al 3,2%), allora il bilancio dovrebbe essere rivisto in linea con le richieste della Commissione (dichiarazioni riportate dalla stampa, ma che in realtà non risultano confermate da nessuna fonte ufficiale, ndt). Da parte sua, Giancarlo Giorgetti, vicino a Salvini, ha appena dichiarato che il superamento della soglia del 4% innescherebbe automaticamente una ricapitalizzazione delle banche italiane (a causa della loro elevata esposizione al debito sovrano nazionale, che deve essere registrato nel loro bilancio al valore di mercato). La prima dichiarazione invita la Commissione europea ad esercitare la massima pressione sull'Italia al fine di far aumentare lo spread fino al 4% e far così capitolare la coalizione italiana. Questa è precisamente la strategia in fase di attuazione da parte della Commissione. D'altro canto, la dichiarazione di Giorgetti è molto più difficile da interpretare. Se la ricapitalizzazione venisse fatta nel quadro della zona euro, rischierebbe di innescare una corsa agli sportelli ("bank run") da parte dei creditori e depositanti delle banche nel momento in cui la soglia del 4% venisse superata. In effetti, secondo le regole dell '"Unione bancaria europea", la ricapitalizzazione di una banca in difficoltà da parte del "Meccanismo di risoluzione unico" richiede di imputare le perdite ai depositanti e ai creditori della banca in questione. Questo evento di "forza maggiore" potrebbe quindi indurre il governo italiano a tirar fuori l'ipotetico "Piano B", volto a ricapitalizzare il proprio sistema bancario emettendo una propria valuta.

 

A quanto è possibile capire, le intenzioni del governo italiano sono molto difficili da interpretare e non è escluso che il fine ultimo della manovra sia quello di mettere la Commissione in trappola, consentendole di provocare una situazione di crisi e quindi innescando la messa in atto di un piano di uscita del quale la Commissione porterebbe la piena responsabilità.

 

In questo contesto, il gioco della Commissione appare estremamente avventuroso. Il "successo" della troika di fronte alla fronda greca dell'estate 2015 la sta forse inducendo a commettere un grave errore di valutazione sulle intenzioni italiane. Questa scommessa potrebbe avere conseguenze incalcolabili per i popoli che si trovano ostaggio di questo scontro.

 

29/10/18

Prescrire - Obbligati? Sull'imposizione dei vaccini

Sulla delicata e seria questione dell'obbligo vaccinale (qui una lettura consigliabile per approfondire l'argomento), il "frame" costruito dai media mette in scena due schieramenti contrapposti: quello dei fedeli alla scienza, propugnatori sia dell'utilità dei vaccini sia dell'obbligo di legge come misura necessaria per sostenerne la diffusione; e quello della irrazionalità e dell'ignoranza, che disconosce i vantaggi delle vaccinazioni e si oppone per questo non solo al loro obbligo ma anche alla loro  pratica. In soldoni: chi non è d'accordo sull'obbligo è un "novax". Non è così. Al contrario, nel mondo scientifico il ricorso all'obbligo di vaccinazione non ha mai goduto di particolare sostegno. Per contribuire a un quadro più corretto, proponiamo l'editoriale uscito all'inizio di quest'anno sulla autorevolissima rivista medica  francese La revue Prescrire, considerata a livello internazionale un autentico caposaldo della letteratura medica fondata sulle prove ed indipendente dagli interessi delle case farmaceutiche. L'obbligo di vaccinazione, secondo Prescrire, è il triste segno dell'incapacità di rispondere alle contestazioni, ma anche alla richiesta di maggiori conoscenze, con dati solidi e scelte trasparenti.

 

 

 

Di Prescrire, febbraio 2018

 

In Francia oggi la consuetudine prevede di praticare ai neonati 11 vaccinazioni. Una scelta giustificata da motivazioni solide. Tre erano già obbligatorie, mentre le altre otto erano raccomandate. Nel 2018 sono state rese tutte obbligatorie. Avrebbero anche potuto diventare tutte "raccomandate".

 

Le autorità sanitarie francese, con la ratifica del Parlamento, hanno scelto la strada dell'obbligo per accrescere o mantenere la copertura vaccinale, di fronte alle forti resistenze espresse nei confronti di alcune vaccinazioni (leggi alle pagine 103-104).

 

Ai timori sugli effetti indesiderati di alcune vaccinazioni e alle richieste di ricerche più attive sulle loro conseguenze a lungo termine, le autorità sanitarie francesi hanno scelto di rispondere con l'autoritarismo, giudicando i genitori che si oppongono alle vaccinazioni come degli "irresponsabili": espongono i loro bambini al rischio di tetano, la collettività al rischio di morbillo, le donne incinte al rischio di rosolia. Per questi genitori, sono le autorità sanitarie che sono "irresponsabili": si rifiutano di prendere in considerazione avvertimenti che emergono dalla farmacovigilanza, esponendo i bambini a gravi effetti indesiderati, in particolare neurologici.

 

La autorità sanitarie francesi nel 2017 hanno deciso di forzare la mano, assumendo un atteggiamento paternalistico, anche nei confronti di chi domanda maggiori conoscenze, in particolare sugli adiuvanti. Questa risposta deresponsabilizza i genitori e gli operatori sanitari, e alimenta la diffidenza. Rischia di portare a uno scontro con genitori convinti di difendere i bambini. Certezza contro certezza, senza alcun progresso sulla strada della valutazione.

 

Questa risposta è un triste segno di incapacità. Incapacità di affrontare una contestazione, quale che ne sia la parte di irrazionalità e di scientificità. Incapacità di costruire una risposta adeguata, in una società in cui il sapere è condiviso e multiplo. Incapacità di sostenere gli operatori sanitari nel loro ruolo di mediatori, fornendo dati non influenzati dalle opinioni per quantificare i rischi e i benefici.

 

La nostra società non deve essere obbligata a scattare sull'attenti. Raccomandare le vaccinazioni che hanno un rapporto tra benefici e rischi favorevole offre il vantaggio di imporre alle autorità sanitarie alcuni obblighi: l'obbligo di fornire argomenti di sostegno chiari, senza negare i dubbi, l'obbligo di modificare le raccomandazioni a seconda dell'evolversi delle conoscenze, l'obbligo di mantenere comportamenti  esemplari nei rapporti con le case farmaceutiche che producono i vaccini e nelle scelte di sanità pubblica.

28/10/18

Bloomberg - Ashoka Mody: il bilancio italiano non è folle come sembra

Su Bloomberg, è il turno del noto economista Ashoka Mody di promuovere la manovra presentata dal governo italiano e rigettata dalla Commissione Europea. L'Italia, secondo Mody, autore del recente "Euro-tragedia: il dramma dell'euro in nove atti" (di cui abbiamo parlato qui, qui e qui), ha bisogno di uno stimolo fiscale, anche perché l'economia mondiale sta peggiorando più velocemente di quanto credano gli analisti. La rigidità della Commissione Europea rischia di portarla in un vicolo cieco politico - perché le sanzioni che minaccia all'Italia non troveranno mai il placet del Consiglio Europeo - e allo stesso tempo di scatenare una nuova crisi economica e politica europea, poiché con le sue dichiarazioni sta mettendo sotto pressione il già fragile sistema bancario italiano. Bene farebbero i commissari europei a rivedere velocemente le loro posizioni, chiude Mody.

 

 

 

di Ashoka Mody, 26 ottobre 2018

 

I leader europei sono intervenuti duramente contro l'Italia a causa del programma italiano per aumentare la spesa, al fine di stimolare la crescita ed aiutare i poveri. Quello che non riescono a riconoscere è che un piccolo stimolo potrebbe essere proprio quello di cui l'economia italiana ha bisogno.

 

La previsione è che l'economia globale stia peggiorando più velocemente di quanto gli analisti pensino. Un rallentamento in Cina ha colpito il commercio globale, le esportazioni europee stanno rallentando, e il sentiment delle imprese dell'eurozona è in forte calo. Tutto questo non può che avere conseguenze sull'Italia, dove la produzione industriale sta a malapena crescendo e una recessione potrebbe essere imminente.

 

Questo è il contesto nel quale si dovrebbe valutare il dibattito sempre più stridente tra Roma e Bruxelles. Il nuovo governo italiano, guidato dal partito di destra della Lega e dal movimento anti-establishment Cinque Stelle, ha proposto uno stimolo fiscale che l'anno prossimo causerà un aumento del deficit di bilancio al 2,4% del PIL. La Commissione Europea ha respinto il piano come irresponsabile, scatenando un confronto che ha incluso un episodio in cui un eurodeputato italiano ha sbattuto una scarpa sul tavolo all'Europarlamento e un crudo scambio di parole su Twitter. In mezzo alla discordia, i rendimenti sui titoli di stato italiani a 10 anni hanno continuato a salire.

 

Tuttavia se l'economia italiana è in stallo, lo stimolo fiscale può essere l'unico mezzo per evitare una pericolosa recessione, che potrebbe gettare l'Italia in una crisi ingestibile. Quello che è sicuro è che l'insistenza della Commissione Europea a che l'attuale governo italiano onori l'impegno del suo predecessore a ridurre il deficit di bilancio è del tutto irragionevole. L'austerità peggiorerà la congiuntura negativa e quindi aumenterà l'onere del debito pubblico (espresso in percentuale sul PIL). Questo, a sua volta, aggraverà piuttosto che attenuare le tensioni sui mercati.

 

Entrambe le parti dovrebbero concentrarsi invece sulla dimensione dello stimolo, perché possa essere gestibile, e sul modo migliore di spendere i soldi. L'Italia si trova di fronte a dei vincoli stringenti: il rapporto debito-PIL del paese, circa al 132%, è già estremamente alto. È quindi cruciale che la spesa aggiuntiva non spinga il deficit di bilancio oltre l'obiettivo governativo del 2,4%. A questo fine, il governo deve mitigare le sue proiezioni di crescita eccessivamente ottimistiche e, allo stesso modo, ridurre alcune delle sue spese, per evitare che il disavanzo finisca con l'essere più grande di quanto pianificato in termini di PIL.

 

Relativamente a come spendere il denaro, la raccomandazione classica - ovvero che il denaro dovrebbe essere investito in infrastrutture o in altri investimenti a lungo termine - potrebbe non essere una priorità immediata. Il governo italiano ha fatto per lungo tempo avanzi di bilancio (escludendo gli interessi sul debito), in periodi nei quali la crescita è stata lenta e la crisi finanziaria ha rovinato segmenti considerevoli della popolazione. Come hanno notato economisti del Fondo Monetario Internazionale, questo costante "stringere la cinghia" crea una domanda repressa di tagli alle tasse o di spesa pubblica per alleviare il malcontento sociale. Il sostegno finanziario alle famiglie a basso reddito, per esempio, potrebbe essere particolarmente efficace, perché il denaro andrebbe a persone che è più probabile che lo spendano.

 

La guerra di parole tra la Commissione Europea e il governo italiano non porta da nessuna parte. In linea di principio, la commissione può imporre sanzioni pecuniarie se l'Italia ignora le sue raccomandazioni, ma persino la cancelliera tedesca Angela Merkel ha riconosciuto che farlo serve soltanto a "portare all'insolvenza in modo particolarmente veloce". In ogni caso, queste sanzioni sono destinate al fallimento politico: i capi di governo che formano il Consiglio Europeo, che deve autorizzare qualsiasi azione, non imporrano sanzioni per paura che in futuro possa toccare al proprio paese.

 

Le politiche vaghe e incostanti del governo hanno causato preoccupazione nei mercati. Detto questo, anche le dure dichiarazioni dei funzionari della Commissione Europea sull'Italia hanno fatto salire il costo del credito. Qualcuno potrebbe vederlo come un utile strumento di pressione per tenere l'Italia al suo posto, ma è come giocare col fuoco in una polveriera. Rendimenti crescenti e prezzi dei titoli pubblici in discesa portano altra tensione sulle già fragili banche italiane, che detengono grandi quantitativi di titoli di stato. Le sofferenze del sistema bancario, a loro volta, possono richiedere salvataggi che peggiorano ulteriormente le finanze pubbliche. Un rallentamento dell'economia globale peggiorerà soltanto questa dinamica, spingendo le fragili banche e le finanze pubbliche in una spirale negativa.

 

In un ambiente così pericoloso, l'incapacità di praticare una discussione costruttiva potrebbe precipitare in un disastro economico e politico. D'altra parte, cambiare la narrativa per dare legittimità ad un modesto stimolo italiano riassicurerà gli investitori e calmerà i mercati. I funzionari europei dovrebbero riconsiderare la loro posizione velocemente.

26/10/18

WSJ - Dietro la disputa tra Bruxelles e Roma. Come può la UE rifiutare una manovra che rispetta i parametri di Maastricht?

L’economista mainstream Marcello Minenna, sul quotidiano mainstream Wall Street Journal, spiega la disputa in corso tra Bruxelles e Roma sul bilancio italiano. Al centro della contesa stanno stime econometriche sulle quali, afferma Minenna, è più che probabile che il governo italiano abbia ragione. Bruxelles tende a sottostimare il potenziale di crescita di un’Italia che viene da anni di crisi con disoccupazione elevata. Tra queste stime ci colpisce, in particolare, il tasso di disoccupazione sotto il quale non dobbiamo scendere per non attivare pressioni inflazionistiche sui salari (NAWRU). Ma perché non possiamo tollerare pressioni inflazionistiche (specie se si tratta di far lavorare i disoccupati) ora che l'inflazione è decisamente sotto il due per cento? Minenna non lo dice, ma qui lo sappiamo, da anni: l’euro (come ogni cambio fisso) è insostenibile se economie diverse viaggiano a tassi di inflazione diversi.

 

 

di Marcello Minenna, 23 ottobre 2018

 

La resa dei conti tra Roma e Bruxelles occupa da settimane i media europei e gli investitori. Il nuovo governo italiano, composto da partiti politici particolarmente ribelli, ha proposto un deficit di bilancio pari al 2,4 percento del PIL per il prossimo anno. Martedì la Commissione Europea ha dichiarato che questa cifra è troppo elevata e ha dato all’Italia tre settimane di tempo per proporre una revisione della bozza di bilancio. Tuttavia, il 2,4 percento è ben sotto il limite del 3 per cento stabilito dal Trattato di Maastricht. Perché Bruxelles impone a Roma un limite così stretto?

 

La risposta è che i burocrati dell’Unione Europea hanno cambiato il modo in cui valutano i bilanci degli stati membri, e la nuova formula è fortemente fuorviante.

 

La crisi dei debiti sovrani iniziata nel 2010 ha spinto Bruxelles a rivedere i criteri di Maastricht, in base all'idea che un limite fisso di deficit al 3 per cento e di debito al 60 per cento possa permettere un eccessivo margine di manovra durante i boom economici e uno troppo esiguo durante le recessioni. Dal 2011 la Commissione ha considerato invece il budget di bilancio "strutturale”, che esclude le voci “uniche” come le politiche per reagire ai disastri naturali e le cosiddette componenti cicliche del bilancio pubblico - questo include sia la tendenza all'aumento della spesa sociale durante le recessioni che gli aumenti del gettito fiscale durante i boom.

 

Bruxelles può allora stabilire obiettivi specifici per i singoli paesi e imporre piani che i governi nazionali sono tenuti a seguire. Per l’Italia, quest’anno la Commissione ha chiesto una riduzione della parte di deficit strutturale pari allo 0,6 percento del PIL. Il bilancio consegnato dal governo italiano riporta invece un aumento (anziché una riduzione) del deficit strutturale pari allo 0,8 percento del PIL. Questa differenza - “una deviazione significativa dal percorso di aggiustamento”, come viene definita nel gergo degli eurocrati - è la fonte dell’attuale controversia.

 

Quello che la Commissione non vuole ammettere è che l’intero metodo poggia su congetture. Per calcolare il deficit “strutturale”, si deve prima definire quanta parte del deficit dipende da fattori ciclici. E per capire in che punto del ciclo economico si trovi un paese, nella pratica, è necessario stimare l’“output gap”, cioè la differenza tra il PIL effettivo e quello potenziale. Quest’ultimo è una stima del prodotto che un’economia potrebbe raggiungere in condizioni di piena occupazione, di pieno utilizzo dei capitali, ma senza provocare pressioni inflazionistiche. L’entità dell’output gap è una stima piuttosto importante nel momento in cui la Commissione stabilisce degli obiettivi fiscali.

 

La stima di questo output gap è la vera fonte della divergenza tra Roma e Bruxelles, e sono le stime di Bruxelles ad avere poco senso. La previsione fatta dalla Commissione prevede un output gap positivo dello 0,5 percento per il 2019. In altre parole, Bruxelles ritiene che l’Italia il prossimo anno avrà una produzione dello 0,5 percento più elevata rispetto a quanto possibile in una condizione di piena occupazione e pieno utilizzo dei capitali [ma senza pressioni inflazionistiche, NdT]. Pertanto, la Commissione ritiene che Roma oggi debba ridurre il deficit.

 

Tutto questo è ottimistico, per usare un eufemismo. Bruxelles ritiene che l’Italia produrrà al di sopra del suo potenziale, nonostante il suo tasso di disoccupazione sia a doppia cifra da anni. La stima fatta dalla Commissione su un output gap positivo dell’Italia il prossimo anno è quasi pari alla stessa stima fatta per la Germania (0,6 percento), ma la Germania sta avendo un tasso di crescita economica annuale attorno al 2 per cento e un tasso di disoccupazione inferiore al 4 per cento.

 

Roma ritiene che il PIL del prossimo anno sarà invece dell’1,2 percento inferiore (anziché superiore) alla sua produzione potenziale. Altri economisti ritengono che l’output gap sia addirittura più vicino a un valore negativo del 4 o 5 per cento.

 

Il problema sta nel metodo che la Commissione usa per stimare variabili cruciali per il calcolo dell’output gap, come la produttività e, soprattutto, il “tasso di disoccupazione a salari stabili” [“non accelerating wage rate of unemployment”], o NAWRU. Questo è il presunto tasso di disoccupazione di equilibrio, tale da non generare pressioni al rialzo sui salari. Maggiore è il divario tra il tasso di disoccupazione effettivo e il NAWRU, maggiore sarà l’output gap.

 

Bruxelles sta stimando una crescita economica potenziale quasi certamente troppo bassa, quando stima il suo NAWRU. La stima del NAWRU per l’Italia nel 2018 è di una disoccupazione al 9,9 percento, ovvero neanche l’1 per cento inferiore al tasso di disoccupazione effettivo - il che suggerirebbe che l’Italia non abbia alcuna speranza di ridurre il tasso di disoccupazione al di sotto di quel livello (comunque elevato) senza andare incontro a un significativo aumento di inflazione.

 

Roma usa stime diverse per calcolare l’output gap, più in linea con le caratteristiche particolari del mercato del lavoro italiano. Sebbene non abbia divulgato pubblicamente la sua stima del NAWRU, essa è probabilmente attorno all’8,5 percento. Bruxelles in passato ha ammesso che le stime fatte dall’Italia sul proprio output gap potrebbero essere più precise, il che sarebbe un buon argomento per concedere a Roma una maggiore flessibilità fiscale, anche sotto le regole di bilancio della stessa Commissione Europea.

 

La grande questione è che nessuno di questi modelli tiene adeguatamente conto della carenza di investimenti, dei ritardi nella produttività, e di un insieme di altri fattori che influenzano la salute economica complessiva dell’Italia, salute economica che a sua volta determina il gettito e il bilancio fiscale. Non è chiaro se il nuovo governo italiano abbia dei piani efficaci per migliorare tutti questi fattori, e se aumentare la spesa in recessione sarà davvero di aiuto. Ma è sicuro che la lotta che si prepara sul deficit di bilancio si riduce alla fine a una spettacolare disputa su modelli econometrici di dubbia esattezza.

24/10/18

Ashoka Mody: le deficienze della moneta unica continuano a perseguitare l’Europa

Riprendiamo una discussione su twitter segnalataci da Leonardo Sperduti. Il prestigioso economista Mody, rivolgendosi a giornalisti economici italiani pro-euro, li esorta ad ammettere i difetti dell’euro e il suo ruolo nell’impedire la ripresa delle economie periferiche dell’eurozona.

Traduciamo nel seguito anche l’introduzione del suo ultimo libro – dal titolo significativo: “La tragedia dell’euro: un dramma in nove atti”.

 

 

 @AshokaMody

 

La Turchia ha molti problemi, ma ha il vantaggio di un cambio flessibile. La flessibilità del tasso di cambio non impedisce una crisi – ma crea un inestimabile, insostituibile ammortizzatore degli shock esterni, come ha spesso mostrato Robin Brooks.

 

 

@RobinBrooksIIF

 

La mancanza di aggiustamenti del tasso di cambio nominale come ammortizzatore di shock ha comportato una stagnazione del PIL reale della periferia dell’eurozona in confronto alle crisi da bilancia dei pagamenti dei mercati emergenti (EM), dove il PIL reale è invece tornato rapidamente a crescere. Come lei ha sottolineato, questa è una deficienza dell’euro che aiuta a spiegare l’affermazione del populismo.

 



(In blu l'andamento del PIL reale dei paesi emergenti dopo la crisi, in nero quello dei paesi periferici dell'eurozona, NdVdE)

 

 

 @AshokaMody

 

Rimango perplesso davanti alla negazione dell’importanza del deprezzamento del tasso di cambio da parte dei fanatici pro-euro. Le prove fornite in tempo reale da Robin Brooks e i recenti studi del brillante Daniel Leigh riconfermano il ruolo del tasso di cambio come ammortizzatore degli shock.

https://www.imf.org/en/Publications/WP/Issues/2017/03/15/Exchange-Rates-and-Trade-A-Disconnect-44746

 

 

La tragedia dell’euro: un dramma in nove atti - introduzione

 

Nel maggio del 1950, a cinque anni dalla fine della seconda di due catastrofiche guerre, le Nazioni europee iniziarono a costruire una straordinaria organizzazione per la cooperazione istituzionale e per il libero scambio allo scopo di  assicurare pace e prosperità. Poi, nel 1969, fecero un salto incredibilmente azzardato  verso una moneta unica – che richiede una politica monetaria unica per economie ampiamente divergenti. Si trattò di una follia economica, come i critici ai tempi non si stancavano di dire. Peggio ancora, portava con sé i semi di una divisione politica. I leader europei andarono avanti senza ascoltare e, nel gennaio 1999, iniziò la tragedia dell'euro.

 

In questa cronaca vivida e convincente, Ashoka Mody descrive come l’euro sia emerso in maniera improbabile attraverso una stretta finestra storica, come un compromesso difettoso avvolto in una falsa retorica pro-europea di pace e di unità. Mody situa la tragedia in un contesto globale frenetico e guida il lettore attraverso gli errori – alcuni inevitabili ed altri evitabili – commessi dalle autorità dell’eurozona  durante la lunga crisi finanziaria.

 

L’euro si è sviluppato come una tragedia, sia da un punto di vista economico che da un punto di vista politico. Ha indebolito il potenziale di crescita degli stati membri, rendendo gli europei finanziariamente vulnerabili e quindi più ansiosi. Ha acuito il senso di ingiustizia e ampliato la divisione tra le nazioni. Ora, il peso ricade sugli europei più giovani, una generazione con un futuro scoraggiante e cupo.

 

La tragedia dell’euro offre una visione compassionevole delle possibilità europee, e chiarisce come i difetti strutturali dell’euro continueranno a infestare il continente – soprattutto incuneandosi nelle debolezze dell’economia italiana. Anziché centralizzare l’autorità per sostenere un modello pro-europeista sclerotizzato, è tempo di allentare i vincoli eccessivamente rigidi e stretti, così che possa ancora una volta fiorire un assetto di libertà.

 

23/10/18

Eurointelligence - L'Italia formula la prima fondamentale sfida al Patto di Stabilità rafforzato

 

Nella rassegna stampa di Eurointelligence di oggi, diretta dall'editorialista del Financial Times Wolfgang Münchau, si commenta il disegno di legge di bilancio dell'Italia come un'aperta e chiara sfida alle regole di bilancio europee e al Patto di stabilità. E tuttavia si sottolinea il noto e importante precedente del 2003, quando fu la Germania, con la Francia, a violare apertamente le regole, sostenendo che lo sforamento era necessario a seguito delle riforme effettuate per il rilancio dell'economia del paese, per di più giustificandosi ufficiosamente (e odiosamente) con la considerazione che alcuni paesi sono senza dubbio più uguali degli altri. L'Italia è certamente un paese di peso, e vedremo come andrà a finire. Münchau lamenta che questa sfida aperta costituisca un ostacolo alle tanto necessarie riforme che renderebbero l'eurozona un'unione monetaria sostenibile. Ma in verità a noi appare evidente come sia proprio la inevitabilità di questa sfida a dimostrare che le vagheggiate riforme sono in realtà un mito, ben lontano dalla reale volontà politica di Bruxelles.

 

 

 

Eurointelligence, 23 ottobre 2018

 

 

È difficile immaginare una sfida più importante all'autorità della Commissione europea dell'annuncio, arrivato da uno stato membro, di avere l'intenzione di infrangere le regole deliberatamente e consapevolmente - come ieri ha fatto l'Italia. Una simile inosservanza intenzionale minaccia l'intero edificio dell'autorità della Commissione, basato sulle regole e, in ultima analisi, la stessa integrazione europea basata sui trattati. Fu per questo motivo, con una mossa sensazionale che pochi all'epoca compresero, che la Commissione giunse a portare l'Ecofin dinanzi alla Corte europea quando nel 2003 la maggioranza dei ministri delle Finanze votarono per autorizzare la decisione di Germania e Francia di violare deliberatamente e apertamente le regole sul disavanzo contenute nel Patto di Stabilità originale. Un anno dopo, la Commissione vinse il ricorso e lo screditato Patto di Stabilità fu revisionato, e fu il primo dei molti tentativi di far funzionare meglio l'unione monetaria.

 

Nell'attuale confronto tra Bruxelles e Roma sul bilancio italiano, uno sguardo indietro agli anni 2003-2005 è tanto divertente quanto istruttivo. Allora furono Francia e Germania a rompere il Patto di Stabilità, come riportava con soddisfazione il Daily Telegraph – leggete l'articolo se avete tre minuti a disposizione e avete voglia di farvi una risata mattutina. Ricordiamo che Hans Eichel sosteneva con veemenza che la programmata violazione temporanea della regola del disavanzo da parte della Germania fosse una conseguenza inevitabile del pacchetto di riforme strutturali che il suo governo stava attuando, che avrebbe portato a una conseguente ripresa della crescita e a un ridimensionamento del deficit. Sfortunatamente, Eichel allora dichiarò anche, confidenzialmente, che il Patto di Stabilità non era stato istituito per disciplinare paesi del calibro della Germania.

 

La lettera di ieri di Giovanni Tria alla Commissione in alcune parti riecheggia Eichel. Tria promette che l'infrazione alle regole sarà temporanea e dichiara che è accompagnata da un intero pacchetto di riforme strutturali che è stato sottovalutato e amplificherà il potenziale di crescita dell'Italia, argomento sostenuto anche da Giuseppe Conte nei suoi colloqui con i leader dell'UE a Bruxelles la scorsa settimana. Una differenza significativa è che Tria sottolinea la necessità di alleviare la difficile situazione delle fasce più povere della popolazione italiana, dopo un decennio di stagnazione economica, mentre Eichel sosteneva una dura medicina per il welfare state tedesco.

 

Quindi, come reagirà oggi la Commissione? Non siamo ancora arrivati al punto di una interruzione delle comunicazioni: nella sua lettera di ieri, e nelle dichiarazioni di tutte le parti in causa, è stata enfatizzata la volontà di continuare a dialogare, e saggiamente, dato l'umore politico che circola in Italia. Tria ha cercato di tendere un rametto d'ulivo, affermando che l'Italia correggerebbe la sua programmazione di bilancio nel caso in cui la crescita non fosse all'altezza delle proiezioni del governo, quasi universalmente considerate eccessivamente ottimistiche. Ma non vediamo altra strada da percorrere per la Commissione che continuare a chiedere a Roma di riportare la programmazione del bilancio in linea con gli obiettivi, e di intensificare gradualmente la disciplina richiesta dal Patto di Stabilità fino al raggiungimento dell'obiettivo. Riconoscendo così apertamente il mancato rispetto delle regole da parte dell'Italia e facendo eco alla ribellione franco-tedesca del 2003, Tria ha trasformato la questione italiana nella prima importante sfida al Patto di Stabilità rafforzato emerso dall'ultimo round di riforme.

 

Prendiamo nota per inciso del fatto che questo suona come una campana a morto per qualsiasi speranza di realizzare qualsiasi significativa riforma dell'eurozona quest'anno o l'anno prossimo. Se un importante Stato dell'Unione è bloccato in un conflitto fondamentale con la Commissione e con gli altri partner, qualsiasi sostanziale progetto di riforma verrà messo da parte e relegato fuori agenda. Con le elezioni europee del prossimo anno, un nuovo sforzo di riforma non avrà nessuna possibilità di essere messo seriamente in discussione prima del 2020 o anche oltre.

21/10/18

Perché l'isteria sul Def italiano non ha senso

Gli organi di informazione, con sprezzo del ridicolo, lanciano quotidianamente l’allarme rosso sugli sforamenti di qualche punto di indici economici da ben pochi davvero compresi nel loro complesso calcolo e funzionamento. Ottimo dunque questo articolo pubblicato sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, che mostra come, se si stenta a capire il senso dei parametri imposti dall’Unione europea è, molto semplicemente, perché questo senso non c’è. Formule e modelli basati su presupposti economici sbagliati servono più che altro a confondere e distrarre l’opinione pubblica, che discutendo a perdifiato (e spesso anche a vanvera) su cifre e percentuali perde la sostanza che c’è sotto: una strategia economica fondata su modelli irrealistici, ormai smentiti anche a livello accademico, al servizio di un disegno politico.

 

 

 

 

Di Orsola Costantini, 10 ottobre 2018

 

Le reazioni alle cifre inserite nel documento programmatico di bilancio si basano su ipotesi screditate e tradiscono un fondamentale fraintendimento della crescita economica e dell'austerità.

 

In questi giorni, niente accende gli animi come un nuovo documento programmatico di bilancio. Se poi è presentato dal governo più controverso (o forse al secondo posto) in Unione europea, quello italiano del Movimento Cinque Stelle e Lega, l’agitazione è garantita.

 

Il 27 settembre il ministro delle Finanze italiano Giovanni Tria ha comunicato alla Commissione europea l'intenzione di apportare modifiche al programma di bilancio stabilito dal precedente governo. "Il nuovo programma genererebbe un rapporto deficit/ PIL del 2,4% nel 2019, implicando un saldo strutturale di bilancio in rapporto al PIL di -0,8%, ossia una deviazione programmata dell'1,4% rispetto all'obiettivo.

 

I mercati finanziari e i media hanno reagito duramente. Pierre Moscovici, commissario europeo per gli Affari economici e finanziari, e il presidente della Commissione europea Jean Paul Juncker hanno entrambi espresso forte scontento, mentre i rendimenti dei titoli decennali sono saliti al di sopra del 3,5% per la prima volta in quattro anni. Il vice primo ministro e leader del movimento Cinque stelle, Luigi Di Maio, ha commentato che "C’è qualche istituzione europea che con le dichiarazioni gioca a far ballare lo spread, a far terrorismo sui mercati". Il 5 ottobre, la lettera ufficiale di risposta della Commissione al ministro ha espresso "seria preoccupazione" per i cambiamenti previsti, generando ulteriori turbolenze sui mercati. Il 9 ottobre, il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca centrale italiana si sono uniti al coro con nuovi ammonimenti.

 

I leader del governo italiano hanno risposto fermamente che non avrebbero fatto marcia indietro sul programma e hanno criticato in modo esplicito e aperto l'establishment europeo. Anche il volto moderato della coalizione, il premier italiano Giuseppe Conte, ha alzato il tiro, mettendo in discussione le priorità della Commissione europea, della Banca d'Italia e del Fondo monetario internazionale: ha assicurato che il suo governo resta impegnato a contenere il debito pubblico e a mantenere la stabilità fiscale, ma ha affermato che l’obiettivo è impossibile da raggiungere senza crescita economica. Il ministro per gli Affari europei, l’economista Paolo Savona, ha affermato addirittura che sarebbe necessario un rapporto deficit/PIL superiore al 2,4%.

 

In effetti, reazioni così accese al nuovo programma di bilancio sono ingiustificate. In realtà gli obiettivi stimati che il nuovo programma non rispetterebbe (in misura minima) non sono attendibili e si basano su principi macroeconomici errati. Inoltre, a dispetto delle accuse di prodigalità, l'Italia in realtà ha un importante avanzo primario (differenza tra spesa pubblica ed entrate al netto del pagamento degli interessi sul debito), e continuerà ad averlo anche se il governo confermerà i suoi piani (vedi figura 1). Se qualcosa dovrebbe generare una "seria preoccupazione", piuttosto, è il fatto che il Paese continui sulla strada dell'austerità, che si è dimostrata recessiva; ha bloccato il Paese nella stagnazione e ha esposto il suo sistema bancario a una dose di stress ancora maggiore. Con gli investimenti pubblici a livelli storicamente bassi, la disoccupazione ancora superiore al tasso del 2008 in tutte le regioni e un tasso di disoccupazione giovanile superiore al 30%, è ben difficile non vedere i validi motivi a sostegno della necessità di uno stimolo fiscale.

 

 



 

 

Figura 1 Fonte: BCE Statistical Data Warehouse


 

Quanto alle lettere spedite al governo dalla Commissione europea, non rappresentano nulla di straordinario: la corrispondenza fa parte delle procedure di monitoraggio fiscale dell'Unione europea, rigorosamente pianificate e regolamentate. Neanche il giudizio negativo contenuto nella lettera della Commissione è una novità per un governo italiano. Nell’ottobre 2017, per esempio, la Commissione ha inviato una lettera analoga all'allora ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan, in risposta al programma proposto dal governo per il 2018 e gli anni successivi, contestando il fatto che il piano si sarebbe discostato di 0,4 punti percentuali dall’obiettivo concordato per il 2018:

 

"Per il 2018 [il programma di bilancio provvisorio] prevede uno sforzo strutturale (di riduzione del deficit, ndT) dello 0,3% del PIL, che una volta ricalcolato dai servizi della Commissione [...] rappresenta lo 0,2% del PIL. Questo sforzo strutturale è inferiore all'impegno per almeno lo 0,6% del PIL richiesto in base [...] al patto di stabilità e crescita [...]. " La Commissione concludeva: "Questo indica il rischio di una significativa deviazione dagli impegni richiesti nel 2017 e nel 2018 insieme. Accetteremmo quindi volentieri ulteriori informazioni sulla composizione precisa dello sforzo strutturale previsto [nel programma di bilancio provvisorio].”

 

Ciò che è più interessante è la lettera di risposta allora inviata da Padoan, che esprimeva preoccupazione riguardo alla metodologia concordata per la stima delle cifre in discussione:

 

"L'Italia sta ancora vivendo condizioni cicliche difficili, sebbene in miglioramento. L'output gap è stimato a -2,1% del PIL potenziale nel 2017 e -1,2 nel 2018. Le stime della Commissione nelle Previsioni di primavera erano pari a -0,8% per il 2017 e 0,0 per il 2018. In previsione di una probabile revisione delle proiezioni di crescita del PIL reale nelle prossime "Previsioni d'autunno", queste cifre indicano un gap positivo nel 2018, un risultato che ci sembra in contrasto con tutte le evidenze macroeconomiche disponibili [...] "

 

Alla fine, la Commissione e il Consiglio hanno accettato il programma di bilancio e non hanno avviato una procedura formale per disavanzo eccessivo (che potrebbe portare a sanzioni). Ma le domande sul metodo sollevate da Padoan sono rimaste fondamentalmente senza risposta. Sono ancora valide oggi?

 

L'Unione europea utilizza diversi indicatori di solidità fiscale per giudicare se un paese stia progredendo verso il suo obiettivo di medio termine. Questi sono, in generale: il rapporto debito/PIL, deficit/PIL, saldo primario/PIL e saldo strutturale/PIL.
Le previsioni sulla dinamica del debito e sul rapporto tra deficit e PIL implicano già un certo grado di incertezza in merito alla crescita delle entrate e alle sue componenti. Ma quando si tratta di saldo strutturale e output gap, ovvero di quella che era la preoccupazione sollevata da Padoan, la storia diventa ancora più complicata. Queste stime equivalgono a capolavori di travestimento statistico.

 

Richiedono infatti una valutazione di quanto il paese sta crescendo rispetto alla sua crescita potenziale. Ma quest'ultima, ovviamente, non è osservabile. Per questo la sua stima richiede un modello per stabilire come la politica fiscale e, più in generale, le politiche pubbliche influenzino la crescita.
Inutile dire che in economia non esiste un consenso su quale modello usare. Molti studiosi affermati, come Olivier Blanchard, ex capo economista del FMI, hanno criticato la metodologia infine adottata dalla Commissione europea. La Commissione stessa sembra un po' confusa riguardo ai risultati, viste le continue revisioni dell'output gap per l'Italia, come sottolinea Padoan nella sua lettera (figura 2).

 

 



 

 

Figura 2. Stime dell’0utput gap per l'Italia da parte della Commissione in momenti diversi. I colori mostrano l'anno in cui la stima viene effettuata, i punti indicano gli anni a cui si riferisce.


Fonte: Direttore europeo della commissione Affari generali, economici e finanziari, Valutazione del programma di stabilità dell'Italia dal 2014 al 2018 (Stime di primavera)


 

Ma oltre alla inaffidabilità, questa formula ha un problema più sostanziale: nella sua costruzione assume che la spesa pubblica in deficit non possa avere un impatto strutturale sulla crescita. Ciò significa che un aumento del deficit non può stimolare una crescita senza inflazione e che una diminuzione del deficit non ha effetti depressivi. Di conseguenza, qualsiasi diminuzione del tasso di crescita non può mai, per definizione, essere interpretata come conseguenza dell'austerità.

 

Questa ipotesi è in contrasto con ciò che ormai affermano anche economisti mainstream di spicco.

 

Quindi, che cosa determina la crescita potenziale, secondo la Commissione? Una componente importante, alla quale possiamo probabilmente tutti fare riferimento, è il tasso di disoccupazione strutturale, o “tasso di disoccupazione di equilibrio, tale da non generare pressioni salariali” (NAWRU – Non Accelerating Wages Rate of Unemployement), ovvero il più basso tasso di disoccupazione cui si può arrivare senza provocare la crescita dei salari e dell'inflazione. La figura 3 mostra come quest'ultima costruzione ipotetica si comporta in relazione al tasso di disoccupazione reale. La differenza tra le due serie è rilevante: maggiore è la differenza, maggiore è l’output gap e quindi lo spazio di flessibilità fiscale concesso a un paese.
Ma, guarda caso, più alto è il tasso di disoccupazione reale, più è alto anche il tasso di disoccupazione strutturale, il che lascia sostanzialmente invariato l’output gap.

 



 

 

Figura 3. In blu il tasso di disoccupazione reale e in rosso il NAWRU, dati scaricati da AMECO nel 2013, al culmine della crisi del debito sovrano. La Commissione stimava allora che la Spagna avesse un tasso di disoccupazione ottimale del 24%.


 

La logica è chiara: l'ipotesi è che la disoccupazione sia dovuta a fattori strutturali, come la rigidità del mercato del lavoro, e che i deficit fiscali possano raramente essere d'aiuto. Anche se fossimo d’accordo, sarebbe ben difficile spiegare perché la Spagna nel 2004 abbia avuto un tasso di disoccupazione strutturale del 10,4%, mentre nel 2013 del 24%, dato che il mercato del lavoro nel frattempo era diventato più flessibile. In Italia, il tasso di disoccupazione per il 2018 è attualmente del 10,8% e la stima del NAWRU è del 9,94%.
Lasciamo da parte i dibattiti tecnici: la decisione è in ultima analisi politica. Le formule oscure e i modelli traballanti si prestano proprio a questo: a giustificare ciò che viene deciso a porte chiuse. Nel frattempo, tuttavia, la contesa sulle cifre avrà distolto l'attenzione dei cittadini europei da una discussione sugli ampi obiettivi sociali che l'Europa dovrebbe raggiungere.

 

Tuttavia, resta difficile capire perché, in un contesto politico che minaccia la fondazione stessa dell'UE, la Commissione europea abbia deciso di evocare lo spettro di una catastrofe finanziaria per un aumento dell'1,4% rispetto a una stima che si è dimostrata ripetutamente inaffidabile e che la maggioranza degli economisti contesterebbe.

20/10/18

Alberto Bagnai - L’informazione, il deficit, e i mercati

Dal blog Goofynomics di Alberto Bagnai traduciamo un post in inglese, principalmente rivolto agli investitori internazionali o comunque a un pubblico non esperto delle cose italiane, in cui, facendo riferimento a un articolo di Reuters, ne dimostra l'inesattezza, se non la tendenziosità. In giornate in cui il nostro paese si trova sotto attacco per la legittima volontà del suo governo di attuare un programma di rilancio dell'economia, che rischia l'asfissia, gli esempi di un'informazione imprecisa o volutamente manipolativa, che arriva a sfiorare il procurato allarme,  si moltiplicano, purtroppo soprattutto in Italia. E invece qualcuno che parla chiaro, inaspettatamente, lo troviamo proprio in Germania...

 

 

 

 

di Alberto Bagnai, 14 ottobre 2018

 

I mercati sono nervosi, e li capisco bene. A volte le informazioni che ricevono dall’Italia sono davvero terrificanti! Li inviterei però a prenderle cum grano salis.

 

Prendiamo per esempio questo articolo, pubblicato qualche ora fa da Reuters. Mi concentrerò solo su una delle molte affermazioni discutibili: l’idea che il governo italiano programmi di “triplicare il deficit l’anno prossimo, facendo marcia indietro sulla precedente promessa di ridurlo”.

 



 

Ho provato a leggere questa frase con gli occhi di un investitore internazionale, comprensibilmente all’oscuro dei fatti e dei dati fondamentali dell’economia italiana, che conosce poco o nulla delle modalità con cui la legge di bilancio è scritta, discussa e approvata.

 

Prese alla lettera, queste parole significano che il governo italiano ha deciso di triplicare il deficit di bilancio del 2019 rispetto al valore di quest’anno. Quest’ultimo per ovvie ragioni non è ancora noto, ma secondo la maggior parte delle stime (incluse quelle del governo) è probabile che sarà all’1,8% del PIL. Poiché 1,8x3=5,4, gli investitori internazionali potrebbero concludere che il governo italiano programmi di espandere il deficit di bilancio oltre il 5% del PIL. Le loro preoccupazioni sarebbero del tutto giustificate.

 

Fortunatamente, tutti sanno che il dato corretto è 2,4: meno della metà del dato suggerito da Reuters. Da dove viene allora questo “triplo”? Per capirlo servono un po’ di informazioni di contesto. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) stabilisce un piano triennale per la politica di bilancio italiana, dove uno scenario di riferimento (il cosiddetto “tendenziale”, ovvero l’andamento previsto a politiche invariate) viene confrontato con uno scenario controfattuale (il cosiddetto “programmatico”, ovvero uno scenario che prende in considerazione il programma economico del governo). E ora possiamo spiegare questo presunto “triplo” prendendo 2,4 (il dato corretto) e dividendolo per 3: 2.4/3=0.8.

 

I mercati potrebbero avere dimenticato questo dato. Io no, perché lo scorso maggio ho riferito sul DEF al Senato della Repubblica Italiana: 0.8 era il rapporto deficit/PIL nel “tendenziale” proposto dal precedente governo.

 

Il resoconto di Reuters è quindi inesatto sotto almeno altri due aspetti. Primo, perché sarebbe inutile confrontare un dato “tendenziale” (non aggiornato, tra l’altro) con uno “programmatico”. In altre parole, nessuno sa cosa avrebbe fatto il Partito Democratico a settembre se fosse stato ancora in carica. Abbiamo abbastanza elementi per sospettare che avrebbe aumentato il suo dato “programmatico” di settembre rispetto al suo “tendenziale” di maggio, come in molti altri casi, ma questa è una questione discutibile. Non può essere fatto nessun confronto sensato tra il nostro 2,4 e il loro 0,8. Il secondo motivo per cui il resoconto di Reuters è errato è che l’attuale governo ad aprile non era in carica: quindi è in ogni caso sbagliato sostenere che sta “facendo marcia indietro”. Il governo italiano non ha fatto marcia indietro: è cambiato. Sospetto che qualcuno a Reuters possa essere dispiaciuto per questo, e me ne rammarico, ma non è colpa mia: è la democrazia.

 

Per farla breve: non c’è stata nessuna triplicazione del deficit, non c’è stata nessuna marcia indietro. C’è invece un grave problema di qualità dell’informazione. L’informazione, ancora più del denaro, è la materia prima più preziosa per chi lavora nei mercati. Spero che queste persone siano consapevoli del problema, e c’è qualche segnale che effettivamente lo sono.

 

19/10/18

CNBC: Lasciate in pace l’Italia! L’UE vuole l'austerità fiscale da un’economia che affonda

CNBC, uno dei media mainstream americani, dà spazio a un articolo aspramente polemico verso i vertici UE, colpevoli di aver fomentato un inutile dissidio col governo italiano che propone una manovra economica appena moderatamente espansiva. Contrariamente alla nostra vulgata giornalistica, questo articolo addita proprio la commissione UE come colpevole dello "spread" che ha fatto seguito al braccio di ferro sulla manovra. È infatti inconcepibile, per gli americani, che nelle circostanze attuali la UE si ostini sull'applicazione di un'austerità fiscale che si è già dimostrata irrimediabilmente fallimentare. Nel frattempo altri grandi paesi, come la Francia e la Spagna, continuano ad accumulare deficit di bilancio tranquillamente maggiori di quello italiano senza dare adito ad alcun dibattito. L'articolo parteggia apertamente per l'Italia, nonostante nel finale proponga un'immagine idealizzante del "progetto" europeo.


 

 

di Michael Ivanovitch, 14 ottobre 2018

 

Un attacco ridicolmente feroce, diretto contro la politica fiscale timidamente espansiva presentata dall’Italia nella legge di bilancio per il prossimo anno, sta scatenando il panico sui mercati e offrendo uno spettacolo poco edificante sulle relazioni intra-europee, eternamente malgestite.

 

L’acrimonia manifestata dalla commissione UE nella sua revisione della legge di bilancio italiana è già costata ai contribuenti italiani un aumento – evitabile – del peso del debito sulle generazioni future. Solo nel corso degli ultimi due mesi, il già elevato costo del debito a dieci anni è aumentato di oltre 100 punti base – un duro colpo per un paese che ha già 2.400 miliardi di euro di debito pubblico. Si tratta di un debito pari a quasi il 150 percento del prodotto interno lordo italiano.

 

Qual è il problema che il governo italiano deve affrontare

 

Già nell’impossibilità di operare una politica monetaria indipendente con cui gestire la domanda e l’occupazione, l’Italia ha cambiato un po' rotta rispetto alla precedente politica fiscale restrittiva, al fine di dare qualche sostegno all’attività economica e di prevenire ciò che appare già chiaramente come l’inizio di una nuova recessione ciclica, di ampiezza e durata ancora sconosciute.

 

La crescita economica del paese nel secondo trimestre di quest’anno ha continuato a indebolirsi, raggiungendo a stento un aumento dello 0,2 percento, e proveniva da una crescita già fiacca all’inizio dell’anno. Con l’eccezione delle esportazioni, tutti le più importanti componenti della domanda appaiono deboli.

 

La follia dell’austerità fiscale pro-ciclica

 

I consumi delle famiglie – che rappresentano circa i due terzi del PIL – sono frenati dalla elevata disoccupazione e dall’assenza di aumento dei redditi reali. Il volume delle vendite al dettaglio nei primi sette mesi dell’anno è diminuito con un tasso su base annuale dello 0,7 percento, a causa della stagnazione dei salari reali e del terzo più elevato tasso di disoccupazione (dopo Grecia e Spagna) dell’eurozona.

 

Lo scorso agosto il 9,7 percento della forza lavoro italiana era disoccupata, con uno spaventoso 31 percento di forza lavoro giovanile disoccupata e senza futuro. Oltre a questo, 6,5 milioni di italiani, l’11 percento della popolazione totale, vive sotto la soglia di povertà.

 

Sfortunatamente c’è anche di peggio. La UE riporta che il 30 percento della popolazione italiana è a rischio di povertà ed esclusione sociale.

 

Di fronte a prospettive così cupe per la domanda interna, alcuni si chiedono se la ricetta tedesca che viene suggerita possa davvero funzionare. Le esportazioni, certo, sono l’ingrediente principale della panacea tedesca, poiché rappresentano il 30 percento dell’economia italiana.

 

Purtroppo però questa ricetta sarà un altro fallimento, ed è un tentativo spudorato di manipolazione. Nel corso degli ultimi tre anni le esportazioni nette rappresentavano uno 0,5 percento della già quasi stagnante crescita italiana dell’1,1 percento del PIL. E sebbene le esportazioni nei primi sette mesi dell’anno crescessero di 4 punti percentuali rispetto all’anno precedente, questo non ha fatto assolutamente niente per rivitalizzare la produzione industriale del paese. La produzione industriale durante il periodo tra gennaio e luglio è crollata di un tasso annuale di 0,5 punti.

 

Questo naturalmente fa presagire esiti negativi per gli investimenti aziendali, perché la debolezza del settore manifatturiero suggerisce una grande abbondanza di capacità produttiva inutilizzata. In altre parole le aziende italiane non hanno bisogno di nuovi macchinari o di impianti più grandi: hanno già quello che gli serve per soddisfare la domanda attuale e attesa per il futuro.

 

Quindi cosa resta per sostenere i posti di lavoro e i redditi in Italia? Nulla – assolutamente nulla – continua a gridare in modo enfatico questa UE tedesca: l’Italia non ha una politica monetaria indipendente e, secondo la Commissione UE, la sua posizione fiscale deve restare solida e dura come il ghiaccio in modalità restrittiva a tempo indeterminato.

 

Il momento “whatever it takes” dell’Italia

 

L’Italia sa cosa tutto ciò significhi. Prima dell’inizio della crisi finanziaria dello scorso decennio, prima che venisse imposta l’austerità fiscale tedesca, il deficit di bilancio italiano del 2007 era stato ridotto a -1,5 percento del PIL (a confronto di quasi -3 percento in Francia). L’avanzo primario (cioè il bilancio prima di sottrarre gli interessi sul debito) era dell'1,7 percento del PIL, e aiutava ad abbassare il debito pubblico fino al 112 percento del PIL, rispetto a una media del 117 percento dei sei anni precedenti.

 

Ma poi si è scatenato l’inferno non appena i tedeschi – che rifiutavano sprezzantemente gli appelli di Washington alla ragione – hanno deciso di impartire la loro lezione ai “miscredenti fiscali”, imponendo le politiche di austerità alle economie dell’eurozona che già stavano affondando.

 

L’Italia non deve permettere che questo accada mai più

 

Allora cosa dovrebbe fare l’Italia? La risposta è semplice: esattamente ciò che ha detto di voler fare nel suo progetto di bilancio per il 2019, approvato lo scorso martedì da un’ampia maggioranza in Senato (61 percento di voti a favore) e alla Camera (63,4 percento di voti a favore).

 

L’Italia sta comodamente dentro i parametri di bilancio dell’eurozona. Il suo deficit di bilancio previsto al 2,4 percento del PIL per il prossimo anno fiscale è inferiore al limite del 3 percento imposto dall’unione monetaria.

 

E allora perché tutto questo trambusto? Perché nessuno sembra voler obiettare il fatto che la Francia e la Spagna avranno deficit maggiori dell’Italia?

 

La Francia ha appena aumentato la propria stima sul deficit per il prossimo anno portandola al 2,8 percento del PIL, rispetto alla precedente stima del 2,6 percento, sulla quale si era impegnata. E non è tutto. Sono ancora da definire le stime al ribasso sulla crescita, non c’è consenso politico su cosa bisogna tagliare, e un governo sempre più debole e impopolare potrebbe non riuscire nemmeno a mantenere il deficit di bilancio sotto il 3 percento del PIL.

 

L’instabile governo di minoranza spagnolo è alle prese con lo stesso problema. L’economia sta rallentando e Madrid ha una lunga storia in fatto di sforamento delle previsioni del deficit di bilancio. Il deficit di quest’anno, per esempio, è previsto per il 2,7 percento del PIL, ma la stima ufficiale fornita l’anno scorso era del 2,2 percento. Per come stanno le cose adesso, mantenere il deficit spagnolo sotto il limite del 3 percento del PIL sembra già un’impresa epica.

 

Perché tutto questo viene accolto da Bruxelles con un assordante silenzio? Forse l’accondiscendenza della UE verso la Francia e la Spagna ha molto a che fare con il loro livello più basso di debito pubblico?

 

È possibile, ma se fosse vero sarebbe un grosso errore. Quei paesi hanno un debito più basso con una tendenza di bilancio che va in peggioramento. Il debito pubblico della Francia è al 122 percento del PIL. Il fatto che la Francia abbia un deficit primario significa che il debito continuerà ad aumentare. Il debito pubblico della Spagna è al 115 percento del PIL, sostanzialmente senza alcun avanzo primario. Entrambi i paesi sono sulla strada di un aumento delle passività pubbliche a seguito dell’ampliamento dei loro disavanzi fiscali.

 

Nessuna sorpresa se qualcuno si domanda: l’attacco della UE contro la politica fiscale dell’Italia fa forse parte di un programma diverso? Ve ne accennerò, ma un’altra volta.

 

Idee di investimento

 

L’austerità fiscale in un’economia Italiana che rallenta – su cui pesa l'elevata disoccupazione, pla overtà in crescita e le infrastrutture che crollano – dovrebbe essere considerata una follia totale.

 

Lo spazio per un sollievo fiscale è molto ridotto, ma questo è il momento del “whatever it takes” italiano: Roma deve sostenere la propria attività economica, la crescita dell’occupazione e la spesa per le infrastrutture.

 

I leader del governo italiano potrebbero non apprezzare molto alcuni dei propri vicini, ma questo non è un buon motivo per denigrare la UE. Gli italiani non li hanno votati per questo.

 

I padri fondatori della UE – come Alcide de Gasperi e Altiero Spinelli – hanno messo l’Italia lì dove deve stare. La Grecia e l’Italia sono la culla della civiltà europea.

 

Il processo di unificazione europeo ha portato pace, un gigantesco e sempre più omogeneo mercato unico, l’euro e la Banca Centrale Europea – certamente i maggiori risultati dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Si può ben dire che l’Italia ha ragione di restare al centro di questo progetto epocale.

 

18/10/18

Dopo una sconfitta umiliante, la NATO e la UE provano ad alterare la realtà in Macedonia

Anche in Macedonia, la UE conferma la sua vocazione antidemocratica. I cittadini hanno disertato il referendum proposto per cambiare nome del Paese e accedere a NATO e UE, mandando l’affluenza ben al di sotto della soglia minima del 50%. Nonostante ciò, le autorità di queste organizzazioni sovranazionali preferiscono fare finta che il referendum sia stato un successo, e spingono per portare avanti processi di adesione che i cittadini non desiderano. La reazione del popolo macedone non tarderà a farsi sentire.

 

 

Di Aleksandar Pavic, 3 ottobre 2018

 

 

Il referendum tenutosi il 30 settembre in Macedonia - che avrebbe dovuto sancire il cambiamento di nome dello Stato e metterlo su una traiettoria di ingresso (sicuro) nella NATO e (allegramente sbandierato ma molto meno sicuro) nella UE – è fallito miseramente, avendo raggiunto un’affluenza di appena il 36,91% dei votanti, ben al di sotto della quota del 50% + 1 necessaria per essere valido, ma nessuno potrebbe rendersene conto dalle reazioni dei suoi promotori occidentali e dagli impazienti beneficiari. In realtà, ci sarà bisogno di coniare un nuovo termine per descrivere adeguatamente le reazioni dei rappresentanti principali del reliquiae reliquiarum del mondo unipolare post-guerra fredda dominato dall’occidente. “Fake news” non sarebbe sufficiente. Magari “fake reality”?

 

Il dipartimento di Stato USA ha negato fermamente la realtà, rilasciando il seguente comunicato: “Gli USA accolgono i risultati del referendum del 30 settembre della Repubblica di Macedonia, nel quale i cittadini hanno espresso il loro appoggio all’appartenenza a NATO e UE accettando l’Accordo Prespa tra la Macedonia e la Grecia. Gli USA sostengono fortemente la piena implementazione dell’accordo, che permetterà alla Macedonia di occupare il posto che le spetta nella NATO e nella UE, contribuendo alla stabilità della regione, alla sicurezza e alla prosperità. Mentre il parlamento macedone inizia le deliberazioni e i cambiamenti costituzionali, incoraggiamo i leader a mettere da parte la politica partigiana e approfittare dell’opportunità storica di assicurare un futuro più luminoso al paese come pieno partecipante alle istituzioni occidentali”.

 

Il commissario UE per la politica europea di vicinato e i negoziati di allargamento Johannes Hahn non è stato da meno nel suo disprezzo per il 63% dei “deplorevoli” macedoni che sono rimasti a casa per manifestare il loro disaccordo alla rinuncia della loro identità nazionale e del nome del loro paese (che doveva diventare “Macedonia del Nord”) in cambio della doppia gioia di: a) diventare la carne da cannone della NATO nel sempre più pericoloso gioco di potere con la Russia e b) diventare il nuovo servo debitore della UE: “Referendum in Macedonia: mi congratulo con quei cittadini che hanno votato nel referendum consultivo odierno e hanno fatto uso delle loro libertà democratiche. Con una vittoria molto significativa dei “sì”, esiste un ampio supporto all’accordo Prespa e al percorso del paese nella zona Euroatlantica. Mi aspetto ora che tutti i leader politici rispettino questa decisione e la portino avanti con la più alta responsabilità e unità tra tutti i partiti, nell’interesse del paese”. Hahn è stato assecondato il giorno seguente, con un comunicato congiunto, da Federica Mogherini, Alto Rappresentante per gli affari esteri UE e le politiche di sicurezza e Vice Presidente della Commissione UE.



 

Comprensibilmente, essendo il più diretto interessato, il Segretario Generale NATO Jens Stoltenberg è stato particolarmente (iper)attivo. Mentre i deludenti risultati iniziavano ad arrivare, Stoltemberg si è precipitato a controllare i danni, twittandoaccolgo il voto positivo del referendum macedone. Sollecito tutti i leader politici e i partiti a impegnarsi costruttivamente e responsabilmente ad approfittare di questa opportunità storica. Le porte della NATO sono aperte, ma tutte le procedure nazionali devono essere completate”. Stoltenberg ha rinforzato il suo messaggio delirante il giorno seguente, rilasciando un simile comunicato, co-firmato dal Presidente UE Donald Tusk. E il giorno dopo, durante una conferenza stampa, Stoltenberg ha persino offerto un accesso a tempo di record alla NATO ai riluttanti macedoni – gennaio 2019 per amor di precisione – se solo fossero così gentili da mettere in atto urgentemente proprio quell’accordo che loro avevano appena così enfaticamente rifiutato. Quando la NATO sostiene di promuovere i valori della democrazia – lo intende davvero!

 

UE

 

Ma non si è trattato della fine del delirio democratico intorno a quello che potrebbe tranquillamente rivelarsi la Waterloo balcanica della NATO e della UE. Per esempio, il Gruppo Parlamentare UE dell’Alleanza Progressista di Socialisti e Democratici, pur “deplorando il fatto che l’affluenza sia stata inferiore al 50%”, ha comunque salutato i risultati del referendum e “chiesto all’opposizione di rispettare la volontà espressa dalla maggioranza (sic!) dei votanti”. Il leader del gruppo, Udo Bullmann, mentre insisteva a sostenere che, in qualche modo, un’affluenza inferiore al 37% rappresentava pur sempre “una maggioranza”, ha inoltre utilizzato l’occasione per bacchettare il Presidente Macedone per aver avuto il coraggio di richiedere un boicottaggio del referendum (ha commesso lo psico-reato di ritenerlo un “suicidio storico” durante il suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite), e per denunciare – indovinate un po’? – “rapporti su un’interferenza russa nel processo elettorale”. Non val nemmeno la pena dire che Bullmann non ha portato uno straccio di prova delle sue accuse. D’altra parte, secondo numerosi rapporti dei media, all’avvicinarsi del 30 settembre, mentre nessun alto ufficiale russo si è visto dalle parti della Macedonia, una vera e propria processione di politici parrucconi occidentale hanno compiuto un pellegrinaggio a Skopje per rivelare agli abitanti i loro “veri” interessi: Sebastian Kurz“Cane Pazzo” Mattis, l’infaticabile StoltenbergFederica MogheriniJohannes HahnAngela Merkel. Ovviamente in questo caso nessuna ingerenza…

 

A proposito di Angela Merkel, si è unita ai suoi sodali democratici occidentali nel disprezzo dell’opinione della maggioranza degli elettori macedoni, spingendo il paese a “procede procedere verso” l’implementazione dell’accordo rigettato dalla maggioranza, citando lo “schiacciante sostegno (sic!)” e sostenendo attraverso il suo portavoce  che la soglia di un’affluenza del 50% + 1 era in realtà “molto alta” dal momento che i registri dei votanti includevano molte persone che ormai hanno lasciato il paese da tempo”.

 

Casualmente (?) la stessa argomentazione è stata usata dal ministero degli esteri greco Nikos Kotzias, che ha sostenuto che i “sì”  al referendum, in effetti, “rappresentano la maggioranza,  nonostante la bassa affluenza, perché la Macedonia non ha 1,8 milioni di votanti iscritti alle liste elettorali, ma appena 1,2 milioni,  dato che 300.000 persone hanno lasciato il paese da quando le liste sono state aggiornate,  20 anni fa”. Possiamo facilmente dimostrare la fallacia di questa affermazione,  che cozza con la realtà,  se diamo un’occhiata ai risultati delle ultime elezioni parlamentari macedoni (dicembre 2016), nelle quali l’affluenza è stata appena sotto gli 1,2 milioni di votanti (1.191.832 per essere precisi) pari, ufficialmente, al 66,79%. Se dovessimo credere a Kotzias e alla Merkel (che ai tempi non sollevarono alcuna obiezione) dovremmo pensare che l’affluenza alle elezioni del 2016 sia stata del 99% - un numero da fare invidia a qualsiasi dittatore totalitario. D’altro canto, dal momento che quelle elezioni produssero il “risultato desiderato”, permettendo al governo pesantemente pro-NATO/UE guidato da Zoran Zaev di formarsi, esse erano automaticamente “valide” agli occhi degli alti prelati della democrazia a Bruxelles, Berlino, Londra e Washington.

 

Non occorre dire che Zaev si è unito alla farsa dei suoi protettori occidentali, descrivendo il referendum come un “successo democratico”, e annunciando che cercherà il supporto del parlamento macedone per emendare la costituzione e ottenere che l’accordo con la Grecia venga ratificato (secondo il cosiddetto Prespa Agreement, il Parlamento macedone deve adottare le necessarie riforme costituzionali entro la fine del 2018), così che il Parlamento greco possa fare lo stesso, cosa che sigillerebbe l’accordo. Tuttavia, Zaev e i suoi alleati politici albanesi sono molto lontani dalla maggioranza dei due terzi necessaria (possono contare su 71 deputati,  9 in meno degli 80 necessari), e dovranno indire nuove elezioni se non dovessero trovarli velocemente.

 

Tuttavia, non dimentichiamoci di dire che Zaev sosteneva cose molto diverse prima del referendum, assicurando che “i cittadini prenderanno la decisione” e che il parlamento avrebbe votato i necessari cambiamenti costituzionali solo se il referendum fosse stato un successo. Ma questo era prima, quando c’era grande fiducia che la solita combinazione di pressioni occidentali, soldi e dominio totale dei media avrebbe fatto il lavoro sporco. Poi il 30 settembre la realtà l’ha colpito…

 

Tuttavia, tra i falsi sorrisi e pubbliche manifestazioni di fiducia della folla pro-NATO/UE, c’è un palpabile senso di disagio nell’aria. Come è scritto nell’editoriale di Deutsche Welle, “la bassa affluenza del referendum macedone è un brutto punto di partenza per i futuri sviluppi del paese”. E secondo DW in serbo, un commento del Frankfurter Allgemeine Zeitung ha messo in guardia che “I politici che in altri frangenti parlano incessantemente di democrazia come di un “valore speciale” non dovrebbero chiedere al parlamento di Skopje di accettare i risultati del voto”. In altre parole, il popolo macedone (ossia – una vasta maggioranza della maggioranza della popolazione slava) ha “votato coi piedi” (rimanendo a casa NdT) e ha rigettato l’accordo, e nessuna nuova elezione parlamentare, qualsiasi sia il risultato, piò cambiare questo fatto, spiacevole ma immutabile. Questa sola cosa delegittimerà qualsiasi altro tentativo occidentale di “manipolare il consenso” cercando di spingere l’accordo attraverso l’attuale o il futuro parlamento – anche se, come sappiamo, la NATO non ha in ogni caso grande considerazione per i referendum, mentre la UE non disdegna di far ripetere ai cittadini il voto il numero sufficiente di volte per ottenere il “giusto” risultato.

 

Ma l’occidente ha perso altra legittimazione in Macedonia – ha danneggiato la propria reputazione, forse irrimediabilmente. Per usare le parole dell’ex consigliere presidenziale Cvetin Chilimanov, “L’occidente ci ha umiliato… i macedoni hanno rigettato quest’aggressione psicologica dei media, dei politici e della propaganda contro le persone, e questa è la tragedia odierna, che una larga maggioranza di persone che sono state genuinamente favorevoli all’occidente ha cambiato idea e ha smesso di guardare all’ovest come a qualcosa di democratico, progressista e di successo… ecco la ragione del boicottaggio. Hanno fatto pressione sulla Macedonia, un paese che è sempre stato aperto ai legami con l’occidente, ma che non voleva fare un disgustoso compromesso e umiliarsi di fronte ai paesi limitrofi, di fronte ai paesi occidentali. Non abbiamo capito perché l’umiliazione era necessaria per poter diventare un membro dell’Europa. Quel che è peggio è forse che questo è ormai quello che pensa la maggioranza silenziosa del popolo, che non dimenticherà questo insulto e questo attacco alla Macedonia”.

 

 

16/10/18

Sapir - L'Italia presenta un bilancio espansivo e si prepara al conflitto con l'UE

L'economista francese Jacques Sapir presenta un quadro della possibile evoluzione dello scontro in atto tra il governo italiano e le istituzioni europee: i prossimi passi e le possibili mosse delle parti da qui alla definitiva approvazione del bilancio a fine anno, quando potrebbe essere formalmente avviata una procedura di infrazione nei confronti dell'Italia, sino a possibili nuove elezioni il prossimo anno.  Il futuro appare molto incerto perché non è chiaro quanto le istituzioni europee intendano davvero forzare la situazione. Quello che invece sembra abbastanza sicuro è la volontà del governo di andare avanti e riconfermare la sua scelta, a dire il vero assai razionale, di portare avanti una politica economica anticiclica di rilancio, indispensabile in un paese come l'Italia, ancora al di sotto dei livelli di Pil precedenti alla crisi. Anche se una politica di questo tipo è contraria agli interessi e all’ideologia di Bruxelles.

 

 

di Jacques Sapir, 13 ottobre 2018

 

La presentazione del bilancio italiano sta sollevando un problema di compatibilità con le istituzioni europee (sulla misura del deficit) e una vivace polemica all'interno del Paese. Ormai è chiaro che ci stiamo dirigendo verso una grave crisi tra l'Unione europea e l'Italia.

 

Un bilancio orientato verso le classi disagiate

 

Il governo italiano ha infine optato per il limite di deficit del 3,0% del PIL, fermandosi al 2,4% per il 2019. Questo obiettivo è in totale contrasto con il quadro delle finanze pubbliche stabilito per l'Italia dall'Unione europea, che fissa il deficit massimo attorno allo 0,7%.

 

Ancora più importante, nelle dichiarazioni del governo italiano non si fa menzione alcuna di un obiettivo di bilancio in pareggio per i prossimi tre anni. Di fatto, ciò significa che, se ci atteniamo alle regole di bilancio dell'UE, dovrebbero essere finanziati circa 24 miliardi di euro che in realtà non ci sono. Di questa somma, 12,4 miliardi saranno utilizzati per ridurre drasticamente gli aumenti dell'IVA, come promesso in campagna elettorale; 1,5 miliardi di euro dovrebbero essere destinati alla ristrutturazione bancaria per compensare le perdite dei risparmiatori e 8 miliardi sono previsti per finanziare la cancellazione della legge sulle pensioni e i pensionamenti anticipati per circa 400.000 lavoratori. Inoltre, 10 miliardi di euro saranno spesi per redditi a 6,5 milioni di persone; infine, è necessario calcolare un calo della pressione fiscale equivalente ad una diminuzione delle entrate fiscali dai 3,5 a 4,5 miliardi di euro. Questo bilancio è chiaramente un bilancio di stimolo, che combina il sostegno alla domanda e le riduzioni di imposta. Il fatto che la maggior parte di queste diminuzioni si riferisca all'IVA mostra la dinamica sociale di questo bilancio. Dei 24 miliardi di deficit aggiuntivo previsto nel progetto di bilancio, circa 20 miliardi dovrebbero essere destinati alle famiglie più povere e alle classi medie.

 

Cronologia degli eventi

 

La decisione del governo è importante. Inoltre, questa decisione è stata pienamente confermata dal ministro dell'Economia, Giovanni Tria, che era stato presentato come un sostenitore delle regole dell'UE. O ci si era sbagliati sulle idee di Tria, oppure Tria avrà ceduto ai desideri di Di Maio e Salvini.

 

Tuttavia, la presentazione degli obiettivi di bilancio è solo il primo passo di un procedimento più complesso. L'ufficio parlamentare di bilancio, l'UPB, che è un'agenzia indipendente dal governo, deve esprimere il proprio parere. Probabilmente sarà negativo. Ma il governo può ignorare questo parere consultivo.

 

Il Parlamento italiano probabilmente approverà il bilancio, perché il governo dispone di una maggioranza sufficiente. Il Presidente Mattarella, che ha già lanciato un avvertimento in proposito, dovrebbe quindi dichiarare che il bilancio non è compatibile con il quadro dei conti pubblici (che in realtà è solo una fotocopia del quadro di bilancio europeo) e dovrebbe respingerlo. Tuttavia, la procedura prevede che il governo possa richiedere un nuovo voto in Parlamento. Quest'ultimo dovrebbe quindi riconfermare il proprio sostegno al bilancio. A questo punto, il Presidente non avrebbe altra scelta che firmarlo. Solo in un secondo momento la Corte costituzionale potrebbe respingere il bilancio in quanto incostituzionale. Tuttavia, per motivi pratici ciò potrebbe richiedere diversi mesi, ma soprattutto provocherebbe una grave crisi politica in Italia, che probabilmente porterebbe a nuove elezioni. Queste ultime, secondo gli attuali sondaggi, potrebbero vedere una forte vittoria del M5S e della Lega (accreditati rispettivamente al 27% e al 33% delle intenzioni di voto). Ciò potrebbe comportare una maggioranza dei due terzi in Parlamento, che consentirebbe al governo di procedere a una revisione della Costituzione.

 

Lo scontro con l'UE

 

Entro il 15 ottobre, il governo dovrà inviare il disegno di legge di bilancio a Bruxelles. Il 20 ottobre il bilancio verrà ufficialmente reso pubblico, al di là di quelli che sono semplicemente gli obiettivi di disavanzo. Il 22 ottobre la Commissione invierà una prima lettera al governo italiano, in cui probabilmente si dichiarerrà preoccupata della situazione e proporrà una proroga di una settimana, per apportare gli adeguamenti necessari e ripresentare nuovamente il progetto. Se il governo dovesse modificare il bilancio (come accaduto nel 2014), la situazione tornerebbe normale e conforme. Se il governo, tuttavia, mantiene la sua proposta di bilancio - e le ultime dichiarazioni vanno in quella direzione - il conflitto sarà inevitabile. Se, pertanto, il governo italiano non dà seguito alle riserve della Commissione europea e mantiene gli obiettivi e il bilancio originari, allora il 29 ottobre la Commissione procederà a respingerlo ufficialmente.

 

Nelle prossime tre settimane, tuttavia, il governo avrebbe ancora l'opportunità di modificare il bilancio, ma la volontà del governo di attuare i suoi piani, qualunque sia l'opinione della Commissione europea, sembra essere ben ferma. Di conseguenza, il 21 novembre i pareri ufficiali sui progetti di bilancio per i diversi paesi saranno presentati al Comitato economico e finanziario, il Comitato Ecofin per i paesi dell'eurozona. Il Comitato potrebbe quindi formulare una raccomandazione formale in base al cosiddetto articolo 126, paragrafo 3, il che rappresenta il primo passo per avviare la procedura per disavanzo eccessivo nei confronti dell'Italia. Altri passi formali dovrebbero seguire. Nel caso di un dibattito politico, e ci sarà certamente un dibattito importante perché l'Italia nel Comitato economico e finanziario ha degli alleati, dovrebbe comunque esserci il tempo sufficiente per consentire ai ministri di prendere le loro decisioni all'inizio di dicembre e poi al Consiglio europeo alla fine dell'anno. Ma la decisione dovrebbe essere confermata all'inizio del 2019: una dichiarazione di non conformità e il probabile avvio della procedura per i disavanzi eccessivi.

 

Il futuro incerto

 

L'Italia sarà quindi sottoposta a molte pressioni, sia da parte delle autorità dell'Unione europea che dal suo interno (la stampa attualmente è schierata contro il governo) che dai mercati finanziari. Ma il governo italiano sembra essere preparato a resistere. Può contare sui presidenti delle due commissioni economiche della Camera e del Senato (Claudio Borghi e Alberto Bagnai), le cui convinzioni euroscettiche sono ben note, sui membri del governo (da Salvini a Savona), su un certo sostegno all'estero, ma anche, cosa più importante, sul consenso della maggioranza degli italiani.

 

Il fatto che Stefano Fassina, dirigente storico della sinistra italiana, che si era dimesso dal governo rompendo con il PD di Matteo Renzi, e poi è stato eletto alla Camera sotto la bandiera di Liberi e Uguali, abbia annunciato la sua partecipazione a un convegno organizzato da Alberto Bagnai (“Euro, mercati, democrazia 2018 - Sovrano sarà lei!”, vedi il sito dell’associazione a/simmetrie, ndt) è un segno che questo sostegno potrebbe benissimo essere trasversale alle diverse forze politiche.

 

15/10/18

Bloomberg: i populisti italiani combattono Bruxelles per mettere fine all’austerità

Il governo italiano sta tentando di sfidare l’imposizione dell’austerity da parte della UE, pur proponendo una manovra solo moderatamente espansiva, che prevede surplus primario di bilancio e deficit complessivo inferiore a quanto dichiarato dalla Francia. A questa manovra l’UE ha risposto duramente, ma difficilmente potrà opporsi con successo: l’attuale governo gode di ampio consenso popolare, diversamente da quanto avvenne nel 2011, e ogni scontro con Bruxelles per rispettare le promesse elettorali accresce anziché diminuire la popolarità del governo gialloverde. Con le elezioni europee alle porte, la UE sta giocando una pericolosa partita, che rischia di poter solo perdere.

 

 

Di John Follain, 10 ottobre 2018

 

 

I populisti italiani si stanno preparando a stappare il prosecco. Dopo aver preso il potere solo quattro mesi fa, gli strani alleati Luigi Di Maio del partito anti-establishment M5S e Matteo Salvini della Lega anti-immigrati, hanno ingaggiato una battaglia contro Bruxelles che potrebbero tranquillamente vincere.

 

L’Italia e gli altri 18 paesi che usano l’euro come moneta hanno tempo fino al 15 ottobre per presentare la loro manovra finanziaria alla Commissione Europea perché venga approvata. La “manovra del popolo” che DI Maio e Salvini stanno costruendo tenta di soddisfare le costose promesse elettorali, a discapito delle regole dell’Unione Europea che mettono limiti ai deficit e al debito pubblico. Se la BCE dovesse cedere, Roma porterebbe a casa uno stimolo di stampo neo-Keynesiano, sfuggendo all’austerità dominante. Se invece dovesse ricevere un semaforo rosso, gli italiani verrebbero redarguiti, cosa che il governo può sfruttare per consolidare le proprie posizioni sfruttando la rabbia della base elettorale e rinfocolando l'offensiva contro l’élite di Bruxelles. “Il governo populista non può perdere” dice Giovanni Orsina, direttore dell’Università degli studi sociali Luiss-Guido Carli di Roma. “Se l’UE dice di no alla manovra, è manna dal cielo – imposterebbero su questo la loro campagna per le elezioni europee del prossimo maggio”.

 

Sulla carta, la disputa è sui soldi per cominciare a onorare le promesse elettorali. Il Movimento 5 Stelle ha promesso un reddito di base per i poveri di 780€ al mese, mentre la Lega ha promesso di tagliare le tasse e di abbassare l’età di pensionamento. I piani fiscali del governo prevedono un deficit del 2,4% del PIL per il 2019, tre volte rispetto a quanto avrebbe voluto la precedente amministrazione. Nonostante le pressioni della UE e degli investitori, che hanno ripetutamente spinto al rialzo gli interessi sui bond italiani fino ai massimi da diversi anni, la coalizione al potere non ha ceduto su questo punto, accettando però di abbassare gli obiettivi di deficit per gli anni seguenti.

 

L’Italia si sta ribellando all’austerità, seguendo le orme del governo socialista portoghese, che ha alzato i minimi salariali e aumentato i salari del settore pubblico, facendosi beffe dello spirito del pacchetto di salvataggio da 78 miliardi ottenuto dalla UE e dal Fondo Monetario Internazionale nel 2011. Anche la Francia e la Spagna hanno giocato al tira e molla con le regole fiscali UE, senza per questo incorrere nelle sanzioni fino allo 0,2 percento del PIL che Bruxelles può richiedere ai paesi che eccedono i limiti in maniera reiterata.

 

Guntram Wolff, direttore del think-tank Bruegel di Bruxelles, dice che si tratta della più grande prova di forza riguardo a una manovra di un paese UE sin dalla crisi debitoria dell’eurozona che iniziò in Grecia, e poi si diffuse in Spagna e Portogallo. “La Francia ha sempre cooperato con Bruxelles, e anche il Portogallo, il dialogo c’era” ha detto. “La cosa più importante è che l’Italia ha un debito più alto e una crescita della produttività minore rispetto alla Francia” – il che significa che la sua situazione è più “fragile”.

 

Attestandosi sopra il 130%, il rapporto debito/PIL italiano è il secondo più alto dell’eurozona dopo quello della Grecia. “Dobbiamo fare di tutto per evitare un’altra crisi greca – questa volta in Italia”, ha detto il Presidente della Commissione Europea, Jean Claude Juncker, il primo di ottobre.

 

Per i populisti italiani, la battaglia sulla manovra è il simbolo del loro tentativo di strappare il controllo a Juncker e al suo esercito di eurocrati e restituirlo ai governi delle capitali europee, un tema destinato a risuonare in tutto il continente mentre ci si avvicina alle elezioni per il Parlamento Europeo del prossimo anno. “Abbiamo consegnato troppo potere a Bruxelles. Dobbiamo essere un paese leader, non un paese che si fa guidare” ha detto Michele Geraci, sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico. “Vogliamo assicurarci che le regole europee sul commercio, l’immigrazione e altre questioni rispondano agli interessi italiani”.

 

I Cinque Stelle e la Lega sono saliti al potere sull’onda del malcontento degli elettori, che hanno sopportato una serie di primi ministri impopolari messi al comando dopo negoziazioni politiche – incluso l’economista Mario Monti, che è stato in carica dal 2011 al 2013 per guidare il paese quando la crisi del debito era più acuta. “Gli elettori si ribellano contro la cessione di sovranità a poteri che hanno imposto l'austerità e hanno raccontato che non si poteva fare niente per limitare l’immigrazione”  ha detto Orsina. “Ecco perché la classe dirigente tradizionale sta pagando un prezzo più salato che in altri paesi.” La frustrazione è aumentata in anni di politiche recessive e ha prodotto quello che sembrava politicamente impossibile: unire la Lega di destra, la cui base elettorale è il ricco nord industriale, con i Cinque Stelle, un movimento nato sul web che ottiene la sua forza dal depresso sud.

 

I membri dell’establishment italiano stanno organizzando una resistenza silenziosa. Il Presidente Sergio Mattarella, un 77enne già giudice della corte costituzionale, ha formato un’alleanza con il Ministro delle Finanze Giovanni Tria nel tentativo di imporre limiti di spesa al governo [e qui vediamo i danni dell’informazione nazionale all’opera: che Tria sia mai stato contro i partiti di governo è tutto da dimostrare NdVdE]. Se la moral suasion non fosse sufficiente, Mattarella potrebbe esercitare i poteri a lui accordati dalla Costituzione del 1948 e rifiutarsi di firmare la legge finanziaria – anche se potrebbe rimandarla al parlamento una volta sola.

 

Più che Bruxelles, sono i mercati finanziari che hanno il potere di deludere le ambizioni dei populisti italiani, specialmente in un momento in cui la Banca Centrale Europea sta riducendo i suoi acquisti di obbligazioni. Salvini si diverte regolarmente a sfidare gli investitori “mi mangerò lo spread a colazione” ha detto, con la sua consueta retorica, lo scorso 30 settembre – riferendosi allo spread tra le obbligazioni a 10 anni italiane e tedesche, termometro della situazione del mercato.

 

Nonostante tutte le prese di posizione e le parole dure, Carsten Brzeski, ex funzionario della Commissione Europea, si aspetta che l’impasse tra Roma e Bruxelles venga risolto in maniera amichevole. “Ci sarà un dare-avere e alla fine troveranno un compromesso, un accordo” dice Brzeski, che ora è il capo economista di ING-DiBa AG, la filiale tedesca del gruppo bancario olandese ING.

 

Nel frattempo, aspettiamoci altri scontri verbali pirotecnici. Seduto di fianco alla nazionalista francese Marine Le Pen a un evento di Roma l’8 ottobre, Salvini ha lanciato una bordata contro Juncker e Moscovici, il capo della politica economica UE. “Siamo contro i nemici dell’Europa – Juncker e Moscovici – chiusi dentro i loro bunker di Bruxelles” ha detto.

 

CONCLUSIONE – l’imminente scontro tra Roma e Bruxelles riguardo la manovra italiana, può fornire munizioni ai nazionalisti mentre ci avviciniamo alle elezioni per il Parlamento Europeo.