Zero Hedge riporta un articolo di The Saker, un blog di un analista militare americano di alto livello, tradotto da volontari in molte lingue e molto seguito soprattutto durante la crisi in Ucraina, in cui si commentano le proteste anti-Trump in corso negli USA come una grottesca riedizione delle rivoluzioni colorate, questa volta in casa propria, contro le proprie istituzioni e contro il popolo americano. L'autore si augura che il Presidente eletto possa rendersi pienamente conto del rischio che corre, di essere rovesciato, e riesca a contrattaccare duramente e rapidamente, anche agitando i numerosi scheletri nell'armadio dello Stato Profondo, non ultimo l'attacco dell'11/9, di cui molti sospettano ma nessuno osa parlare apertamente.
di The Saker, 28 gennaio 2017
In Russia gira una battuta del tipo: "Domanda: perché non ci può essere una rivoluzione colorata negli Stati Uniti? Risposta: perché non ci sono ambasciate USA negli States".
Divertente, forse. Ma errata. Credo infatti che proprio ora negli Stati Uniti sia in corso un tentativo di rivoluzione colorata.
La rivista Politico sembra pensarla nello stesso modo. Guardate questa loro recente copertina:
Sebbene già ad ottobre dello scorso anno avessi previsto che "gli USA stavano per affrontare la peggiore crisi della loro storia" - eravamo a un mese dalle elezioni presidenziali - ora devo ammettere di essere sorpreso dall'intensità dello scontro che si sta svolgendo davanti ai nostri occhi. È evidente che i Neocon hanno dichiarato guerra a Trump e alcuni commentatori, come Paul Craig Roberts, ritengono che Trump stia rendendo loro pan per focaccia (qui in italiano su Vocidallestero). Spero abbia ragione.
Vediamo un esempio abbastanza eloquente:
Le agenzie americane di intelligence stanno investigando sul loro stesso capo. Sì, secondo i più recenti report l'FBI, la CIA, la National Security Agency e il Dipartimento del Tesoro starebbero investigando sulle conversazioni tra il generale Flynn e l'ambasciatore russo Sergey Kislyk. Secondo Wikipedia, il generale Flynn è stato:
- Direttore dell'Agenzia di Intelligence per la Difesa;
- Membro associato del comando per l'Intelligence, la Sorveglianza e la Ricognizione;
- Presidente del consiglio dell'Intelligence Militare;
- Assistente direttore della National Intelligence;
- Funzionario senior dell'Intelligence per il Comando delle Operazioni Speciali.
È anche consigliere di Trump per la sicurezza nazionale. Il altre parole, il suo nulla osta di sicurezza è stratosferico, e presto diventerà il capo di tutti i servizi di intelligence statunitensi. Nonostante ciò, quegli stessi servizi di intelligence stanno indagando su di lui per i suoi contatti con l'ambasciatore russo. È assolutamente sorprendente. Perfino nella vecchia Unione Sovietica il presunto onnipotente KGB non poteva mettere sotto indagine i membri del Comitato Centrale del Partito Comunista senza avere una speciale autorizzazione del Politburo (e questo era un grosso errore a quanto ritengo, ma ora non è questo che importa). Questo significa che 500 membri al vertice dello Stato Sovietico non potevano essere messi sotto indagine dal KGB. Inoltre, la subordinazione del KGB al Partito era tale che per i reati normali il KGB non poteva indagare sui membri dell'intera nomenklatura sovietica, che contava circa 3 milioni di persone (un errore ancora più grande!).
Ma nel caso di Flynn, molte agenzie di sicurezza USA hanno potuto decidere di svolgere indagini su un uomo che dovrebbe essere considerato, secondo tutti i parametri, tra i cinque maggiori funzionari dello Stato, e che evidentemente ha la fiducia del nuovo Presidente. A quanto pare questo non scatena alcuna indignazione.
Secondo la stessa logica, le tre agenzie di cui sopra potrebbero indagare Trump per le sue conversazioni telefoniche con Vladimir Putin.
E questo, a pensarci bene, potrebbero farlo anche abbastanza presto...
Ed è assolutamente folle, perché è ormai evidente che l'insieme dell'Intelligence statunitense sta prendendo gli ordini dai Neocon e dallo Stato profondo, non dal Presidente. Queste agenzie stanno ora agendo contro gli interessi del nuovo Presidente.
Nel frattempo, le brigate di Soros hanno già scelto il loro colore: il rosa. Stiamo vedendo la "rivoluzione delle pussyhat", come spiegato su questo sito. E se pensate che si tratti solo di una piccola frangia di femministe pazze, vi sbagliate. Secondo le vere femministe pazze il "pussyhat" sarebbe un'allusione troppo sottile; loro preferiscono esprimersi in modo meno ambiguo, come mostra l'immagine qui sotto:
Tutto questo sarebbe abbastanza divertente, sebbene anche un po' nauseante, se non fosse per il fatto che i media, il Congresso e Hollywood sono tutti schierati con i "100 giorni di Resistenza contro Trump", che sono cominciati con una - cito letteralmente - "festa da ballo per froci" a casa di Mike Pence.
Tutto questo sarebbe divertente, se non fosse per la gravità con la quale i grandi media stanno descrivendo queste "proteste", altrimenti assai patetiche.
Guardate ora come MCNBS riporta beatamente questi eventi.
Ascoltate bene ciò che Moore dice al minuto 2:00. Dice che "celebreranno il fatto che Obama è ancora il Presidente degli Stati Uniti", e la presstitute [neologismo che unisce le parole "stampa" e "prostituta", NdT] gli risponde "sì, lo è", e non una ma ben due volte.
Di cosa stanno parlando?! In che senso Obama è ancora il Presidente?!
Per quale ragione la sicurezza nazionale e l'FBI non stanno indagando MCNBC e Moore per ribellione e sedizione?
Fino ad ora le proteste non sono state eccessive, ma sono avvenute in numerose città americane e sono state riportate a profusione dai media.
Non cascateci, queste proteste non sono più spontanee di quanto lo fossero quelle in Ucraina. Qualcuno sta finanziando tutto questo, qualcuno lo sta organizzando. Stanno usando tutti i trucchi che conoscono.
Altro esempio:
Vi ricordate il bel viso di Nayirah, l'infermiera del Kuwait che aveva detto al Congresso di aver visto nel suo paese i soldati iracheni prendere i neonati e gettarli via dagli incubatori (infermiera che poi si è scoperto essere figlia di Saud Al-Sabah, l'ambasciatore del Kuwait negli Stati Uniti)? Vi ricordate il bel viso di Neda, che è "morta in diretta" in Iran? Bene, lasciate che ora vi presenti Bana Alabe, che ha scritto una lettera al Presidente Trump; ovviamente i media sono entrati in possesso della lettera e ora lei è diventata "la faccia dei bambini siriani".
Volete altre prove?
Bene, cliccate qui e guardate un po' di caricature e fumetti anti-Trump disegnati dal bravo Colonel Cassad. Alcuni di questi sono abbastanza notevoli. Da questa nausante collezione ne ho selezionati giusto due:
Il primo accusa chiaramente Trump di essere nelle mani di Putin. Il secondo rappresenta Trump come l'erede di Adolf Hitler e suggerisce chiaramente che Trump voglia riaprire Auschwitz. Tradotto in parole semplici, questo manda un duplice messaggio: Trump non è il Presidente legittimo degli Stati Uniti e Trump è il male assoluto.
Qui si va ben oltre il tipo di caricature che abbiamo sempre visto fare sui Presidenti precedenti.
Elencare tutti gli esempi di cui sopra ha lo scopo di suggerire questo: lungi dall'accettare la sconfitta, i Neocon e lo Stato profondo statunitense hanno deciso, come sempre, di alzare la posta in gioco e di imbarcarsi in una vera e propria "rivoluzione colorata", che potrà terminare solo con l'impeachment, la cacciata o la morte di Donald Trump.
Una delle caratteristiche più sorprendenti di questa rivoluzione colorata contro Trump è il fatto che a quelli che ci stanno dietro non importa assolutamente nulla del danno che la loro guerra contro Trump arrecherà all'istituzione del Presidente degli Stati Uniti e, in definitiva, agli Stati Uniti stessi. Il danno sarà infatti immenso, e il punto è il seguente: il Presidente Trump sta correndo il grossissimo rischio di essere rovesciato, e la sua unica speranza di resistere è di contrattaccare duramente e rapidamente.
L'altra cosa sorprendente è il nefasto ruolo che la Gran Bretagna sta giocando in tutto questo processo: tutto il fango contro Trump risale in definitiva al Regno Unito. In che modo? Semplice. Vi ricordate come, almeno formalmente, la CIA e la NSA non abbiano il diritto di spiare i cittadini statunitensi, così come i MI6 e GCGQ britannici non hanno il diritto di spiare i cittadini della Gran Bretagna? Entrambe le parti hanno escogitato un semplice stratagemma: si scambiano i servizi; la CIA e la NSA spiano i britannici, il MI6 e GCHQ spiano gli americani. Poi si scambiano le informazioni (pare che da quando Obama è salito al potere tutte queste misure siano diventate obsolete, e ora tutti siano liberi di spiare direttamente chi vogliano, inclusi i propri stessi cittadini). I Neocon statunitensi e lo Stato profondo stanno ora usando i servizi speciali britannici per produrre una montagna di fango contro Trump, che poi riportano come informazioni di "intelligence", e che possono essere usati dal Congresso per avviare delle indagini. Semplice ed efficace.
Il punto è sempre lo stesso: il Presidente Trump sta correndo il grossissimo rischio di essere rovesciato, e la sua unica speranza di resistere è di contrattaccare duramente e rapidamente.
Può farlo?
Finora ho suggerito ripetutamente che Trump stesse contrattando con i Neocon americani nello stesso modo in cui Putin ha contrattato con gli oligarchi in Russia: li porta dalla sua minacciando accuse di evasione fiscale, corruzione, cospirazione, ostruzione della giustizia, ecc. Cioè tutte quelle belle cose che lo Stato profondo americano ha fatto per anni. Il Pentagono e le tre agenzie di intelligence sono probabilmente le entità più corrotte del pianeta, e dato che non sono mai state messe in discussione, figurarsi condannate, per la loro corruzione, sono diventate straordinariamente disinvolte nel loro modo di fare le cose, arrivando in pratica a contare sul fatto che la stessa Casa Bianca le tira fuori dai guai in caso di un qualsiasi problema. La maggiore arma usata da questi circoli sono le tante leggi sulla segretezza che le proteggono dallo scrutinio del Congresso e dell'opinione pubblica. Ma è qui che Trump può usare la sua arma più potente: il generale Flynn che, come ex direttore della DIA [Agenzia di Intelligence per la Difesa] e attuale consigliere presidenziale per la sicurezza nazionale, ha totale accesso ai dati. E se non lo ha, lo può creare se necessario, inviando delle forze speciali per assicurare la "collaborazione".
Arrivati a questo punto, però, inizio a pensare che anche questo non sia abbastanza. Trump ha un'arma ancora più potente da scatenare contro i Neocon: l'11 settembre.
Che Trump lo sapesse già o no, ora è consigliato da gente come Flynn, che deve sapere da anni che l'11 settembre ha avuto tutta una gestione interna. E se anche il numero di persone coinvolte nelle operazioni legate all'11 settembre fosse relativamente piccolo, il numero di persone che ha messo la propria credibilità politica e morale dietro la narrazione ufficiale dell'11 settembre è immenso. Voglio essere più chiaro: sebbene l'11 settembre sia stata una operazione dello "Stato profondo" americano (probabilmente subappaltata agli israeliani per l'esecuzione), tutta Washington è stata da allora "complice a posteriori dell'11 settembre", aiutando a mantenere la copertura. Se viene tutto portato alla luce, migliaia di carriere politiche si schianteranno e bruceranno nello scandalo.
L'11 sttembre è stato un crimine collettivo per eccellenza. Pochi uomini l'hanno eseguito, ma migliaia, forse decine di migliaia hanno usato le proprie posizioni per mantenere una copertura e impedire che fosse svolta qualsiasi vera indagine. Sono TUTTI colpevoli di ostruzione della gisutizia. Aprendo una nuova indagine sull'11 settembre, che sia però gestita dal Dipartimento della Giustizia e non dal Congresso, Trump potrebbe mettere una pistola alla tempia di qualsiasi politico, e minacciare di premere il grilletto se non smetteranno con questo tentativo di rovesciarlo. Ciò di cui Trump ha bisogno è di uomini affidati e fedeli a capo dell'FBI, di un uomo con "le mani pulite, la mente fresca e il cuore ardente" (per usare l'espressione del fondatore della Polizia Segreta Sovietica, Felix Dzerzhinsky). Quest'uomo si troverà immediatamente in una situazione di pericolo fisico, dovrà quindi essere un uomo di grande coraggio e determinazione. Certo, quest'uomo può anche essere una donna - l'equivalente americano del procuratore russo Natalia Poklonskaia.
Capisco perfettamente il pericolo che comporterebbe l'uso dell'arma "11 settembre"; porterebbe ovviamente a un immenso contrattacco da parte dei Neocon e dello Stato profondo. Ma il punto è questo: loro sono già avviati a determinare l'impeachment, la cacciata o l'assassinio di Donald Trump. E, come disse una volta Putin durante un'intervista: "se ti accorgi che la lotta è inevitabile, sii tu il primo a colpire!".
Pensate che sia tutta un'esagerazione? Considerate la posta in gioco.
Primo, quantomeno, c'è la stessa presidenza Trump: i Neocon e lo Stato profondo non permetteranno a Trump di realizzare le sue promesse del programma elettorale. Lo saboteranno, lo ridicolizzeranno e daranno una rappresentazione distorta di tutto ciò che fa, anche se egli dovesse conseguire dei grandi successi.
Secondo, sembra che ora il Congresso abbia il pretesto per aprire diverse indagini su Donald Trump. Se è così, sarà facile per il Congresso ricattare Trump e minacciarlo costantemente di una rappresaglia politica se lui non si "attiene al programma".
Terzo, la furiosa persecuzione di Trump da parte dei Neocon e dello Stato profondo sta indebolendo la stessa istituzione della Presidenza. Per esempio, l'ultima folle idea lanciata da alcuni politici è di "proibire al Presidente degli Stati Uniti di usare l'arma nucleare senza l'autorizzazione del Congresso, a meno che gli Stati Uniti non siano sotto attacco nucleare". Da un punto di vista tecnico è un non-senso, ma ciò che fa è di mandare un segnale al resto del pianeta: "Noi, il Congresso, crediamo che il nostro Comandante in Capo non sia affidabile nella sua gestione dell'arsenale nucleare". Non importa che loro stessi si sarebbero invece fidati di Hillary con le mani sulla bomba atomica, e non importa che Trump potrebbe usare solo armi convenzionali per avviare una eventuale guerra nucleare (per esempio, tramite un attacco convenzionale contro il Cremlino). Ciò che stanno dicendo è che il Presidente degli Stati Uniti è un lunatico di cui non ci si può fidare. Come ci si può poi aspettare che il Presidente sia preso sul serio su qualsiasi altro tema?
Quarto, riuscite a immaginarvi cosa accadrebbe se le forze anti-Trump avessero successo? Non sarebbe solo la distruzione definitiva della democrazia interna degli Stati Uniti. Anche il rischio della guerra, e della guerra nucleare, salirebbe alle stelle.
In gioco c'è molto più delle meschine faccende interne degli Stati Uniti.
Ogni volta che penso a Trump e ogni volta che lo guardo al telegiornale ho sempre lo stesso angosciato pensiero: Trump avrà mai l'intelligenza di accorgersi che è sotto attacco, e avrà il coraggio di contrattaccare abbastanza duramente?
Non lo so.
Ripongo molta speranza nel generale Flynn. Sono fiducioso che lui capisca bene il quadro d'insieme e sappia esattamente ciò che sta avvenendo. Ma non sono sicuro che abbia abbastanza seguito nelle forze armate per tenerle dalla sua parte in caso scoppi la crisi. In generale le persone delle forze militari diffidano di quelle dell'intelligence. La mia speranza è che Flynn abbia degli alleati leali presso il SOCOM e il JSOC, i quali, in definitiva, hanno l'ultima parola nel momento in cui si debba decidere un'occupazione della Casa Bianca. La buona notizia è che a differenza dei soliti militari, quelli delle forze speciali e dell'intelligence sono di solito piuttosto vicini e abituati a lavorare insieme (i militari normali diffidano pure delle forze speciali). Il SOCOM e il JSOC sanno anche come garantire che la CIA non si rivolti contro.
Ultimo ma non meno importante, la mia speranza maggiore è che Trump usi la stessa arma che Putin ha già usato contro l'élite russa: il sostegno del popolo. Ma per avere questo, Twitter non basta. Trump ha bisogno di una cosa equivalente a "Russia Today", deve aprire un suo canale televisivo. Certo, questo è molto difficile e prenderebbe un sacco di tempo. Potrebbe dover inziare con un canale solo su Internet, ma se ci sono abbastanza soldi può riuscire ad andare oltre. Proprio come Russia Today, questo canale dovrebbe essere trans-nazionale, politicamente vario (includere quindi anche figure anti-Impero a cui Trump non piace), e includere delle celebrità.
Uno dei molti errori fatti da Yanukovich in Ucraina è stato che non ha osato prendere in mano gli strumenti legali del potere per fermare i neo-nazisti. E nella misura in cui li ha usati è stato un disastro (ad esempio i poliziotti anti-sommossa che hanno picchiato gli studenti che manifestavano). Dopo avere ascoltato alcune interviste di Yanukovich e di persone a lui vicine durante le ore cruciali, è sembrato che Yanukovich non avesse proprio la percezione di avere il diritto morale di usare la violenza per fermare le rivolte. Non sapremo mai se a trattenerlo siano stati dei principi morali o la semplice cordardia. Ciò che è sicuro è che ha tradito il suo popolo e la sua nazione nel momento in cui si è rifiutato di difendere la vera democrazia e ha lasciato che la "piazza" si sostituisse alla democrazia. Certo, la vera oclocrazia [governo della "folla", NdT] non esiste. Tutte le folle sono sempre state controllate da una qualche forza dietro le quinte, che le scatena fino a quando non raggiunge i propri scopi.
Le forze che stanno attualmente cercando di portare all'impeachment, alla cacciata o all'assassinio di Trump sono un pericolo chiaro e immediato per gli Stati Uniti come paese e per la Repubblica Federale. Sono, per usare una parola russa, un tipo di opposizione "non di sistema", che non vuole accettare l'esito delle elezioni e che così facendo si oppone all'intero sistema politico.
Io non sono un cittadino americano (avrei potuto, ma ho evitato la cittadinanza perché rifiuto di fare il giuramento di fedeltà), e l'unica lealtà che sento di dovere agli USA è quella di un ospite: non danneggiarli in modo deliberato, e obbedire alle loro leggi. Nonostante questo, mi rivolta lo stomaco vedere la facilità con cui milioni di americani vengono sollevati contro la loro stessa nazione. Ho scritto molto sulla russofobia in questo blog, ma ora vedo anche una profonda "americafobia" nelle azioni e nelle parole di quelli che oggi dicono che Trump non è il loro Presidente. Secondo loro, la loro micro-identità di "liberal", di "gay" o di "afro-americani" sarebbe più significativa dei principi fondamentali sui quali è stato costruito questo paese. Quando vedo queste folle di detrattori di Trump, vedo ribollire il puro odio, non quello contro l'impero anglo-sionista o contro una plutocrazia travestita da democrazia, ma l'odio contro quella che definireste la "America semplice", l'America ordinaria – la gente semplice tra la quale ho vissuto per molti anni, che ho imparato a rispettare e apprezzare, e che i seguaci della Clinton oggi considerano solo come l'America dei "deplorevoli".
Mi sorprende vedere che la pseudo-élite americana nutre così tanto odio, indignazione e paura verso la massa degli americani, così come le pseudo-élite russe nutrono odio, indignazione e paura verso la massa dei russi (la parola russa equivalente a "deplorevoli" è "быдло" e suona come "bestiame", "sottoproletari" o "plebaglia"). Mi sorprende vedere che le stesse persone che per anni hanno demonizzato Putin stanno ora demonizzando Trump usando esattamente gli stessi metodi. E se il loro paese deve scendere in guerra contro la gente comune – che così sia! Queste auto-dichiarate élite non hanno la benché minima remora nel distruggere il paese di cui pure sono stati parassiti e che hanno sfruttato per i propri interessi di classe. È la stessa cosa che hanno fatto alla Russia esattamente 100 anni fa, nel 1917. Spero proprio che non riescano a farla franca di nuovo nel 2017.
30/01/17
ZH - L'Europa propone "restrizioni sui pagamenti in contanti"
Dopo l'esperimento dell'India, la Commissione Europea sta portando avanti un'iniziativa per limitare l'uso del contante nell'Unione, adducendo come motivazione la lotta alla criminalità e al terrorismo. Peccato che i dati mostrino che non c'è relazione tra imposizione di banconote di taglio basso e bassa criminalità: anzi, è vero il contrario. L'iniziativa si pone nel solco della più ampia "guerra al contante" che l'élite finanziaria mondiale sta conducendo a una velocità che non si sarebbe immaginata; benché sia basata sulla menzogna di voler combattere la criminalità, il suo obiettivo è in realtà quello di abolire l'anonimato nei pagamenti e di controllare completamente i flussi di denaro, con una limitazione di stampo orwelliano alla libertà e ai diritti fondamentali dei cittadini. Da ZeroHedge.
di Tyler Durden, 27 gennaio 2017
Dopo avere interrotto la produzione di banconote da 500 euro, sembra che l'Europa si stia dirigendo verso il sogno utopico di una società senza contanti. Pochi giorni dopo che l'élite di Davos ha discusso il motivo per cui il mondo ha bisogno di "sbarazzarsi della moneta", la Commissione europea ha presentato una proposta per varare "restrizioni ai pagamenti in contanti".
Con Rogoff, Stiglitz, Summers e altri che chiedono la fine del contante - perché solo i terroristi e gli spacciatori hanno bisogno di contanti (niente a che fare con il controllo totalitario della ricchezza di una nazione) - non siamo sorpresi che appaia questa proposta della Commissione europea (santuario dello statalismo)...
Il piano d'azione afferma che "I pagamenti in contanti sono ampiamente utilizzati nel finanziamento di attività terroristiche... In questo contesto, potrebbe anche essere esplorata l'opportunità di eventuali limiti verso l'alto nei pagamenti in contanti. Diversi Stati membri hanno in essere divieti per i pagamenti in contanti al di sopra di una specifica soglia".
E poi proprio alla fine, si menzionano i "diritti fondamentali"...
Di seguito riportiamo alcune recenti riflessioni sulla questione da parte di Simon Black di SovereignMan, che in precedenza ha descritto come la guerra al contante stia avanzando più velocemente di quanto avremmo mai immaginato e, prevedibilmente, sia basata sulla menzogna.
di Tyler Durden, 27 gennaio 2017
Dopo avere interrotto la produzione di banconote da 500 euro, sembra che l'Europa si stia dirigendo verso il sogno utopico di una società senza contanti. Pochi giorni dopo che l'élite di Davos ha discusso il motivo per cui il mondo ha bisogno di "sbarazzarsi della moneta", la Commissione europea ha presentato una proposta per varare "restrizioni ai pagamenti in contanti".
Con Rogoff, Stiglitz, Summers e altri che chiedono la fine del contante - perché solo i terroristi e gli spacciatori hanno bisogno di contanti (niente a che fare con il controllo totalitario della ricchezza di una nazione) - non siamo sorpresi che appaia questa proposta della Commissione europea (santuario dello statalismo)...
Il 2 febbraio 2016 la Commissione ha pubblicato una Comunicazione al Consiglio e al Parlamento su un piano d'azione per intensificare ulteriormente la lotta al finanziamento del terrorismo (COM (2016) 50). Il piano d'azione si basa sulle norme UE esistenti per adattarsi alle nuove minacce e mira ad aggiornare le politiche dell'UE, in linea con gli standard internazionali. Nel contesto dell'azione della Commissione per estendere il campo di applicazione del Regolamento sui controlli di denaro contante in entrata o in uscita dalla Comunità, si fa riferimento all'opportunità di esplorare l'importanza di potenziali limiti verso l'alto al pagamento in contanti.
Il piano d'azione afferma che "I pagamenti in contanti sono ampiamente utilizzati nel finanziamento di attività terroristiche... In questo contesto, potrebbe anche essere esplorata l'opportunità di eventuali limiti verso l'alto nei pagamenti in contanti. Diversi Stati membri hanno in essere divieti per i pagamenti in contanti al di sopra di una specifica soglia".
Il contante ha l'importante caratteristica di offrire anonimato nelle transazioni. Questo anonimato può essere voluto per motivi legittimi (ad esempio la tutela della privacy). Ma può anche essere utilizzato impropriamente per il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo. La possibilità di condurre grandi pagamenti in contanti facilita il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo a causa della difficoltà nel controllare le transazioni in contanti.
...
Potenziali restrizioni ai pagamenti in contanti sarebbero un mezzo per combattere le attività criminali che implicano grandi operazioni in contanti da parte di reti criminali organizzate. Limitare i grandi pagamenti in contanti, in aggiunta alle dichiarazioni sul possesso di contanti e ad altri obblighi antiriciclaggio, ostacolerebbe il funzionamento delle reti terroristiche, e di altre attività criminali, ovvero avrebbe un effetto preventivo. Inoltre faciliterebbe ulteriori indagini per rintracciare le transazioni finanziarie legate all'esecuzione di attività terroristiche. Indagini efficaci vengono ostacolate perché i pagamenti in contanti sono anonimi. In questo modo le restrizioni ai pagamenti in contanti agevolerebbero le indagini. Tuttavia, poiché le transazioni in contanti afferiscono al sistema finanziario, è essenziale che le istituzioni finanziarie abbiano controlli e procedure adeguate che consentano loro di conoscere la persona con cui hanno a che fare. Un'adeguata due diligence sui clienti nuovi ed esistenti è una parte fondamentale di questi controlli, in linea con la direttiva contro il riciclaggio di denaro.
I terroristi usano denaro per sostenere le loro attività illegali, non solo per le transazioni illegali (ad esempio l'acquisto di esplosivi), ma anche per i pagamenti in apparenza legali (ad esempio le operazioni per l'alloggio o il trasporto). Anche se una restrizione sui pagamenti in contanti sarebbe certamente ignorata nelle transazioni che in ogni caso sono già illegali, la limitazione potrebbe creare un ostacolo significativo all'esecuzione di operazioni ausiliarie alle attività terroristiche.
...
La criminalità organizzata e il finanziamento del terrorismo si basano sul pagamento in contanti per lo svolgimento delle loro attività illegali, e ne beneficiano. Limitando la possibilità di utilizzare i contanti, la proposta contribuirebbe a interrompere il finanziamento del terrorismo, poiché la necessità di utilizzare mezzi non anonimi di pagamento scoraggerebbe l'attività o contribuirebbe a una sua più facile individuazione e identificazione. Qualsiasi proposta del genere mira anche ad armonizzare le restrizioni in tutta l'Unione, creando così condizioni di parità per le imprese e la rimozione delle distorsioni alla concorrenza nel mercato interno. Promuoverebbe inoltre la lotta al riciclaggio di denaro, alla frode fiscale e alla criminalità organizzata.
E poi proprio alla fine, si menzionano i "diritti fondamentali"...
Anche se avere la facoltà di pagare in contanti non costituisce un diritto fondamentale, l'obiettivo dell'iniziativa, che è quello di evitare l'anonimato consentito dal pagamento in contanti, potrebbe essere considerato come una violazione del diritto alla privacy sancito dall'articolo 7 della Carta UE dei diritti fondamentali. Tuttavia, come integrato dall'articolo 52 della Carta, possono essere apportate delle limitazioni nel rispetto del principio di proporzionalità, se sono necessarie e vanno incontro alle finalità di interesse generale riconosciute dall'Unione o all'esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui. Gli obiettivi delle potenziali restrizioni ai pagamenti in contanti potrebbero soddisfare tale descrizione. Va inoltre osservato che le restrizioni nazionali ai pagamenti in contanti non sono mai state contestate con successo in quanto violazione dei diritti fondamentali.
Di seguito riportiamo alcune recenti riflessioni sulla questione da parte di Simon Black di SovereignMan, che in precedenza ha descritto come la guerra al contante stia avanzando più velocemente di quanto avremmo mai immaginato e, prevedibilmente, sia basata sulla menzogna.
Ogni volta che ci si gira intorno, a quanto pare, nell'ambito della guerra al contante c'è un altro grande assalto. L'India è l'esempio recente più notevole - l'imbarazzante débacle di poche settimane fa, quando il governo, durante una notte, ha "demonetizzato" le sue due banconote di maggior valore, lasciando un'intera nazione nel caos. Ma ci sono stati molti esempi minori.
Nella città americana di New Orleans, il governo locale ha deciso all'inizio di questo mese di smettere di accettare pagamenti in contanti da parte dei conducenti nell'Ufficio della Motorizzazione Civile. Come vi ho scritto recentemente, diverse filiali della Citibank in Australia hanno smesso del tutto di trattare in contanti. E l'ex segretario al Tesoro degli Stati Uniti Larry Summers la scorsa settimana ha pubblicato un articolo in cui afferma che "nulla nella esperienza indiana ci induce a smettere di raccomandare che non dovrebbero più essere create banconote di grande taglio negli Stati Uniti, in Europa e in tutto il mondo". In altre parole, nonostante il caos in India, Summers pensa che dovremmo limitare l'uso delle banconote da 100 dollari.
Il conclave dei sommi sacerdoti della politica monetaria canta quasi sempre lo stesso ritornello: solo i criminali e i terroristi usano banconote di grande taglio. Ken Rogoff, professore ad Harvard ed ex funzionario del Fondo monetario internazionale e della Federal Reserve, ha recentemente pubblicato un libro con un titolo che non lascia spazio alla fantasia, The Curse of Cash [La maledizione del contante, ndt]. Ben Bernanke lo ha definito un "libro affascinante e importante".
E, incredibilmente, un certo numero di recensioni su Amazon.com elogia come "brillanti" i "concetti visionari" di Rogoff, nel suo "eccellente libro". Rogoff, come la maggior parte dei suoi colleghi, sostiene che le banconote di grande taglio, i 100 dollari o i 500 euro, vengono utilizzate solamente nel "traffico di droga, nelle estorsioni, per la corruzione e il traffico di esseri umani...". In effetti, chiamano scherzosamente la banconota da 500 euro "Bin Laden", dal momento che apparentemente è usata solo dai terroristi.
Aspettate un attimo. Con la mia squadra ho fatto un po' di ricerche sul tema e ha trovato un po' di dati. Risulta che i paesi con i tagli di banconote più grandi in realtà hanno tassi di criminalità molto più bassi, criminalità organizzata compresa.
La ricerca è stata semplice; abbiamo guardato le classifiche del World Economic Forum, che valuta il livello di criminalità organizzata nei paesi, nonché i costi diretti d'impresa legati all'avere a che fare col crimine e la violenza.
La Svizzera, con la sua banconota da 1.000 franchi svizzeri (all'incirca 1.000 dollari) è uno dei paesi con il più basso livello di criminalità organizzata in tutto il mondo, secondo il WEF. Idem per Singapore, che ha una banconota da 1.000 dollari di Singapore (circa 700 dollari americani). La banconota di maggior valore in Giappone è di 10.000 yen, 88 dollari di oggi. Ma il Giappone ha anche tassi di criminalità estremamente bassi. Lo stesso vale per gli Emirati Arabi Uniti, la cui banconota più grande vale 1.000 dirham (272 dollari).
Se si esaminano paesi con banconote di basso valore, è vero il contrario: i tassi di criminalità, e in particolare i tassi di criminalità organizzata, sono estremamente elevati. Considerate il Venezuela, la Nigeria, il Brasile, il Sud Africa ecc. Il crimine organizzato è molto diffuso. Eppure ognuno di questi paesi ha una valuta il cui valore nominale massimo è inferiore a 30 dollari.
La stessa tendenza vale quando si guarda alla corruzione e all'evasione fiscale.
Ieri abbiamo scritto della Georgia, un piccolo paese sul Mar Nero la cui flat tax induce la crescita degli adempimenti fiscali (e delle entrate fiscali). È considerato uno dei luoghi migliori dove fare affari, con livelli molto bassi di corruzione. Eppure la banconota con denominazione più alta in Georgia vale 500 lari, circa 200 dollari. È un sacco di soldi, in un paese dove il salario medio è di poche centinaia di dollari al mese. Confrontatela con la Malaysia o l'Uzbekistan, due paesi dove la corruzione abbonda. La banconota di maggior valore in Malesia è di 50 ringgit, circa 11 dollari. E la banconota da 5.000 som dell'Uzbekistan vale un misero dollaro e cinquantasette centesimi.
Morale della favola: le istituzioni politiche e finanziarie vogliono che tu aderisca all'idea di abolire, o almeno ridurre, i contanti.
E stanno sparando ogni sorta di propaganda per farlo, cercando di convincere la gente a equiparare crimine e corruzione alle banconote di alto valore.
In poche parole: i dati non supportano la loro affermazione. È solo un'altra bufala, che darà loro più potere a scapito della vostra privacy e della vostra libertà.
29/01/17
Gli Ultimi Giorni dell'Ideologia Liberal
In un articolo documentato quanto aspramente ironico, l'antropologo Maximilan Forte annuncia sul suo blog Zeroanthropology il crollo imminente dell'ideologia liberal progressista. E dei Democratici, che all'ideologia progressista hanno legato le loro fortune. Una minuziosa disamina degli errori commessi durante la campagna elettorale della Clinton, delle scomposte reazioni dei Democratici alla sconfitta, della complicità della grande stampa - che crea fake news sostenendo di lottare contro le fake news - e di una classe accademica elitista che si è trasformata in una sorta di nuova aristocrazia. Forte mostra i sedicenti campioni del pensiero progressista come una nuove élite devota alla meritocrazia - e di conseguenza indifferente alla solidarietà - che ha preteso di insegnare al popolo che cosa era buono e giusto, a dispetto di quello che il popolo stesso sperimenta nella propria vita: ed è quindi stata abbandonata dal popolo, che ha votato altrove.
di Maximilian Forte, 18 gennaio 2017
traduzione di @gr_grim
Come l’ortodossia, il professionalismo e politiche indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto del diciannovesimo secolo
Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats - NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia. È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.
La democrazia liberal è stata ridotta a un guscio vuoto, più un mero nome che una realtà meritevole di questo nome. Per molti anni l'ideologia liberal si è identificata con l'autoritarismo liberale, o post-liberalismo, o neo-liberalismo, con un disprezzo elitista della democrazia e una diffusa paura delle masse, ovunque. Le promesse di inclusione, giustizia sociale e welfare sono state sostituite da trucchi retorici solo in apparenza sensibili e da concessioni puramente formali. Narcisismo morale, ostentazione di pubbliche virtù, politiche identitarie e costruzione di patchwork rattoppati di inclusività sono stati all’ordine del giorno. Le proteste venivano incoraggiate all’estero, contro nazioni-bersaglio, al fine di “promuovere la democrazia” – mentre in patria venivano represse da una polizia sempre più militarizzata. Si davano lezioni sulla trasparenza e sulla responsabilità in giro per il mondo, mentre in patria c’era solo sorveglianza di massa, spionaggio interno, e una stretta su chi denuncia da dentro quello che non va nelle istituzioni. I leader progressisti si dipingevano come difensori della pace e dell’ordine, mentre moltiplicavano le guerre. Lo stesso Obama è personalmente responsabile per l’omicidio di migliaia di persone, molte delle quali civili – nel solo 2016, gli Stati Uniti hanno sganciato una media di 72 bombe al giorno, ogni giorno, in guerre combattute in sette Paesi. Obama ha supervisionato la rapida accelerazione del trasferimento della ricchezza (dai poveri agli ultra-ricchi, ovviamente - NdT) e dell’aumento della povertà nazionale, mentre veniva lodato da accademici e scrittori di pseudosinistra per aver “governato bene”, e averlo fatto con professionalità ed eleganza. La sinistra nordamericana ed europea, che ha fatto pace e si è accordata con l’imperialismo liberale, affonda assieme a quelli che, alla fine, l’hanno ricompensata così poco. Ancora una volta, l’imperialismo sociale sinistrorso si rivela un fallimento, mentre getta le fondamenta per chi lo rimpiazzerà.
E non è una cosa da poco quella che si è schiantata al suolo, non è stata la semplice sconfitta di Hillary Clinton e il rifiuto dell’“eredità” di Obama da parte degli americani. No, stiamo assistendo all’irreparabile sgretolamento di una serie di istituzioni, di una classe di “esperti” e di una rete di alleanze politiche e corporative. Ci troviamo nei primissimi giorni di una transizione di carattere storico, quindi non è ben chiaro che cosa ci aspetta dopo, e le etichette che stanno proliferando dimostrano solo confusione ed incertezza – populismo, nativismo, nazionalismo ecc. Avvicinandoci al mio campo professionale, stiamo iniziando a essere testimoni del fatto che, in coerenza con l’ignominiosa sconfitta della classe degli “esperti”, l’antropologia statunitense – esercitando la propria egemonia su scala internazionale – non verrà risparmiata dalla mattanza. Nel giro di pochi anni, l’antropologia professionista e istituzionale raggiungerà quella “linea zero” di cui questo sito (https://zeroanthropology.net/ - NdT) parla da molti anni ormai, linea oltre la quale il potere e l’influenza scompaiono, mentre il supporto imperiale all’antropologia statunitense si indebolisce o crolla.
Di sicuro, il liberalismo progressista non scomparirà completamente, e nemmeno istantaneamente. Le idee non muoiono mai davvero, vengono solo archiviate. Il liberalismo progressista rimarrà nei libri di testo sugli scaffali delle biblioteche, sarà ricordato e difeso dai suoi sostenitori viventi, ed elementi specifici del suo vocabolario potranno continuare a vivere. Alcuni cercheranno di resuscitare il progetto politico liberal, e in alcuni ambienti sembrerà persino ritornare in auge, ma questi sforzi saranno isolati e relativamente di breve durata.
Quella che Francis Fukuyama definiva “fine della Storia” si è rivelata essere più simile a un canto del cigno per il liberalismo progressista, anche se nemmeno lontanamente così splendido. Se, come la storiografia dominante ha sentenziato, “il comunismo ha fallito”, allora il liberalismo sarà il prossimo. Nonostante tutti gli sforzi affannosi per appropriarsi indebitamente del significato di “fascismo” per assegnarlo a Trump, nemmeno il fascismo rappresenta un movimento praticabile. Piuttosto che la fine dell’ideologia, sembra più l’aprirsi di qualcosa di nuovo – non c’è da stupirsi che molti di noi abbiano notato che il dibattito attuale trascende le dinamiche “destra contro sinistra”, e che la questione cruciale è ormai “globalismo contro nazionalismo”. Per ora, voglio semplicemente osservare il momento in cui ci troviamo, e provare a organizzare e analizzare le principali caratteristiche di questo collasso.
Un colossale fallimento nel convincere
I Democratici, un partito che ha legato le sue “fortune” a quelle dell'ideologia liberal, sembrano persi in una spirale di negazione di responsabilità per la loro sconfitta elettorale, accoppiata alla negazione della realtà. I leader del partito hanno accuratamente evitato le riflessioni su come sia stato possibile proporre e sostenere un candidato gravemente carente come Hillary Clinton – come se quest’ultima fosse una sorta di “scelta naturale”, in quanto apice di un processo evolutivo il cui punto terminale era stato predetto – e candidarla a prescindere dal fatto che l’elettorato la volesse o meno, come se non ci potessero essere obiezioni o alternative. Osservando come i Democratici hanno perso si capisce anche perché dovevano perdere. Improvvisamente, hanno fatto finta di ignorare che qualsiasi campagna presidenziale seria negli Stati Uniti, oltretutto orchestrata da consulenti ed “esperti” pagati profumatamente, è una campagna progettata per vincere il collegio elettorale, non il voto popolare. E infatti, durante i giorni dorati in cui i media parlavano soltanto dei sondaggi, ogni volta che Trump sembrava guadagnare terreno la replica immediata era “ma tanto non riuscirà mai a superare lo scoglio del collegio elettorale”, e la discussione finiva lì. Alcune delle previsioni più sconclusionate che assegnavano la vittoria alla Clinton, pronosticavano che avrebbe vinto il doppio dei voti del collegio elettorale di quelli che alla fine si è realmente aggiudicata nelle elezioni – ma il collegio elettorale in sé non è mai stato messo in discussione. Trump era considerato come destinato alla sconfitta proprio per via del collegio elettorale; ma quando ha vinto le doglianze erano tutte perché aveva vinto per via del collegio elettorale. La logica dei perdenti è una logica perdente.
Invece di affrontare i fatti che li avevano condotti alla sconfitta – e io avevo previsto che sarebbe andata così sin dal 9 novembre (il giorno dopo le presidenziali USA - NdT) – nel giro di pochi giorni i Democratici hanno iniziato a inventarsi la narrazione degli “hacker russi” e delle “notizie false” (“fake news”) orchestrate dai russi: loro non avevano perso contro Donald Trump, no, avevano perso contro Vladimir Putin! Ancora una volta: osservare come i Democratici hanno perso le elezioni rende evidente perché dovevano perderle. Una vera e propria escalation melodrammatica delle pericolose minacce contro la Russia già presenti nella campagna della Clinton, che ha comportato tra le altre cose la messa in moto di una nuova Guerra Fredda e la riproposizione della prospettiva di un olocausto nucleare (una cosa che i sostenitori della Clinton o hanno affrontato con leggerezza o magari consideravano un’alternativa più appetibile della sconfitta). I Democratici, nella loro caccia alle streghe per scovare “traditori”, creando una teoria del complotto dopo l’altra, si comportano come dei nuovi McCarthy, mentre i loro lacchè nei media si inventano un diluvio di menzogne e notizie false proprio mentre affermano di combattere le “fake news”.
Nel frattempo, Obama ci ha chiesto contemporaneamente di essere preso sul serio e di non essere preso sul serio: da un lato era furioso per l’“hacking dei russi”, mentre dall’altro lato faceva l’innocente, come se non si fosse accorto che questo evento certo (“lo fanno tutti”, diceva Obama riferendosi all’hacking) si stava per verificare, e in questo modo non ha dato alcuna spiegazione del perché il suo governo aveva fatto così poco per impedirlo, fermarlo o contrastarlo. Prima del giorno delle elezioni, Obama ha respinto le voci preoccupate di una votazione truccata, definendole “piagnistei” di quelli che riteneva sarebbero stati i perdenti – mentre dopo le elezioni, era lui il perdente che ha cominciato con i piagnistei. Da una parte, Obama afferma di avere informazioni sull’hacking russo; dall’altra, offre al pubblico solo asserzioni senza prove e pretese di credibilità che richiedono la fede degli astanti, invocando credito e fiducia, senza offrire alcuna prova. E questi sarebbero i migliori rappresentanti della classe degli “esperti”, che fanno asserzioni scollegate dai fatti e ricorrono al “se non mi credete siete stupidi”?
Obama dichiarava orgogliosamente che la sua amministrazione era stata del tutto esente da scandali, eppure eccolo lì, a sostenere che un potere estero aveva interferito con un’elezione chiave e, che ci crediate o meno, per lui era stato impossibile impedirlo: abbastanza scandaloso. In una conferenza stampa cui ho assistito ai primi di dicembre, Obama faceva il suo predicozzo ai soliti “giornalisti” leccapiedi: una delle sue facce diceva agli astanti che le e-mail di John Podesta (Responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton - NdT) pubblicate da Wikileaks erano semplice gossip; poco dopo, l’altra faccia si lamentava che Wikileaks aveva alterato il corso delle elezioni.
Ma stiamo comunque parlando di Obama, con la sua coerente incoerenza, la sua comunicazione biforcuta, le sue due facce che si davano il cambio in quasi ogni discorso pubblico. Non è uno statista “sfaccettato”, la sua non è “complessità”, è semplicemente disonesto e falso. Fossi stato il solo ad accorgermene avrebbe avuto ben poca importanza, ma a quanto pare se ne sono accorti anche decine di milioni di elettori americani.
Hollywood e i PR
Questo colossale fallimento nel convincere gli elettori si è manifestato anche in altre aree critiche. I VIP di Hollywood sono stati coinvolti in almeno tre round di sfilze di video di personaggi celebri nelle quali gli elettori venivano esortati, con i toni più pressanti che degli impostori professionisti e pagati riuscissero a produrre, a fare l’unica scelta morale corretta: votare per la persona che aveva demonizzato milioni di elettori definendoli deplorevoli, bamboccioni e superpredatori sessuali, la stessa persona responsabile di aver favorito la distruzione dello stato libico e di tutte le conseguenze che ciò ha comportato – l’esplosione del terrorismo in tutto il Nord Africa, rifugiati in fuga, una guerra civile durata anni. Una persona dotata di un curriculum comprovato nella creazione di pericoli. L’intimidazione degli elettori da parte degli attori di Hollywood e, ancora peggio, delle loro controparti più giovani su MTV, ha fallito miseramente.
E non è stata solo Hollywood a fallire, ma anche la maggior parte dei media mainstream, che a loro volta si trovano di fronte a livelli di fiducia da parte del pubblico in crollo verticale. Hanno fallito in modo eclatante, tanto quanto i media, anche tutta una serie di istituti di sondaggi, agenzie per le relazioni pubbliche, pubblicitari professionisti e consulenti di comunicazione strategica, e questo nella medesima società che ha inventato i PR e le Relazioni Pubbliche. Hillary Clinton si è autodefinita una leader del “soft power”, della capacità di convincere: ed ecco qui l’intera architettura del “soft power” che va a picco, non (solo) all’estero ma, incredibilmente, in patria.
Il New York Times ha recentemente riportato che una conferenza dell’Associazione Internazionale dei Consulenti Politici “sembrava una sessione di terapia per un settore professionale psicologicamente in caduta libera”. Una delle conclusioni dell’articolo del NYT è che “l’esercito di consulenti della Clinton è stato sconfitto da un candidato scatenato, in apparenza privo di qualsivoglia coreografia che, secondo i dati più recenti, ha speso più soldi in magliette, cappelli, cartelloni e altri oggetti simili di quanti ne abbia spesi in consulenza sul campo, liste di elettori, e analisi di dati”.
E per quanto riguarda l’asserto “il sesso vende”, quest’elezione ha sconfitto anche questa ovvietà. Ogni giorno, settimana dopo settimana, ed eclissando quasi completamente qualsiasi altra notizia (incluse le pubblicazioni delle mail di John Podesta da parte di Wikileaks), la maggior parte dei media mainstream hanno martellato incessantemente Trump con storie sempre più scabrose di palpeggiamenti sessuali e commenti sessisti. Quando si sono scontrati in un dibattito faccia a faccia per la prima volta, la Clinton ha tentato immediatamente di screditare Trump riportando il racconto esagerato, unilaterale e farsesco di una ex Miss Venezuela. E i social media sono stati anche più gretti, diffondendo voci di incesto troppo disgustose per riportarle qui, anche in parafrasi. Tutto ciò, con che effetto?
Per coloro che si dedicano allo studio di media, pubbliche relazioni, propaganda ed imperialismo culturale, il risultato di queste elezioni avrà un significato duraturo, soprattutto perché hanno messo in discussione parecchie cose che venivano date per scontate.
Finanziatori corporate, supporto internazionale
Si è dibattuto a lungo durante le elezioni sul ruolo dei finanziatori, e del denaro che erogano ai candidati, nella politica elettorale statunitense. Hillary Clinton ha raccolto senza dubbio la maggior parte dei finanziamenti e delle donazioni, spendendo circa il doppio di Trump per la sua campagna elettorale, quasi il triplo in pubblicità televisiva. La “verità” consolidata che il denaro garantisce il raggiungimento dei risultati politici desiderati è stata spazzata via. Ciò non vuol dire che il denaro non conti più niente nel processo elettorale, significa invece che avere un sacco di soldi da spendere non garantisce affatto un risultato certo. La Clinton poteva anche contare sull’appoggio della maggioranza degli Amministratori Delegati delle Aziende nella Fortune 500 (lista delle 500 più grandi aziende americane per fatturato, pubblicata annualmente dalla rivista Fortune – NdT), alcuni dei quali, come l’AD di HP, sono arrivati a indire conferenze stampa nelle quali accusavano Trump di essere un “fascista”, paragonandolo ad Adolf Hitler e a Benito Mussolini. È di pubblico dominio, inoltre, che milioni di dollari sono entrati nelle casse della Clinton Foundation, versati da governi stranieri e corporation transnazionali. Ma anche se la Clinton si è dannata a raccogliere fondi e donazioni persino negli ultimi giorni della campagna elettorale, tutto ciò non è servito a niente. Nemmeno la miriade di endorsement subdoli, indiretti e talvolta espliciti da parte di leader stranieri e capi di istituzioni internazionali, dal Consiglio dell'Unione europea alla Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite fino alla NATO, ha avuto un impatto sufficiente. Neanche i moniti di “prudenza”, con ovvie implicazioni, da parte dei direttori delle principali istituzioni finanziarie multilaterali sono riusciti a spostare il risultato delle elezioni in favore della Clinton.
Libri venduti
Un’altra prova del fallimento di Hillary Clinton nel vendere il suo messaggio è nel fatto che il suo libro non è stato capace di vendere copie, e questo durante il picco della campagna elettorale, quando l’interesse pubblico avrebbe dovuto essere alle stelle. Il New York Times, una voce non certo ostile alla Clinton, ha riportato che il suo ultimo libro, Stronger Together, “ha venduto solo 2.912 copie nella sua prima settimana nelle librerie”, quando solitamente le vendite nella prima settimana dalla pubblicazione costituiscono un terzo del totale di copie vendute, e concludeva: “I dati di vendita... rendono il libro quello che l’industria editoriale chiamerebbe un flop”. La Clinton si è fermata un istante a riflettere, magari a considerare questo fatto un segno, tenendo conto anche dei suoi rendimenti decrescenti duranti gli anni? Stronger Together (2016) ha venduto meno copie di Hard Choices (2014), che deluse a sua volta le aspettative, e vendette anche esso meno copie del libro precedente, Living History (2003). Ogni libro pubblicato dalla Clinton ha venduto sempre meno copie del precedente. Negli uffici dei Democratici i grafici di vendita li fanno tutti con linee rosso fuoco che vanno solo verso l’alto?
Mondo Accademico, antropologia, e invenzione dell'opinione pubblica “Anti-conoscenza”
Molti accademici hanno scritto saggi via via più aspri e risentiti per lamentarsi dell’opinione pubblica, del popolo – ovvero, di coloro che costituiscono la loro clientela e da cui dipendono i loro finanziamenti. Un cosiddetto “stato d’animo anti-conoscenza” è la comoda invenzione usata per spiegare perché una larga parte della popolazione (una maggioranza, nel caso della Brexit e del referendum italiano) si rifiuta di ascoltare i loro oscuri moniti sull’inevitabile sventura derivante da soluzioni nazionali in un mondo ormai “inevitabilmente”, “irreversibilmente” globalizzato. Questo è il classico caso degli “esperti”, membri della quasi-casta dei professionisti, che rivendicano un monopolio speciale non solo sulla conoscenza, ma sulla verità. È già acclarato che costoro hanno tentato di monopolizzare la conoscenza, disincentivando l’istruzione superiore, con numerose barriere erette lungo tutto il cammino per accedervi. Ma ora sostengono non solo di sapere di più, ma di sapere cosa è meglio. Il sistema attuale, lo status quo che stavano difendendo, secondo loro andava bene per la maggior parte delle persone – anche se la maggior parte delle persone aveva accesso all’informazione, ed esperienze personali, che ridicolizzavano le cheerleader accademiche. E ancor peggio che ridicolizzarli, questa divisione rendeva evidente da che parte stavano gli accademici: “anti-conoscenza” è uno slogan elitista, ovvero anti-popolo.
Gli economisti, come al solito, sanno meglio di tutti cosa è vantaggioso per il popolo e tentano di convincerlo che la realtà che vive non è rilevante. Come una caricatura degli stalinisti, gli economisti neoliberisti partono da una semplice ipotesi: la teoria ha sempre ragione, è il popolo ad avere torto. Come potevano questi Soloni spiegare la bontà del progetto neoliberista di Obama, che ha prodotto i risultati riportati di seguito (come da rilevazioni della stessa Federal Reserve americana)? Questo è un riassunto dell’“eredità” socio-economica di Obama:
(1) Calo dei redditi delle famiglie
(2) Calo del tasso di partecipazione della popolazione civile alla forza lavoro
(3) Calo del tasso di chi vive in case di proprietà
(4) Aumento del numero di persone che percepiscono aiuti alimentari dal governo (food stamps)
(5) Aumento del prezzo delle polizze sanitarie
(6) Aumento del debito degli studenti universitari
(7) Aumento della disuguaglianza di reddito per gli afro-americani
(8) Aumento della stampa di denaro
(9) Massiccio aumento del debito pubblico
Quindi, mentre i giornalisti si inventavano lo spauracchio delle fake news – e producevano a loro volta notizie false per combattere la pericolosa minaccia che il costante calo della fiducia da parte dell’opinione pubblica comportava per i loro profitti – nel mondo accademico il concetto parallelo era l’“anti-conoscenza”. E il veicolo principale di questi punti di vista negli USA e nel Regno Unito sono stati i periodici scientifici The Times Higher Education, Inside Higher Ed, e The Conversation (l’ultimo dei quali è finanziato da una serie di banche e fondazioni).
L’antropologia statunitense continua a offrire testimonianze del suo fallimento nel convincere. A questo proposito, l’antropologia mainstream negli USA, considerato il suo allineamento al partito Democratico, ha qualcosa di abbastanza significativo in comune con il programma militare Human Terrain System (HTS) dell'esercito degli Stati Uniti (programma di supporto che reclutava esponenti delle scienze sociali per fornire ai comandanti militari una conoscenza delle popolazioni presenti nelle regioni in cui erano distaccati - NdT), criticato dai leader statunitensi della disciplina. Il primo indizio per i leader militari che il programma HTS era inutilizzabile come mezzo di contro-insurrezione e pacificazione avrebbe dovuto essere il fallimento dell’HTS nel convincere persino i suoi stessi componenti – e per “suoi stessi componenti” intendo i colleghi accademici tra i quali veniva effettuato il reclutamento. Se non sei in grado di “pacificare” i colleghi universitari, dei quali conosci bene linguaggio, usi e costumi, come puoi pretendere di sconfiggere i talebani? Allo stesso modo, se gli antropologi statunitensi comprendono così poco la loro stessa società di appartenenza che l’elezione di Trump li ha presi completamente alla sprovvista, come possono pretendere di insegnare a comprendere società diverse dalla loro? Invece, nel totale disprezzo della massa degli elettori della classe operaia, gli antropologi statunitensi si sono ri-dedicati con rinnovato vigore alle politiche di occultamento di classe. E quindi hanno proposto un “incontro di lettura antropologica” focalizzato in parte sui problemi del razzismo, per protestare contro l’insediamento di Trump.
Un altro esempio del fallimento nel convincere i loro stessi membri emerge dal voto tenuto tra i membri della Associazione Antropologica Americana, per approvare boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Dopo un primo ottimismo, il voto non ha raccolto un supporto sufficiente da parte dei membri dell’associazione. Quelli che avevano proposto la mozione e avevano spinto per la sua approvazione allora si sono messi a dare la colpa “a ingerenze esterne” (vi ricorda niente?). Nemmeno una volta si sono fatti la domanda se ci fosse qualcosa che non andava nel loro messaggio, o nel contesto in cui veniva promosso. Invece, dovevamo credere che qualche membro dell’intelligence israeliana dall’altro capo del mondo aveva avuto più successo nel convincere degli antropologi statunitensi, di altri antropologi statunitensi. Per quanto riguarda l’accusa di “ingerenza esterna”: è esilarante che essa provenga proprio dagli antropologi USA, dato che “ingerenza esterna” è esattamente quello che loro stanno facendo nei confronti di Israele.
L’attaccamento degli antropologi USA a Obama e Clinton, del tutto scollegato dal loro effettivo operato, caratterizzato dall’incremento della diseguaglianza e dall’aumento delle guerre, ha seguito la stessa politica di occultamento di classe. Uno di loro si è sperticato in lodi romantiche alla “coalizione dei diversi”, attribuendo al “meticciato” bellezza e valore sociale a scapito dei vituperati lavoratori bianchi (e prevedendo la vittoria della Clinton). Un altro antropologo statunitense dell’Università di Chicago ha pubblicato un lungo, verboso mattone esoticista che esaltava le virtù della “marronificazione” della società, esaltava le popolazioni importate rispetto agli autoctoni, e di fatto dichiarava che la maggioranza della classe lavoratrice è irrilevante, spregevole e sostituibile. Che questo articolo sia apparso in una pubblicazione finanziata in larga parte dall’Open Society Institute di George Soros non dovrebbe sorprendere nessuno.
Gli accademici che avevano avuto ben poco, o niente, da dire sul neoliberalismo adesso escono dalle loro tane – e scrivono saggi di critica concentrati esclusivamente su Trump. Hanno scoperto adesso lo “stato corporativizzato”. Quelli che si oppongono all’insediamento di Trump non si sono mai opposti all’insediamento di Obama, nonostante tutta la loro presunta consapevolezza teorica critica. Bruno Latour, il guru degli antropologi americani (dopo essere stato ridicolizzato in Europa), ha rimediato all’assenza della sua opinione nelle discussioni riguardanti le elezioni americane: ha aspettato che fossero finite in modo da tentare di sembrare saggio con uno sforzo minimo, mantenere felice la sua clientela americana, tenere alte le vendite dei suoi libri, e assicurarsi una continua presenza alle conferenze che contano. La Los Angeles Review of Books ha prontamente pubblicato il suo minuscolo “contributo”.
Diana Johnstone ha fatto ottime osservazioni riguardo il fallimento dell’establishment accademico, che vale la pena citare per intero.
E questo ci porta alla sconfitta dei professionisti
La caduta della classe dei professionisti
Abi Wilkinson ha scritto su Jacobin: “Che nessuno sia fisicamente in grado di portare a termine un lavoro meglio dei professionisti è uno dei dettami cardine dell’élite liberal”, aggiungendo:
Wilkinson ha scritto queste parole per mettere in luce l’elitismo racchiuso in una recente, famosa vignetta del New Yorker, che (di nuovo) rappresenta l’elettore medio pro-Trump o pro-Brexit come “anti-conoscenza”, come non qualificato per governare.
(“Questi tronfi piloti hanno perso completamente il contatto con la realtà dei passeggeri come noi. Chi pensa che debba guidare io l’aereo?”)
Wilkinson quindi procede a smontare completamente la metafora dell’aeroplano:
Vale la pena leggere Listen Liberal (“Ascolta, Liberal”) di Thomas Frank, che ha attirato l’attenzione durante le elezioni USA, soprattutto per il capitolo dedicato alla “Teoria della Classe Liberal”, dove vengono riportati numerosi scritti di sociologi e scienziati politici. Il libro si apre con una citazione del libro di David Halberstam’s del 1972 “The Best and the Brightest” che parla di “un’élite speciale, una certa razza di uomini che si autoperpetua. Uomini legati l’uno all’altro piuttosto che legati allo Stato; nella loro testa costoro diventano responsabili dello Stato, ma non rispondono ad esso”.
Invece di concentrarsi sull’“un percento” degli ultra-ricchi, Frank ci chiede di osservare in maniera critica il “dieci percento”, che include “le persone al vertice della gerarchia nazionale dello status professionale”, dai cui ranghi proviene il laureato dell’Ivy League Obama (L’Ivy League è un gruppo di otto università del Nord-est degli USA considerate le migliori del Paese - NdT), nonché la maggior parte dei laureati Ivy League che componevano il suo gabinetto, e che spiega la pletora di commenti autoassolutori e autoadulatori di Obama su coloro che hanno le “qualifiche”, che sono “qualificati” per governare, quelli che “sanno di cosa parlano”. I professionisti apprezzano le competenze e i curriculum, e tendono ad ascoltarsi solo l’uno con l’altro. Esercitano un monopolio sul potere di diagnosticare e su quello di prescrivere, consultandosi a vicenda: “I professionisti sono autonomi; a loro non è richiesto di prestare attenzioni alle voci che provengono dall’esterno del loro raggio di esperienza” (Frank, 2016, pag.23). I professionisti enfatizzano la “cortesia” nei rapporti reciproci (da qui l’incessante richiamo a “moderare i toni”), e dimostrano un sommo disprezzo per le persone di rango inferiore, inclusi i professionisti precari. I tecnocrati post-industriali, quelli che osannano “l’economia della conoscenza” e “l'istruzione” come soluzione di tutti i problemi sociali, hanno generato la loro ideologia personale: il professionalismo. Frank nota che, come ideologia politica, il professionalismo è “intrinsecamente a-democratico, dato che assegna la priorità all’opinione degli esperti rispetto a quelle del pubblico” (pag. 24). Anche se di solito affermano di agire in nome dell’interesse pubblico, Frank osserva che i professionisti hanno abusato sempre più di frequente del loro potere monopolistico per tutelare i loro interessi, agendo sempre di più come una classe sociale (pag.25), una “classe di manager illuminati”, quasi un’aristocrazia (pag. 26). La critica di Frank delinea come i Democratici siano diventati il partito della classe dei professionisti, sbarazzandosi dei lavoratori lungo la strada (pag.28). E come conseguenza di ciò non si interessano minimamente della disuguaglianza, dato che è su di essa che si fonda il loro benessere. La disuguaglianza è essenziale per il professionalismo (pag.31). La meritocrazia si oppone alla solidarietà (pag.32).
Il Collasso dell'Ideologia Liberal
Tutto quanto fin qui detto si aggiunge alle ragioni in base alle quali sto sostenendo che non è stata solo Hillary Clinton, né solo i Democratici ad essere sconfitti, ma qualcosa di molto più vasto. Troppe “grandi” istituzioni hanno fallito i loro compiti fondamentali, troppo è caduto, con così tanto in palio, ad esempio: la globalizzazione, le basi militari USA, il commercio, le classi sociali, il sistema giudiziario, l’istruzione, la sanità ecc. Sì, i Democratici sono stati ridotti a un partito di sindaci, la cui “sopravvivenza” si registra solamente a livello comunale, dopo che hanno perso la Presidenza, il Senato, la Camera dei Rappresentanti, la maggior parte dei Governatori e la maggior parte dei Parlamenti statali. L’ampiezza e la profondità della sconfitta, e l’intera architettura utilizzata per diffondere e difendere la loro ideologia hanno fallito così miseramente, che non possiamo far altro che concludere che è stata la loro stessa ideologia a essere respinta, assieme al progetto sociale ed economico che essa sosteneva. Con questo rifiuto così assoluto, avvenuto contro tutte le aspettative, si deve supporre che il danno apportato sia irreparabile. I prodi difensori dell’attuale ordine globale che si esprimono sempre in termini di “irreversibilità” e “inevitabilità”, applicheranno questi medesimi concetti alla loro sconfitta? Un collasso di questa portata spalanca troppe porte che prima erano invisibili per essere liquidato come semplice singhiozzo momentaneo del sistema.
Qui in Canada, dove l’evoluzione politica va generalmente al traino degli Stati Uniti, assistiamo a un replay del collasso del progetto liberal che tenta di nascondere le differenze di classe e lo sfruttamento di classe sotto l’egida della “diversità” e delle politiche identitarie. Dal Gay Pride al Forum Economico Mondiale a Davos, l’itinerario del Primo Ministro Justin Trudeau rispecchia spesso quello che ormai è diventato lo standard dell’élite liberal. Questa non è una coincidenza: come abbiamo appreso dalle e-mail di Podesta, Trudeau è un surrogato della Clinton. Egli veniva identificato in questo modo: “Il Primo Ministro Trudeau è un alleato di vecchia data del CAP [Center for American Progress, alleato del Partito Democratico]...un partner attivo ed impegnato del nostro programma per il progresso globale”. Ad un’altra email era allegata una foto in cui John Podesta sussurrava nell’orecchio di Trudeau. Nell’oggetto della mail, Trudeau viene definito “Mr.Canada”. Mentre “Mr.Canada” dichiara di sostenere il “femminismo,” non ha avuto niente da offrire ad una madre lavoratrice in difficoltà che viene ridotta alla povertà e buttata in mezzo alla strada dalle tasse sulle emissioni, in un Paese ricco di materie prime che potrebbe essere energicamente indipendente per i prossimi due secoli, se la sua energia non fosse drenata per essere venduta sul mercato mondiale. Mr.Canada dichiara fiero di sostenere la “diversità,” eppure aderisce al monolinguismo in Quebec, con un arrogante disprezzo per una anglofona quebeckiana preoccupata per la sua tutela sanitaria. Si spertica in lodi per il suo nuovo Ministro per gli affari esteri, elogiandone la padronanza della lingua russa, mentre minimizza il fatto che a quello stesso ministro è vietato l’ingresso in Russia, grazie alle controsanzioni russe contro il Canada, che abbiamo inutilmente causato. Adesso, il Canada pretende di diventare il portabandiera del progetto imperialista liberal di Obama e Clinton, mettendosi sulla buona strada per diventare l’ultimo perdente a difendere la globalizzazione, nell’apparente convinzione di poter perseguire una globalizzazione composta da un unico Paese.
Oggi la classe dei professionisti, sostenitori del liberalismo morente, la trovate sui media a denunciare un’immaginaria ingerenza russa. Non che si siano improvvisamente uniti ai ranghi degli anti-imperialisti: non hanno detto una parola sulle più di 80 elezioni estere nelle quali gli Stati Uniti hanno interferito, per non parlare delle dozzine di colpi di stato sostenuti e sponsorizzati dagli USA, e per non parlare del fatto che gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura istituzionale (il National Endowment for Democracy, il National Democratic Institute, l’International Republican Institute, la CIA, L’Ufficio per le Iniziative di Transizione) dedicata all’interferenza negli affari esteri, armata di decenni di politiche, leggi, e documenti strategici che guidano il corso e la profondità dell’intervento politico all’estero. È particolarmente ironico che un “hacker” (nel senso di apportatore di una tale ingerenza negli affari esteri-NdT) si lamenti così rumorosamente di essere stato, una volta tanto, hackerato a sua volta. In realtà, sono stati colpiti proprio nei campi che si rifiutano di riconoscere: che Putin è dieci volte più statista di un Obama; che i russi eccellono nella diplomazia; e che la Russia ha importanti lezioni antropologiche da insegnarci sulle relazioni internazionali…cose che ovviamente i nostri professionisti liberal hanno ignorato – e quindi hanno perso, punto e basta.
di Maximilian Forte, 18 gennaio 2017
traduzione di @gr_grim
Come l’ortodossia, il professionalismo e politiche indifferenti hanno definitivamente condannato un progetto del diciannovesimo secolo
Che spettacolo eccezionale. Questi sono gli ultimi giorni, presto inizierà il conto alla rovescia delle ultime ore per lo sconfitto progetto politico liberal, ereditato dal XIX secolo. Il centro – se ce n’è mai stato uno – alla fine non ha potuto reggere (citazione del “Secondo Avvento” di W.B.Yeats - NdT). Che meraviglia vedere una delle ideologie dominanti, colonna portante del sistema internazionale, portata in trionfo sin dalla fine della Guerra Fredda con una boria e una certezza sconfinate, precipitare a faccia in giù nella pattumiera della storia. È caduta di schianto, come se una folla inferocita l’avesse spinta da dietro, anche se i suoi difensori sosterranno che sono stati semplicemente commessi degli “errori”, come se fossero scivolati sulla più grande buccia di banana della storia. E che spettacolo: chi si sarebbe mai aspettato una simile mancanza di dignità, una così patetica isteria, insulti così infondati, minacce così vuote provenire da coloro che si auto-incensavano come valorosi statisti, che parlavano come se avessero il monopolio della “ragione”. E anche se questa rovinosa caduta avrebbe potuto essere ben peggiore, non sono mancate violenza, minacce, boicottaggi, e persino denunce di tradimento, fatte apposta per delegittimare la scelta degli elettori.
La democrazia liberal è stata ridotta a un guscio vuoto, più un mero nome che una realtà meritevole di questo nome. Per molti anni l'ideologia liberal si è identificata con l'autoritarismo liberale, o post-liberalismo, o neo-liberalismo, con un disprezzo elitista della democrazia e una diffusa paura delle masse, ovunque. Le promesse di inclusione, giustizia sociale e welfare sono state sostituite da trucchi retorici solo in apparenza sensibili e da concessioni puramente formali. Narcisismo morale, ostentazione di pubbliche virtù, politiche identitarie e costruzione di patchwork rattoppati di inclusività sono stati all’ordine del giorno. Le proteste venivano incoraggiate all’estero, contro nazioni-bersaglio, al fine di “promuovere la democrazia” – mentre in patria venivano represse da una polizia sempre più militarizzata. Si davano lezioni sulla trasparenza e sulla responsabilità in giro per il mondo, mentre in patria c’era solo sorveglianza di massa, spionaggio interno, e una stretta su chi denuncia da dentro quello che non va nelle istituzioni. I leader progressisti si dipingevano come difensori della pace e dell’ordine, mentre moltiplicavano le guerre. Lo stesso Obama è personalmente responsabile per l’omicidio di migliaia di persone, molte delle quali civili – nel solo 2016, gli Stati Uniti hanno sganciato una media di 72 bombe al giorno, ogni giorno, in guerre combattute in sette Paesi. Obama ha supervisionato la rapida accelerazione del trasferimento della ricchezza (dai poveri agli ultra-ricchi, ovviamente - NdT) e dell’aumento della povertà nazionale, mentre veniva lodato da accademici e scrittori di pseudosinistra per aver “governato bene”, e averlo fatto con professionalità ed eleganza. La sinistra nordamericana ed europea, che ha fatto pace e si è accordata con l’imperialismo liberale, affonda assieme a quelli che, alla fine, l’hanno ricompensata così poco. Ancora una volta, l’imperialismo sociale sinistrorso si rivela un fallimento, mentre getta le fondamenta per chi lo rimpiazzerà.
E non è una cosa da poco quella che si è schiantata al suolo, non è stata la semplice sconfitta di Hillary Clinton e il rifiuto dell’“eredità” di Obama da parte degli americani. No, stiamo assistendo all’irreparabile sgretolamento di una serie di istituzioni, di una classe di “esperti” e di una rete di alleanze politiche e corporative. Ci troviamo nei primissimi giorni di una transizione di carattere storico, quindi non è ben chiaro che cosa ci aspetta dopo, e le etichette che stanno proliferando dimostrano solo confusione ed incertezza – populismo, nativismo, nazionalismo ecc. Avvicinandoci al mio campo professionale, stiamo iniziando a essere testimoni del fatto che, in coerenza con l’ignominiosa sconfitta della classe degli “esperti”, l’antropologia statunitense – esercitando la propria egemonia su scala internazionale – non verrà risparmiata dalla mattanza. Nel giro di pochi anni, l’antropologia professionista e istituzionale raggiungerà quella “linea zero” di cui questo sito (https://zeroanthropology.net/ - NdT) parla da molti anni ormai, linea oltre la quale il potere e l’influenza scompaiono, mentre il supporto imperiale all’antropologia statunitense si indebolisce o crolla.
Di sicuro, il liberalismo progressista non scomparirà completamente, e nemmeno istantaneamente. Le idee non muoiono mai davvero, vengono solo archiviate. Il liberalismo progressista rimarrà nei libri di testo sugli scaffali delle biblioteche, sarà ricordato e difeso dai suoi sostenitori viventi, ed elementi specifici del suo vocabolario potranno continuare a vivere. Alcuni cercheranno di resuscitare il progetto politico liberal, e in alcuni ambienti sembrerà persino ritornare in auge, ma questi sforzi saranno isolati e relativamente di breve durata.
Quella che Francis Fukuyama definiva “fine della Storia” si è rivelata essere più simile a un canto del cigno per il liberalismo progressista, anche se nemmeno lontanamente così splendido. Se, come la storiografia dominante ha sentenziato, “il comunismo ha fallito”, allora il liberalismo sarà il prossimo. Nonostante tutti gli sforzi affannosi per appropriarsi indebitamente del significato di “fascismo” per assegnarlo a Trump, nemmeno il fascismo rappresenta un movimento praticabile. Piuttosto che la fine dell’ideologia, sembra più l’aprirsi di qualcosa di nuovo – non c’è da stupirsi che molti di noi abbiano notato che il dibattito attuale trascende le dinamiche “destra contro sinistra”, e che la questione cruciale è ormai “globalismo contro nazionalismo”. Per ora, voglio semplicemente osservare il momento in cui ci troviamo, e provare a organizzare e analizzare le principali caratteristiche di questo collasso.
Un colossale fallimento nel convincere
I Democratici, un partito che ha legato le sue “fortune” a quelle dell'ideologia liberal, sembrano persi in una spirale di negazione di responsabilità per la loro sconfitta elettorale, accoppiata alla negazione della realtà. I leader del partito hanno accuratamente evitato le riflessioni su come sia stato possibile proporre e sostenere un candidato gravemente carente come Hillary Clinton – come se quest’ultima fosse una sorta di “scelta naturale”, in quanto apice di un processo evolutivo il cui punto terminale era stato predetto – e candidarla a prescindere dal fatto che l’elettorato la volesse o meno, come se non ci potessero essere obiezioni o alternative. Osservando come i Democratici hanno perso si capisce anche perché dovevano perdere. Improvvisamente, hanno fatto finta di ignorare che qualsiasi campagna presidenziale seria negli Stati Uniti, oltretutto orchestrata da consulenti ed “esperti” pagati profumatamente, è una campagna progettata per vincere il collegio elettorale, non il voto popolare. E infatti, durante i giorni dorati in cui i media parlavano soltanto dei sondaggi, ogni volta che Trump sembrava guadagnare terreno la replica immediata era “ma tanto non riuscirà mai a superare lo scoglio del collegio elettorale”, e la discussione finiva lì. Alcune delle previsioni più sconclusionate che assegnavano la vittoria alla Clinton, pronosticavano che avrebbe vinto il doppio dei voti del collegio elettorale di quelli che alla fine si è realmente aggiudicata nelle elezioni – ma il collegio elettorale in sé non è mai stato messo in discussione. Trump era considerato come destinato alla sconfitta proprio per via del collegio elettorale; ma quando ha vinto le doglianze erano tutte perché aveva vinto per via del collegio elettorale. La logica dei perdenti è una logica perdente.
Invece di affrontare i fatti che li avevano condotti alla sconfitta – e io avevo previsto che sarebbe andata così sin dal 9 novembre (il giorno dopo le presidenziali USA - NdT) – nel giro di pochi giorni i Democratici hanno iniziato a inventarsi la narrazione degli “hacker russi” e delle “notizie false” (“fake news”) orchestrate dai russi: loro non avevano perso contro Donald Trump, no, avevano perso contro Vladimir Putin! Ancora una volta: osservare come i Democratici hanno perso le elezioni rende evidente perché dovevano perderle. Una vera e propria escalation melodrammatica delle pericolose minacce contro la Russia già presenti nella campagna della Clinton, che ha comportato tra le altre cose la messa in moto di una nuova Guerra Fredda e la riproposizione della prospettiva di un olocausto nucleare (una cosa che i sostenitori della Clinton o hanno affrontato con leggerezza o magari consideravano un’alternativa più appetibile della sconfitta). I Democratici, nella loro caccia alle streghe per scovare “traditori”, creando una teoria del complotto dopo l’altra, si comportano come dei nuovi McCarthy, mentre i loro lacchè nei media si inventano un diluvio di menzogne e notizie false proprio mentre affermano di combattere le “fake news”.
Nel frattempo, Obama ci ha chiesto contemporaneamente di essere preso sul serio e di non essere preso sul serio: da un lato era furioso per l’“hacking dei russi”, mentre dall’altro lato faceva l’innocente, come se non si fosse accorto che questo evento certo (“lo fanno tutti”, diceva Obama riferendosi all’hacking) si stava per verificare, e in questo modo non ha dato alcuna spiegazione del perché il suo governo aveva fatto così poco per impedirlo, fermarlo o contrastarlo. Prima del giorno delle elezioni, Obama ha respinto le voci preoccupate di una votazione truccata, definendole “piagnistei” di quelli che riteneva sarebbero stati i perdenti – mentre dopo le elezioni, era lui il perdente che ha cominciato con i piagnistei. Da una parte, Obama afferma di avere informazioni sull’hacking russo; dall’altra, offre al pubblico solo asserzioni senza prove e pretese di credibilità che richiedono la fede degli astanti, invocando credito e fiducia, senza offrire alcuna prova. E questi sarebbero i migliori rappresentanti della classe degli “esperti”, che fanno asserzioni scollegate dai fatti e ricorrono al “se non mi credete siete stupidi”?
Obama dichiarava orgogliosamente che la sua amministrazione era stata del tutto esente da scandali, eppure eccolo lì, a sostenere che un potere estero aveva interferito con un’elezione chiave e, che ci crediate o meno, per lui era stato impossibile impedirlo: abbastanza scandaloso. In una conferenza stampa cui ho assistito ai primi di dicembre, Obama faceva il suo predicozzo ai soliti “giornalisti” leccapiedi: una delle sue facce diceva agli astanti che le e-mail di John Podesta (Responsabile della campagna elettorale di Hillary Clinton - NdT) pubblicate da Wikileaks erano semplice gossip; poco dopo, l’altra faccia si lamentava che Wikileaks aveva alterato il corso delle elezioni.
Ma stiamo comunque parlando di Obama, con la sua coerente incoerenza, la sua comunicazione biforcuta, le sue due facce che si davano il cambio in quasi ogni discorso pubblico. Non è uno statista “sfaccettato”, la sua non è “complessità”, è semplicemente disonesto e falso. Fossi stato il solo ad accorgermene avrebbe avuto ben poca importanza, ma a quanto pare se ne sono accorti anche decine di milioni di elettori americani.
Hollywood e i PR
Questo colossale fallimento nel convincere gli elettori si è manifestato anche in altre aree critiche. I VIP di Hollywood sono stati coinvolti in almeno tre round di sfilze di video di personaggi celebri nelle quali gli elettori venivano esortati, con i toni più pressanti che degli impostori professionisti e pagati riuscissero a produrre, a fare l’unica scelta morale corretta: votare per la persona che aveva demonizzato milioni di elettori definendoli deplorevoli, bamboccioni e superpredatori sessuali, la stessa persona responsabile di aver favorito la distruzione dello stato libico e di tutte le conseguenze che ciò ha comportato – l’esplosione del terrorismo in tutto il Nord Africa, rifugiati in fuga, una guerra civile durata anni. Una persona dotata di un curriculum comprovato nella creazione di pericoli. L’intimidazione degli elettori da parte degli attori di Hollywood e, ancora peggio, delle loro controparti più giovani su MTV, ha fallito miseramente.
E non è stata solo Hollywood a fallire, ma anche la maggior parte dei media mainstream, che a loro volta si trovano di fronte a livelli di fiducia da parte del pubblico in crollo verticale. Hanno fallito in modo eclatante, tanto quanto i media, anche tutta una serie di istituti di sondaggi, agenzie per le relazioni pubbliche, pubblicitari professionisti e consulenti di comunicazione strategica, e questo nella medesima società che ha inventato i PR e le Relazioni Pubbliche. Hillary Clinton si è autodefinita una leader del “soft power”, della capacità di convincere: ed ecco qui l’intera architettura del “soft power” che va a picco, non (solo) all’estero ma, incredibilmente, in patria.
Il New York Times ha recentemente riportato che una conferenza dell’Associazione Internazionale dei Consulenti Politici “sembrava una sessione di terapia per un settore professionale psicologicamente in caduta libera”. Una delle conclusioni dell’articolo del NYT è che “l’esercito di consulenti della Clinton è stato sconfitto da un candidato scatenato, in apparenza privo di qualsivoglia coreografia che, secondo i dati più recenti, ha speso più soldi in magliette, cappelli, cartelloni e altri oggetti simili di quanti ne abbia spesi in consulenza sul campo, liste di elettori, e analisi di dati”.
E per quanto riguarda l’asserto “il sesso vende”, quest’elezione ha sconfitto anche questa ovvietà. Ogni giorno, settimana dopo settimana, ed eclissando quasi completamente qualsiasi altra notizia (incluse le pubblicazioni delle mail di John Podesta da parte di Wikileaks), la maggior parte dei media mainstream hanno martellato incessantemente Trump con storie sempre più scabrose di palpeggiamenti sessuali e commenti sessisti. Quando si sono scontrati in un dibattito faccia a faccia per la prima volta, la Clinton ha tentato immediatamente di screditare Trump riportando il racconto esagerato, unilaterale e farsesco di una ex Miss Venezuela. E i social media sono stati anche più gretti, diffondendo voci di incesto troppo disgustose per riportarle qui, anche in parafrasi. Tutto ciò, con che effetto?
Per coloro che si dedicano allo studio di media, pubbliche relazioni, propaganda ed imperialismo culturale, il risultato di queste elezioni avrà un significato duraturo, soprattutto perché hanno messo in discussione parecchie cose che venivano date per scontate.
Finanziatori corporate, supporto internazionale
Si è dibattuto a lungo durante le elezioni sul ruolo dei finanziatori, e del denaro che erogano ai candidati, nella politica elettorale statunitense. Hillary Clinton ha raccolto senza dubbio la maggior parte dei finanziamenti e delle donazioni, spendendo circa il doppio di Trump per la sua campagna elettorale, quasi il triplo in pubblicità televisiva. La “verità” consolidata che il denaro garantisce il raggiungimento dei risultati politici desiderati è stata spazzata via. Ciò non vuol dire che il denaro non conti più niente nel processo elettorale, significa invece che avere un sacco di soldi da spendere non garantisce affatto un risultato certo. La Clinton poteva anche contare sull’appoggio della maggioranza degli Amministratori Delegati delle Aziende nella Fortune 500 (lista delle 500 più grandi aziende americane per fatturato, pubblicata annualmente dalla rivista Fortune – NdT), alcuni dei quali, come l’AD di HP, sono arrivati a indire conferenze stampa nelle quali accusavano Trump di essere un “fascista”, paragonandolo ad Adolf Hitler e a Benito Mussolini. È di pubblico dominio, inoltre, che milioni di dollari sono entrati nelle casse della Clinton Foundation, versati da governi stranieri e corporation transnazionali. Ma anche se la Clinton si è dannata a raccogliere fondi e donazioni persino negli ultimi giorni della campagna elettorale, tutto ciò non è servito a niente. Nemmeno la miriade di endorsement subdoli, indiretti e talvolta espliciti da parte di leader stranieri e capi di istituzioni internazionali, dal Consiglio dell'Unione europea alla Commissione per i Diritti umani delle Nazioni Unite fino alla NATO, ha avuto un impatto sufficiente. Neanche i moniti di “prudenza”, con ovvie implicazioni, da parte dei direttori delle principali istituzioni finanziarie multilaterali sono riusciti a spostare il risultato delle elezioni in favore della Clinton.
Libri venduti
Un’altra prova del fallimento di Hillary Clinton nel vendere il suo messaggio è nel fatto che il suo libro non è stato capace di vendere copie, e questo durante il picco della campagna elettorale, quando l’interesse pubblico avrebbe dovuto essere alle stelle. Il New York Times, una voce non certo ostile alla Clinton, ha riportato che il suo ultimo libro, Stronger Together, “ha venduto solo 2.912 copie nella sua prima settimana nelle librerie”, quando solitamente le vendite nella prima settimana dalla pubblicazione costituiscono un terzo del totale di copie vendute, e concludeva: “I dati di vendita... rendono il libro quello che l’industria editoriale chiamerebbe un flop”. La Clinton si è fermata un istante a riflettere, magari a considerare questo fatto un segno, tenendo conto anche dei suoi rendimenti decrescenti duranti gli anni? Stronger Together (2016) ha venduto meno copie di Hard Choices (2014), che deluse a sua volta le aspettative, e vendette anche esso meno copie del libro precedente, Living History (2003). Ogni libro pubblicato dalla Clinton ha venduto sempre meno copie del precedente. Negli uffici dei Democratici i grafici di vendita li fanno tutti con linee rosso fuoco che vanno solo verso l’alto?
Mondo Accademico, antropologia, e invenzione dell'opinione pubblica “Anti-conoscenza”
Molti accademici hanno scritto saggi via via più aspri e risentiti per lamentarsi dell’opinione pubblica, del popolo – ovvero, di coloro che costituiscono la loro clientela e da cui dipendono i loro finanziamenti. Un cosiddetto “stato d’animo anti-conoscenza” è la comoda invenzione usata per spiegare perché una larga parte della popolazione (una maggioranza, nel caso della Brexit e del referendum italiano) si rifiuta di ascoltare i loro oscuri moniti sull’inevitabile sventura derivante da soluzioni nazionali in un mondo ormai “inevitabilmente”, “irreversibilmente” globalizzato. Questo è il classico caso degli “esperti”, membri della quasi-casta dei professionisti, che rivendicano un monopolio speciale non solo sulla conoscenza, ma sulla verità. È già acclarato che costoro hanno tentato di monopolizzare la conoscenza, disincentivando l’istruzione superiore, con numerose barriere erette lungo tutto il cammino per accedervi. Ma ora sostengono non solo di sapere di più, ma di sapere cosa è meglio. Il sistema attuale, lo status quo che stavano difendendo, secondo loro andava bene per la maggior parte delle persone – anche se la maggior parte delle persone aveva accesso all’informazione, ed esperienze personali, che ridicolizzavano le cheerleader accademiche. E ancor peggio che ridicolizzarli, questa divisione rendeva evidente da che parte stavano gli accademici: “anti-conoscenza” è uno slogan elitista, ovvero anti-popolo.
Gli economisti, come al solito, sanno meglio di tutti cosa è vantaggioso per il popolo e tentano di convincerlo che la realtà che vive non è rilevante. Come una caricatura degli stalinisti, gli economisti neoliberisti partono da una semplice ipotesi: la teoria ha sempre ragione, è il popolo ad avere torto. Come potevano questi Soloni spiegare la bontà del progetto neoliberista di Obama, che ha prodotto i risultati riportati di seguito (come da rilevazioni della stessa Federal Reserve americana)? Questo è un riassunto dell’“eredità” socio-economica di Obama:
(1) Calo dei redditi delle famiglie
(2) Calo del tasso di partecipazione della popolazione civile alla forza lavoro
(3) Calo del tasso di chi vive in case di proprietà
(4) Aumento del numero di persone che percepiscono aiuti alimentari dal governo (food stamps)
(5) Aumento del prezzo delle polizze sanitarie
(6) Aumento del debito degli studenti universitari
(7) Aumento della disuguaglianza di reddito per gli afro-americani
(8) Aumento della stampa di denaro
(9) Massiccio aumento del debito pubblico
Quindi, mentre i giornalisti si inventavano lo spauracchio delle fake news – e producevano a loro volta notizie false per combattere la pericolosa minaccia che il costante calo della fiducia da parte dell’opinione pubblica comportava per i loro profitti – nel mondo accademico il concetto parallelo era l’“anti-conoscenza”. E il veicolo principale di questi punti di vista negli USA e nel Regno Unito sono stati i periodici scientifici The Times Higher Education, Inside Higher Ed, e The Conversation (l’ultimo dei quali è finanziato da una serie di banche e fondazioni).
L’antropologia statunitense continua a offrire testimonianze del suo fallimento nel convincere. A questo proposito, l’antropologia mainstream negli USA, considerato il suo allineamento al partito Democratico, ha qualcosa di abbastanza significativo in comune con il programma militare Human Terrain System (HTS) dell'esercito degli Stati Uniti (programma di supporto che reclutava esponenti delle scienze sociali per fornire ai comandanti militari una conoscenza delle popolazioni presenti nelle regioni in cui erano distaccati - NdT), criticato dai leader statunitensi della disciplina. Il primo indizio per i leader militari che il programma HTS era inutilizzabile come mezzo di contro-insurrezione e pacificazione avrebbe dovuto essere il fallimento dell’HTS nel convincere persino i suoi stessi componenti – e per “suoi stessi componenti” intendo i colleghi accademici tra i quali veniva effettuato il reclutamento. Se non sei in grado di “pacificare” i colleghi universitari, dei quali conosci bene linguaggio, usi e costumi, come puoi pretendere di sconfiggere i talebani? Allo stesso modo, se gli antropologi statunitensi comprendono così poco la loro stessa società di appartenenza che l’elezione di Trump li ha presi completamente alla sprovvista, come possono pretendere di insegnare a comprendere società diverse dalla loro? Invece, nel totale disprezzo della massa degli elettori della classe operaia, gli antropologi statunitensi si sono ri-dedicati con rinnovato vigore alle politiche di occultamento di classe. E quindi hanno proposto un “incontro di lettura antropologica” focalizzato in parte sui problemi del razzismo, per protestare contro l’insediamento di Trump.
Un altro esempio del fallimento nel convincere i loro stessi membri emerge dal voto tenuto tra i membri della Associazione Antropologica Americana, per approvare boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Dopo un primo ottimismo, il voto non ha raccolto un supporto sufficiente da parte dei membri dell’associazione. Quelli che avevano proposto la mozione e avevano spinto per la sua approvazione allora si sono messi a dare la colpa “a ingerenze esterne” (vi ricorda niente?). Nemmeno una volta si sono fatti la domanda se ci fosse qualcosa che non andava nel loro messaggio, o nel contesto in cui veniva promosso. Invece, dovevamo credere che qualche membro dell’intelligence israeliana dall’altro capo del mondo aveva avuto più successo nel convincere degli antropologi statunitensi, di altri antropologi statunitensi. Per quanto riguarda l’accusa di “ingerenza esterna”: è esilarante che essa provenga proprio dagli antropologi USA, dato che “ingerenza esterna” è esattamente quello che loro stanno facendo nei confronti di Israele.
L’attaccamento degli antropologi USA a Obama e Clinton, del tutto scollegato dal loro effettivo operato, caratterizzato dall’incremento della diseguaglianza e dall’aumento delle guerre, ha seguito la stessa politica di occultamento di classe. Uno di loro si è sperticato in lodi romantiche alla “coalizione dei diversi”, attribuendo al “meticciato” bellezza e valore sociale a scapito dei vituperati lavoratori bianchi (e prevedendo la vittoria della Clinton). Un altro antropologo statunitense dell’Università di Chicago ha pubblicato un lungo, verboso mattone esoticista che esaltava le virtù della “marronificazione” della società, esaltava le popolazioni importate rispetto agli autoctoni, e di fatto dichiarava che la maggioranza della classe lavoratrice è irrilevante, spregevole e sostituibile. Che questo articolo sia apparso in una pubblicazione finanziata in larga parte dall’Open Society Institute di George Soros non dovrebbe sorprendere nessuno.
Gli accademici che avevano avuto ben poco, o niente, da dire sul neoliberalismo adesso escono dalle loro tane – e scrivono saggi di critica concentrati esclusivamente su Trump. Hanno scoperto adesso lo “stato corporativizzato”. Quelli che si oppongono all’insediamento di Trump non si sono mai opposti all’insediamento di Obama, nonostante tutta la loro presunta consapevolezza teorica critica. Bruno Latour, il guru degli antropologi americani (dopo essere stato ridicolizzato in Europa), ha rimediato all’assenza della sua opinione nelle discussioni riguardanti le elezioni americane: ha aspettato che fossero finite in modo da tentare di sembrare saggio con uno sforzo minimo, mantenere felice la sua clientela americana, tenere alte le vendite dei suoi libri, e assicurarsi una continua presenza alle conferenze che contano. La Los Angeles Review of Books ha prontamente pubblicato il suo minuscolo “contributo”.
Diana Johnstone ha fatto ottime osservazioni riguardo il fallimento dell’establishment accademico, che vale la pena citare per intero.
“La triste immagine degli americani come cattivi perdenti, incapaci di affrontare la realtà, deve essere attribuita in parte al fallimento etico della cosiddetta generazione di intellettuali del 1968. In una società democratica il primo dovere di uomini e donne dotati di tempo, inclinazione e capacità di studiare la realtà in maniera seria, è condividere la loro conoscenza con chi non ha i loro stessi privilegi. La generazione di accademici la cui coscienza politica fu temporaneamente incrementata dalla tragedia della guerra del Vietnam avrebbe dovuto rendersi conto che era suo dovere utilizzare la sua posizione per educare il popolo americano, soprattutto sul mondo che Washington voleva ridisegnare e la sua storia. Invece, la nuova fase del capitalismo edonista ha offerto agli intellettuali le migliori opportunità per manipolare le masse, invece di educarle. Il marketing della società del consumo ha persino inventato una nuova fase delle politiche identitarie, creando il mercato dei giovani, il mercato dei gay, e così via. Nelle università, una massa critica di accademici ‘progressisti’ si è ritirata nel mondo astratto del postmodernismo, finendo per canalizzare l’attenzione della gioventù sul come reagire alla vita sessuale delle altre persone, o sulla ‘identità di genere’. Questa roba esoterica alimenta la sindrome ‘pubblica o muori’ ed evita agli accademici delle scienze sociali di dover insegnare qualsiasi cosa che possa essere considerata una critica alla spesa militare americana o agli sforzi falliti degli Stati Uniti per affermare il loro eterno dominio sul mondo globalizzato. L’argomento più controverso uscito dalle università americane è una discussione su chi dovrebbe usare quale toilette.
“Se gli snob intellettuali sulle fasce costiere degli USA possono deridere con così tanto autocompiacimento i poveri ‘deplorevoli’ dell’entroterra americano, è perché loro stessi hanno abdicato al loro principale dovere sociale: la ricerca e la condivisione della verità. Rimproverare il popolo per i suoi atteggiamenti ‘sbagliati’ mentre si dà un esempio sociale di sfrenata promozione personale produrrà solamente la reazione anti-élite chiamata ‘populismo’. Trump rappresenta la vendetta del popolo che si sente manipolato, dimenticato, e disprezzato”.
E questo ci porta alla sconfitta dei professionisti
La caduta della classe dei professionisti
Abi Wilkinson ha scritto su Jacobin: “Che nessuno sia fisicamente in grado di portare a termine un lavoro meglio dei professionisti è uno dei dettami cardine dell’élite liberal”, aggiungendo:
“Sospettosa sulla democrazia di massa e ringalluzzita dalla caduta dell’Unione Sovietica, l’élite liberal arrivò alla conclusione che eravamo giunti alla fine della Storia: ogni altro ordine sociale era stato tentato e si era rivelato inferiore. Si presumeva che la democrazia capitalista, supportata da esperti preparati, acuti e benintenzionati, fosse emersa dalla mischia come vincitrice incontestata. Queste persone non potevano spiegarsi il crescente rifiuto dello status quo politico ed economico se non come un’improvvisa epidemia di irrazionalità e di autolesionismo. Certo, c’è sempre spazio per migliorare, dicevano, ma a chi mai verrebbe in mente di abbattere o alterare in maniera significativa un sistema eccellente come quello che già abbiamo?
“Se la politica altro non è che l’efficace amministrazione del sistema vigente – se non richiede altro che affidarsi all’abilità di un buon pilota – allora sono l’esperienza e la capacità tecnica i requisiti principali. Le differenze ideologiche sono immateriali, gli interessi contrapposti sono obsoleti”.
Wilkinson ha scritto queste parole per mettere in luce l’elitismo racchiuso in una recente, famosa vignetta del New Yorker, che (di nuovo) rappresenta l’elettore medio pro-Trump o pro-Brexit come “anti-conoscenza”, come non qualificato per governare.
(“Questi tronfi piloti hanno perso completamente il contatto con la realtà dei passeggeri come noi. Chi pensa che debba guidare io l’aereo?”)
Wilkinson quindi procede a smontare completamente la metafora dell’aeroplano:
“(nella vignetta) si dà per scontato che gli attuali piloti abbiano sempre fatto un buon lavoro. E se invece avessero fatto schiantare l’aereo a intervalli regolari, rifiutandosi di riparare i danni prima di decollare di nuovo? E se, per la negligenza degli addetti alla manutenzione, le persone in classe economica fossero costrette a reggersi ai sedili con tutta la loro forza per non essere spazzati via, dato che alcuni dei loro finestrini sono sfondati? E se, in altre parole, ai piloti non sembra importare granché del benessere e della sicurezza dei passeggeri in classe economica perché sono troppo occupati ad accontentare i passeggeri di prima classe? Questa descrizione è molto più vicina alla realtà dei fatti”.
Vale la pena leggere Listen Liberal (“Ascolta, Liberal”) di Thomas Frank, che ha attirato l’attenzione durante le elezioni USA, soprattutto per il capitolo dedicato alla “Teoria della Classe Liberal”, dove vengono riportati numerosi scritti di sociologi e scienziati politici. Il libro si apre con una citazione del libro di David Halberstam’s del 1972 “The Best and the Brightest” che parla di “un’élite speciale, una certa razza di uomini che si autoperpetua. Uomini legati l’uno all’altro piuttosto che legati allo Stato; nella loro testa costoro diventano responsabili dello Stato, ma non rispondono ad esso”.
Invece di concentrarsi sull’“un percento” degli ultra-ricchi, Frank ci chiede di osservare in maniera critica il “dieci percento”, che include “le persone al vertice della gerarchia nazionale dello status professionale”, dai cui ranghi proviene il laureato dell’Ivy League Obama (L’Ivy League è un gruppo di otto università del Nord-est degli USA considerate le migliori del Paese - NdT), nonché la maggior parte dei laureati Ivy League che componevano il suo gabinetto, e che spiega la pletora di commenti autoassolutori e autoadulatori di Obama su coloro che hanno le “qualifiche”, che sono “qualificati” per governare, quelli che “sanno di cosa parlano”. I professionisti apprezzano le competenze e i curriculum, e tendono ad ascoltarsi solo l’uno con l’altro. Esercitano un monopolio sul potere di diagnosticare e su quello di prescrivere, consultandosi a vicenda: “I professionisti sono autonomi; a loro non è richiesto di prestare attenzioni alle voci che provengono dall’esterno del loro raggio di esperienza” (Frank, 2016, pag.23). I professionisti enfatizzano la “cortesia” nei rapporti reciproci (da qui l’incessante richiamo a “moderare i toni”), e dimostrano un sommo disprezzo per le persone di rango inferiore, inclusi i professionisti precari. I tecnocrati post-industriali, quelli che osannano “l’economia della conoscenza” e “l'istruzione” come soluzione di tutti i problemi sociali, hanno generato la loro ideologia personale: il professionalismo. Frank nota che, come ideologia politica, il professionalismo è “intrinsecamente a-democratico, dato che assegna la priorità all’opinione degli esperti rispetto a quelle del pubblico” (pag. 24). Anche se di solito affermano di agire in nome dell’interesse pubblico, Frank osserva che i professionisti hanno abusato sempre più di frequente del loro potere monopolistico per tutelare i loro interessi, agendo sempre di più come una classe sociale (pag.25), una “classe di manager illuminati”, quasi un’aristocrazia (pag. 26). La critica di Frank delinea come i Democratici siano diventati il partito della classe dei professionisti, sbarazzandosi dei lavoratori lungo la strada (pag.28). E come conseguenza di ciò non si interessano minimamente della disuguaglianza, dato che è su di essa che si fonda il loro benessere. La disuguaglianza è essenziale per il professionalismo (pag.31). La meritocrazia si oppone alla solidarietà (pag.32).
Il Collasso dell'Ideologia Liberal
Tutto quanto fin qui detto si aggiunge alle ragioni in base alle quali sto sostenendo che non è stata solo Hillary Clinton, né solo i Democratici ad essere sconfitti, ma qualcosa di molto più vasto. Troppe “grandi” istituzioni hanno fallito i loro compiti fondamentali, troppo è caduto, con così tanto in palio, ad esempio: la globalizzazione, le basi militari USA, il commercio, le classi sociali, il sistema giudiziario, l’istruzione, la sanità ecc. Sì, i Democratici sono stati ridotti a un partito di sindaci, la cui “sopravvivenza” si registra solamente a livello comunale, dopo che hanno perso la Presidenza, il Senato, la Camera dei Rappresentanti, la maggior parte dei Governatori e la maggior parte dei Parlamenti statali. L’ampiezza e la profondità della sconfitta, e l’intera architettura utilizzata per diffondere e difendere la loro ideologia hanno fallito così miseramente, che non possiamo far altro che concludere che è stata la loro stessa ideologia a essere respinta, assieme al progetto sociale ed economico che essa sosteneva. Con questo rifiuto così assoluto, avvenuto contro tutte le aspettative, si deve supporre che il danno apportato sia irreparabile. I prodi difensori dell’attuale ordine globale che si esprimono sempre in termini di “irreversibilità” e “inevitabilità”, applicheranno questi medesimi concetti alla loro sconfitta? Un collasso di questa portata spalanca troppe porte che prima erano invisibili per essere liquidato come semplice singhiozzo momentaneo del sistema.
Qui in Canada, dove l’evoluzione politica va generalmente al traino degli Stati Uniti, assistiamo a un replay del collasso del progetto liberal che tenta di nascondere le differenze di classe e lo sfruttamento di classe sotto l’egida della “diversità” e delle politiche identitarie. Dal Gay Pride al Forum Economico Mondiale a Davos, l’itinerario del Primo Ministro Justin Trudeau rispecchia spesso quello che ormai è diventato lo standard dell’élite liberal. Questa non è una coincidenza: come abbiamo appreso dalle e-mail di Podesta, Trudeau è un surrogato della Clinton. Egli veniva identificato in questo modo: “Il Primo Ministro Trudeau è un alleato di vecchia data del CAP [Center for American Progress, alleato del Partito Democratico]...un partner attivo ed impegnato del nostro programma per il progresso globale”. Ad un’altra email era allegata una foto in cui John Podesta sussurrava nell’orecchio di Trudeau. Nell’oggetto della mail, Trudeau viene definito “Mr.Canada”. Mentre “Mr.Canada” dichiara di sostenere il “femminismo,” non ha avuto niente da offrire ad una madre lavoratrice in difficoltà che viene ridotta alla povertà e buttata in mezzo alla strada dalle tasse sulle emissioni, in un Paese ricco di materie prime che potrebbe essere energicamente indipendente per i prossimi due secoli, se la sua energia non fosse drenata per essere venduta sul mercato mondiale. Mr.Canada dichiara fiero di sostenere la “diversità,” eppure aderisce al monolinguismo in Quebec, con un arrogante disprezzo per una anglofona quebeckiana preoccupata per la sua tutela sanitaria. Si spertica in lodi per il suo nuovo Ministro per gli affari esteri, elogiandone la padronanza della lingua russa, mentre minimizza il fatto che a quello stesso ministro è vietato l’ingresso in Russia, grazie alle controsanzioni russe contro il Canada, che abbiamo inutilmente causato. Adesso, il Canada pretende di diventare il portabandiera del progetto imperialista liberal di Obama e Clinton, mettendosi sulla buona strada per diventare l’ultimo perdente a difendere la globalizzazione, nell’apparente convinzione di poter perseguire una globalizzazione composta da un unico Paese.
Oggi la classe dei professionisti, sostenitori del liberalismo morente, la trovate sui media a denunciare un’immaginaria ingerenza russa. Non che si siano improvvisamente uniti ai ranghi degli anti-imperialisti: non hanno detto una parola sulle più di 80 elezioni estere nelle quali gli Stati Uniti hanno interferito, per non parlare delle dozzine di colpi di stato sostenuti e sponsorizzati dagli USA, e per non parlare del fatto che gli Stati Uniti hanno un’infrastruttura istituzionale (il National Endowment for Democracy, il National Democratic Institute, l’International Republican Institute, la CIA, L’Ufficio per le Iniziative di Transizione) dedicata all’interferenza negli affari esteri, armata di decenni di politiche, leggi, e documenti strategici che guidano il corso e la profondità dell’intervento politico all’estero. È particolarmente ironico che un “hacker” (nel senso di apportatore di una tale ingerenza negli affari esteri-NdT) si lamenti così rumorosamente di essere stato, una volta tanto, hackerato a sua volta. In realtà, sono stati colpiti proprio nei campi che si rifiutano di riconoscere: che Putin è dieci volte più statista di un Obama; che i russi eccellono nella diplomazia; e che la Russia ha importanti lezioni antropologiche da insegnarci sulle relazioni internazionali…cose che ovviamente i nostri professionisti liberal hanno ignorato – e quindi hanno perso, punto e basta.
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28/01/17
Giorno della Memoria: la Germania sta facendo lo stesso errore che portò il nazismo al potere
Nel tanto male interpretato Giorno della Memoria, riprendiamo parte di un vecchio articolo del giornalista ed editore ebreo Joe Weisenthal, riguardo la vera lezione da ricordare oggi. L’ascesa degli orrori del nazismo non fu semplicemente causata dai deliri di un folle populista, ma prima ancora da ripetute scelte dissennate politiche ed economiche, che hanno portato disoccupazione e deflazione in Germania. Tali scelte sono inscindibilmente legate a un regime di cambio fisso, il Gold Standard, che la Germania si rifiutò di abbandonare. Purtroppo anche oggi deflazione e cambio fisso fanno parte della realtà quotidiana, e la politica europea continua ad ignorarne i legami con l’insorgere dei movimenti populisti autoritari.
Di Joe Weisenthal, 18 Novembre 2011
Nel suo recente pezzo, il prudente analista di SocGen Dylan Grice ci prende in pieno.
Argomenti dell’articolo sono la Repubblica di Weimar, l’iperinflazione, e tutto quello stampare denaro di cui tutti parlano.
Ma è non come vi aspettate. Non dice che la Germania si è messa a stampare denaro, il che ha causato l'iperinflazione di Weimar, il che ha causato il nazismo. Dice che i ricordi di Weimar hanno fatto sì che la Germania abbia abbracciato troppo intensamente l’ideologia antiinflazionistica, il che ha portato la disoccupazione, il che ha condotto al nazismo.
Questo grafico è un vero e proprio pugno allo stomaco.
Qual è la morale di Grice?
Scrive:
Ed ecco un malinconico controfattuale storico: come sarebbe potuta cambiare la storia se i tedeschi avessero inflazionato la propria economia al sorgere della crisi?
Ecco la sua lezione:
Ovviamente è impossibile dirlo. Nel 1931 il mondo era in depressione. La Germania lo sarebbe stata comunque, con o senza il suo patologico terrore per l’inflazione. I nazisti avrebbero potuto comunque ottenere successi elettorali. Ma supponiamo che la Germania avesse re-inflazionato la propria economia, come fece il Regno Unito. Questo grafico paragona la traiettoria della disoccupazione nel Regno Unito dopo aver lasciato il Gold Standard con quella della Germania, che decise di rimanerci.
Dopo aver lasciato il Gold Standard, tra il 1931 e il 1933 il Regno Unito vide la propria disoccupazione scendere circa di un terzo, mentre nello stesso periodo in Germania saliva significativamente. Se la Germania avesse scelto di seguire il Regno Unito nel processo di re-inflazione, e la disoccupazione avesse seguito una traiettoria simile, la disoccupazione sarebbe stata del 17% anziché del 33%. Si sarebbe quindi potuto evitare quello che seguì? Hitler avrebbe vinto le elezioni del marzo 1933 con il 45% dei voti? Il mondo avrebbe sperimentato gli orrori del nazismo al potere? La storia del mondo avrebbe potuto essere molto diversa. Forse non ci sarebbe nemmeno stato l’euro oggi, figuriamoci poi l’euro-crisi.
[…]
Conclusione di Malachia Paperoga
Ed eccoci qui, più di 80 anni dopo, con così tante analogie alla situazione di allora che è difficile elencarle tutte. Anche oggi un regime di cambi fissi (la moneta unica europea) ha imposto un lunghissimo periodo di deflazione all’Europa. Ancora oggi l’élite tedesca è terrorizzata dall’inflazione. Anche oggi la disoccupazione è mediamente altissima in tutta Europa, a causa delle strette fiscali imposte da Bruxelles. Anche oggi i popoli europei rifiutano i partiti tradizionali, e si aprono enormi spazi politici perché movimenti populisti e autoritari arrivino al potere.
La speranza, in questo Giorno della Memoria, è che i politici europei abbiano stavolta il coraggio di rompere questo schema, di porre rimedio ai drammatici livelli di disoccupazione nel continente, di smantellare l’attuale regime di cambi fissi (la moneta unica) che imprigiona i popoli europei in una tenaglia.
Speriamo che stavolta il Regno Unito, che anche in questa occasione ha preso le distanze dal progetto deflazionistico europeo, serva da esempio, e che ciò possa scongiurare il ripetersi degli orrori che 80 anni fa ebbero inizio nel continente.
La strada per Auschwitz passò per il Gold Standard. Auguriamoci di non percorrere fino in fondo la strada che è partita da Maastricht.
Di Joe Weisenthal, 18 Novembre 2011
Nel suo recente pezzo, il prudente analista di SocGen Dylan Grice ci prende in pieno.
Argomenti dell’articolo sono la Repubblica di Weimar, l’iperinflazione, e tutto quello stampare denaro di cui tutti parlano.
Ma è non come vi aspettate. Non dice che la Germania si è messa a stampare denaro, il che ha causato l'iperinflazione di Weimar, il che ha causato il nazismo. Dice che i ricordi di Weimar hanno fatto sì che la Germania abbia abbracciato troppo intensamente l’ideologia antiinflazionistica, il che ha portato la disoccupazione, il che ha condotto al nazismo.
Questo grafico è un vero e proprio pugno allo stomaco.
Qual è la morale di Grice?
Scrive:
Ed ecco un malinconico controfattuale storico: come sarebbe potuta cambiare la storia se i tedeschi avessero inflazionato la propria economia al sorgere della crisi?
Ecco la sua lezione:
Ovviamente è impossibile dirlo. Nel 1931 il mondo era in depressione. La Germania lo sarebbe stata comunque, con o senza il suo patologico terrore per l’inflazione. I nazisti avrebbero potuto comunque ottenere successi elettorali. Ma supponiamo che la Germania avesse re-inflazionato la propria economia, come fece il Regno Unito. Questo grafico paragona la traiettoria della disoccupazione nel Regno Unito dopo aver lasciato il Gold Standard con quella della Germania, che decise di rimanerci.
Dopo aver lasciato il Gold Standard, tra il 1931 e il 1933 il Regno Unito vide la propria disoccupazione scendere circa di un terzo, mentre nello stesso periodo in Germania saliva significativamente. Se la Germania avesse scelto di seguire il Regno Unito nel processo di re-inflazione, e la disoccupazione avesse seguito una traiettoria simile, la disoccupazione sarebbe stata del 17% anziché del 33%. Si sarebbe quindi potuto evitare quello che seguì? Hitler avrebbe vinto le elezioni del marzo 1933 con il 45% dei voti? Il mondo avrebbe sperimentato gli orrori del nazismo al potere? La storia del mondo avrebbe potuto essere molto diversa. Forse non ci sarebbe nemmeno stato l’euro oggi, figuriamoci poi l’euro-crisi.
[…]
Conclusione di Malachia Paperoga
Ed eccoci qui, più di 80 anni dopo, con così tante analogie alla situazione di allora che è difficile elencarle tutte. Anche oggi un regime di cambi fissi (la moneta unica europea) ha imposto un lunghissimo periodo di deflazione all’Europa. Ancora oggi l’élite tedesca è terrorizzata dall’inflazione. Anche oggi la disoccupazione è mediamente altissima in tutta Europa, a causa delle strette fiscali imposte da Bruxelles. Anche oggi i popoli europei rifiutano i partiti tradizionali, e si aprono enormi spazi politici perché movimenti populisti e autoritari arrivino al potere.
La speranza, in questo Giorno della Memoria, è che i politici europei abbiano stavolta il coraggio di rompere questo schema, di porre rimedio ai drammatici livelli di disoccupazione nel continente, di smantellare l’attuale regime di cambi fissi (la moneta unica) che imprigiona i popoli europei in una tenaglia.
Speriamo che stavolta il Regno Unito, che anche in questa occasione ha preso le distanze dal progetto deflazionistico europeo, serva da esempio, e che ciò possa scongiurare il ripetersi degli orrori che 80 anni fa ebbero inizio nel continente.
La strada per Auschwitz passò per il Gold Standard. Auguriamoci di non percorrere fino in fondo la strada che è partita da Maastricht.
27/01/17
Intervista al futuro ambasciatore USA nella UE: l'Euro 'probabilmente crollerà'.
Il prof. Ted Malloch, probabile futuro ambasciatore nella UE degli Stati Uniti, ha concesso una interessante intervista a Kamal Ahmed, economics editor della BBC, nella quale, parlando del prossimo futuro accordo commerciale con la Gran Bretagna, ammette liberamente quello di cui molti ormai, tranne la maggior parte dei politici UE e della stampa collusa, parlano con franchezza, e cioè della concreta probabilità che l'Unione europea e la moneta unica nel breve periodo possano disintegrarsi. Malloch dice chiaramente che il Presidente eletto Trump non vede con favore le organizzazioni internazionali e crede invece negli Stati nazionali, confermando la sua posizione contraria all'establishment mondialista.
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26/01/17
In Grecia il 49,2 Percento delle Famiglie ha come Unico Reddito una Pensione
Keep Talking Greece pubblica un breve aggiornamento sulla situazione finanziaria dei nuclei familiari in Grecia. Quasi la metà delle famiglie vive della sola pensione di un familiare, i tre quarti hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni economiche nel 2016, e quasi altrettanti si aspettano ulteriori peggioramenti nell'anno in corso, a testimonianza di un paese che ha perso ogni speranza nel futuro (ma che noi non vogliamo dimenticare nemmeno per un attimo).
di KeepTalkingGreece, 25 gennaio 2017
La metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l'unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia. Secondo il sondaggio condotto dall'Istituto delle Piccole Imprese della Confederazione Ellenica dei Professionisti, Artigiani e Commercianti (IME GSEVEE), il 49,2 percento delle famiglie vive della pensione di un familiare e non ha alcuna altra fonte di reddito.
Altri dati rilevati:
Il report suggerisce che:
Il sondaggio è stato condotto tra il 14 e il 26 novembre 2016 su 1.000 famiglie distribuite in tutto il paese.
Fonti: qui e qui
PS. E tenete conto che ci sono persone che non hanno neppure una piccola pensione di cui vivere.
di KeepTalkingGreece, 25 gennaio 2017
La metà dei nuclei familiari in Grecia dichiara che l'unica fonte di reddito di cui dispone è la pensione di un membro della famiglia. Secondo il sondaggio condotto dall'Istituto delle Piccole Imprese della Confederazione Ellenica dei Professionisti, Artigiani e Commercianti (IME GSEVEE), il 49,2 percento delle famiglie vive della pensione di un familiare e non ha alcuna altra fonte di reddito.
Altri dati rilevati:
- il 75,3 % dei nuclei familiari ha subìto un declino significativo del proprio reddito nel corso dell'anno 2016;
- il 37,1 % dei nuclei familiari dice di vivere con meno 10.000 euro all'anno;
- per il 37,9 % dei nuclei familiari i salari sono la principale fonte di reddito;
- il 9 % dei nuclei familiari dice di dipendere principalmente dai redditi provenienti da attività commerciali;
- un nucleo familiare su tre ha [almeno] un componente della famiglia disoccupato - ciò significa una stima di 1,1 milioni di famiglie in Grecia;
- i disoccupati di lungo periodo contano per il il 73,3 % di tutti i senza lavoro;
- il 22,4 % dei nuclei familiari ha un componente occupato della famiglia che guadagna meno del salario mensile minimo, pari a 586 euro lordi;
- il 9,7 % degli intervistati ha detto che almeno un membro della sua famiglia ha lasciato la Grecia;
- il 73,5 % degli intervistati ha detto di aspettarsi un peggioramento ulteriore della propria situazione finanziaria;
- il 5,1 % dice invece di aspettarsi un miglioramento;
- il 21,3 % dei nuclei familiari ha tasse da pagare in arretrato;
- il 34 % delle famiglie stima che non sarà in grado di adempiere ai suoi obblighi verso il fisco nel corso dell'anno 2017;
- il 21,3 % dei titolari di mutui è in arretrato sui pagamenti alle banche.
Il report suggerisce che:
"La crisi finanziaria di lungo periodo, la cui vittima principale è la classe media, non sta portando solo a un ulteriore declino dei redditi e a un ampliamento delle disuguaglianze, ma minaccia apertamente la coesione sociale.
La cosiddetta terapia, che consiste nel continuo aumento delle tasse, dirette e indirette, può anche portare a un avanzo fiscale primario, ma questo non si riflette in alcun beneficio per i contribuenti in termini di qualche forma di servizio pubblico, e anzi al tempo stesso viene ridotta la spesa per la sanità e l'istruzione"
Il sondaggio è stato condotto tra il 14 e il 26 novembre 2016 su 1.000 famiglie distribuite in tutto il paese.
Fonti: qui e qui
PS. E tenete conto che ci sono persone che non hanno neppure una piccola pensione di cui vivere.
25/01/17
Leader UE e Trump: La verità è che non gli piacete abbastanza.
Dal sito The Automatic Earth un commento tra il serio e il faceto mette in ridicolo il palpabile imbarazzo che serpeggia tra i leader della UE, i quali dopo essersi accodati all'unisono ai grandi media nella denigrazione del candidato alla Presidenza USA, dipinto come un personaggio spregevole e grottesco, devono ora prendere atto della realtà della sua elezione e affrontare delle relazioni diplomatiche che si prospettano per loro non facili.
di Raùl Ilargi Meijer, 19.01. 2017
Traduzione di Margherita Russo
Io ci provo, giuro, a trattenermi, ma non ce la faccio a non ridere. Alla vigilia della sua presidenza, senza dire neanche una parola, Donald Trump ha detto in faccia ai leader europei che non contano niente. Non solo ha un'opinione sull'UE, e sulla sua rilevanza, molto diversa dalla loro, ma non ha nemmeno dimenticato come molti di loro si sono espressi nei suoi confronti durante la campagna elettorale.
Fatta eccezione per Nigel Farage e Marine Le Pen, tutti i leader europei hanno ridicolizzato e demonizzato apertamente Trump fin dal primo momento della sua candidatura. Gli insulti nei suoi riguardi erano simili a quelli generalmente riservati a Vladimir Putin, e, nella valanga di bufale che ha contrassegnato il 2016, i due sono spesso stati associati nei modi più disparati e per ragioni ipotizzate come evidenti, senza far mancare qua e là qualche grazioso riferimento a Hitler.
Adesso, chissà perché, sono tutti convinti che sia indispensabile incontrare Trump prima che questi incontri Putin, come se la sua concezione del mondo, e quella del suo stesso governo, fosse così instabile da potersi lasciare influenzare da un momento all'altro. Trump non ne vuole proprio sapere. E dopo essere stato paragonato a tutto il peggio possibile, chi può dargli torto?
Donald Trump ritiene, in gran parte a giusto titolo, che in troppi, soprattutto all'interno dell'UE, non si siano fatti troppi scrupoli nel disattendere il principio dell'innocenza fino a prova contraria. Di conseguenza, la verità è che oggi non gli piacciono abbastanza. Non gli hanno mostrato alcun rispetto, e lui queste cose non le dimentica. E da questo ne consegue una situazione assolutamente esilarante.
L'UE, come la cricca Obama/Clinton, si è impuntata su tutto e di più con Putin, e quindi per associazione - loro, non sua - anche con Trump. Non potevano mai immaginare che sarebbe stato eletto, e adesso non sanno più che pesci prendere (ma cominciare col chiedere scusa, ad esempio?).
AP News riferisce, anche se ancora una volta è necessario districarsi tra vaghe allusioni e supponenti scempiaggini (ma quando cresci, AP?):
Fin qui tutto bene, ma poi ricomincia la retorica. Solo che loro chiamano ‘retorica’ le parole di Trump:
Le opinioni di Trump segnano una drammatica svolta nella visione repubblicana dell'Europa, appena una generazione dopo il famoso saluto di George H.W.Bush alla caduta della Cortina di Ferro, al grido di un'“Europa libera e unita.” Secondo quanto riportato da addetti alla fase di transizione, il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è in stretto contatto con l'ambasciatore russo negli USA, e questi dialoghi hanno per oggetto la preparazione di un incontro telefonico tra Putin ed il Presidente neo-eletto. Tuttavia, secondo un alto funzionario che ha insistito per rimanere anonimo come condizione per parlare della programmazione interna del team di transizione, Trump non prevede al momento di incontrare Putin."
E perché mai Trump NON dovrebbe incontrare Putin? Forse per tutte le ingiurie senza fondamento con le quali i suoi avversari lo hanno subissato nel tentativo di deragliare la sua corsa? Casomai, proprio per questo dovrebbe essere ancora più determinato ad organizzare un tale incontro. Come se non bastasse, c'è parecchio lavoro di ricucitura da fare nei rapporti USA-Russia, dopo i danni causati dalla precedente amministrazione e dalla stampa, con la quale intratteneva una corrispondenza di amorosi sensi.
Gente! Avete perso! E di brutto. Datevi un contegno. Il mondo è cambiato. O vi adattate, o sparite. Ma qualcosa mi dice che il processo di adattamento potrebbe rivelarsi troppo duro per una parte degli attuali leader europei. Inevitabilmente, molti di loro non saranno leader molto a lungo.
Se Trump si avvicina a Putin, l'Europa non potrà che seguirlo. L'atteggiamento guerrafondaio dell'ultimo decennio dovrà cambiare. E non sarà certo facile per quei leader, che hanno coperto entrambi gli uomini dei peggiori insulti possibili. Chi non ce la farà sarà costretto ad andarsene. Ad esempio, Juncker:
È invece lampante che, in diversi paesi, una parte crescente della società civile e delle sfere politiche stia pensando e pianificando come seguire l'esempio degli inglesi. Junker farebbe meglio ad ascoltare le loro istanze piuttosto che cercare di ignorarle e negarle, se non vuole garantirsi di ottenere l'esatto contrario di quello che auspica.
La stessa elezione di Donald Trump è un segno inequivocabile di come molte cose nel mondo stiano andando molto male. La Brexit è un altro segnale che va nella stessa direzione. Dietro l'angolo, le prossime elezioni e consultazioni europee sono in agguato. Non importa neanche chi vincerà: gli scarti rischiano in molti casi di essere troppo di misura perché l'attuale establishment possa sentirsi al sicuro.
Nel frattempo, godendosi da fuori lo spettacolo, è impossibile rimanere seri mentre la retorica e le azioni stesse del vecchio assetto mondiale oggi gli si ritorcono contro. E tutto questo non c'entra nulla con l'essere pro-Trump o pro-Le Pen.
di Raùl Ilargi Meijer, 19.01. 2017
Traduzione di Margherita Russo
Io ci provo, giuro, a trattenermi, ma non ce la faccio a non ridere. Alla vigilia della sua presidenza, senza dire neanche una parola, Donald Trump ha detto in faccia ai leader europei che non contano niente. Non solo ha un'opinione sull'UE, e sulla sua rilevanza, molto diversa dalla loro, ma non ha nemmeno dimenticato come molti di loro si sono espressi nei suoi confronti durante la campagna elettorale.
Fatta eccezione per Nigel Farage e Marine Le Pen, tutti i leader europei hanno ridicolizzato e demonizzato apertamente Trump fin dal primo momento della sua candidatura. Gli insulti nei suoi riguardi erano simili a quelli generalmente riservati a Vladimir Putin, e, nella valanga di bufale che ha contrassegnato il 2016, i due sono spesso stati associati nei modi più disparati e per ragioni ipotizzate come evidenti, senza far mancare qua e là qualche grazioso riferimento a Hitler.
Adesso, chissà perché, sono tutti convinti che sia indispensabile incontrare Trump prima che questi incontri Putin, come se la sua concezione del mondo, e quella del suo stesso governo, fosse così instabile da potersi lasciare influenzare da un momento all'altro. Trump non ne vuole proprio sapere. E dopo essere stato paragonato a tutto il peggio possibile, chi può dargli torto?
Donald Trump ritiene, in gran parte a giusto titolo, che in troppi, soprattutto all'interno dell'UE, non si siano fatti troppi scrupoli nel disattendere il principio dell'innocenza fino a prova contraria. Di conseguenza, la verità è che oggi non gli piacciono abbastanza. Non gli hanno mostrato alcun rispetto, e lui queste cose non le dimentica. E da questo ne consegue una situazione assolutamente esilarante.
L'UE, come la cricca Obama/Clinton, si è impuntata su tutto e di più con Putin, e quindi per associazione - loro, non sua - anche con Trump. Non potevano mai immaginare che sarebbe stato eletto, e adesso non sanno più che pesci prendere (ma cominciare col chiedere scusa, ad esempio?).
AP News riferisce, anche se ancora una volta è necessario districarsi tra vaghe allusioni e supponenti scempiaggini (ma quando cresci, AP?):
Leader europei in affanno per ottenere udienza da Trump in tempi brevi
"I leader europei, preoccupati dall'imprevedibilità di Donald Trump e dalle sue amabili parole a sostegno del Cremlino, sono in affanno per cercare di ottenere un faccia a faccia con il nuovo Presidente americano prima che questi possa incontrare il Presidente russo Vladimir Putin, le cui provocazioni hanno creato scompiglio nel continente. Uno dei leader ha evocato la possibilità di un summit USA-EU per l'inizio dell'anno, ed anche il segretario generale della NATO — la potente alleanza militare considerata da Trump “obsoleta” — aspira ad incontrarlo personalmente prima che lo faccia Putin. Il Primo Ministro britannico Theresa May sta intanto organizzando un incontro a Washington poco dopo il venerdì dell'inaugurazione.
Per i Capi di stato europei, un meeting con il neo-eletto Presidente americano è un invito sempre molto ambito — e generalmente facile da ottenere. Ma Trump ha più volte infranto la prassi, e ciò li rende profondamente incerti circa la loro posizione dopo il suo insediamento. Durante tutta la sua campagna elettorale, e nelle più recenti interviste, Trump ha sempre messo in discussione la validità dell'UE e della NATO, elogiando nel contempo Putin e rivendicando posizioni in linea più con Mosca che con Bruxelles. “Sono in atto alcune iniziative da parte degli europei mirate a definire un incontro con Trump quanto prima,” ha dichiarato ad AP Norbert Roettgen, presidente della Commissione per gli Affari Esteri del Parlamento tedesco e membro del partito della Cancelliera Angela Merkel.
Stando alle dichiarazioni di un funzionario dell'Unione europea, anche Donald Tusk — l'ex-Primo Ministro polacco che presiede il Consiglio europeo— mosso dal desiderio di dare una prima dimostrazione della solidarietà transatlantica, ha invitato Trump ad incontrare l'UE all'inizio del mandato. Ma un consigliere senior di Trump ha praticamente declinato l'offerta, rivelando ad AP che un tale incontro non è una priorità per il neoeletto Presidente, che preferisce concentrarsi sugli incontri con i singoli paesi, piuttosto che con il blocco di 28 nazioni.
Trump appoggia l'uscita della Gran Bretagna dall'Unione Europea, individuando nei movimenti populistici anti-sistema i precursori della sua vittoria. In una recente intervista rilasciata a due quotidiani europei, parlando dell'UE Trump ha dichiarato. “non penso che conti molto per gli Stati Uniti.”
Fin qui tutto bene, ma poi ricomincia la retorica. Solo che loro chiamano ‘retorica’ le parole di Trump:
"Già soltanto la sua retorica sarebbe bastata a far suonare l'allarme in tutta Europa. Per di più, l'elogio di Trump a Putin e la promessa di rinsaldare i legami con Mosca hanno accentuato le perplessità. Trump ha evocato la possibilità di abolire le sanzioni contro Mosca ed è sembrato indifferente all'annessione territoriale dell'Ucraina da parte della Russia. L'hackeraggio degli avversari durante le elezioni presidenziali, ed il fatto che Trump abbia ignorato le segnalazioni della CIA sul ruolo della Russia, hanno poi aggiunto un tocco di spy story.
Le opinioni di Trump segnano una drammatica svolta nella visione repubblicana dell'Europa, appena una generazione dopo il famoso saluto di George H.W.Bush alla caduta della Cortina di Ferro, al grido di un'“Europa libera e unita.” Secondo quanto riportato da addetti alla fase di transizione, il Consigliere per la sicurezza nazionale di Trump è in stretto contatto con l'ambasciatore russo negli USA, e questi dialoghi hanno per oggetto la preparazione di un incontro telefonico tra Putin ed il Presidente neo-eletto. Tuttavia, secondo un alto funzionario che ha insistito per rimanere anonimo come condizione per parlare della programmazione interna del team di transizione, Trump non prevede al momento di incontrare Putin."
E perché mai Trump NON dovrebbe incontrare Putin? Forse per tutte le ingiurie senza fondamento con le quali i suoi avversari lo hanno subissato nel tentativo di deragliare la sua corsa? Casomai, proprio per questo dovrebbe essere ancora più determinato ad organizzare un tale incontro. Come se non bastasse, c'è parecchio lavoro di ricucitura da fare nei rapporti USA-Russia, dopo i danni causati dalla precedente amministrazione e dalla stampa, con la quale intratteneva una corrispondenza di amorosi sensi.
"[..] Alcuni membri dello staff hanno segnalato che uno dei primi incontri con Capi di stato stranieri alla Casa Bianca sarà con la May, Primo Ministro britannico insediatasi dopo il voto per l'uscita dall'UE. Il team del Presidente sta anche organizzando incontri a breve a Washington con i leader del Messico e del Canada, sempre secondo il consigliere di Trump. Salvo ulteriori preparativi, il primo incontro dell'anno tra Trump e Putin potrebbe non avvenire prima di luglio, quando i leader del Gruppo dei 20 si riuniranno ad Amburgo, in Germania — peraltro Trump non ha ancora confermato la sua presenza ai summit internazionali.
Se deciderà di esserci, alcuni leader europei potrebbero riuscire ad avere un faccia a faccia con lui a maggio, durante il previsto summit della NATO, oppure durante il meeting del più ristretto G7 in Italia. La Russia in passato ha fatto parte di quel gruppo, ma gli USA e l'Europa hanno allontanato Putin dopo l'annessione della Crimea dall'Ucraina. Se Trump dovesse adoperarsi per riportare la Russia all'interno, questa potrebbe essere una delle prime opportunità per capire da che parte sta.
“Se si inizia a porre sullo stesso piano democrazie e regimi non-democratici, alleati e avversari, si finisce col creare un pericoloso precedente,” ha detto Heather Conley, responsabile per il programma europeo del Center for Strategic and International Studies. Ha poi aggiunto che se Trump, una volta insediato, dovesse parlare con Putin prima che con gli europei, “questo dovrebbe mettere in guardia” gli alleati di lunga data degli Stati Uniti.
Gente! Avete perso! E di brutto. Datevi un contegno. Il mondo è cambiato. O vi adattate, o sparite. Ma qualcosa mi dice che il processo di adattamento potrebbe rivelarsi troppo duro per una parte degli attuali leader europei. Inevitabilmente, molti di loro non saranno leader molto a lungo.
Se Trump si avvicina a Putin, l'Europa non potrà che seguirlo. L'atteggiamento guerrafondaio dell'ultimo decennio dovrà cambiare. E non sarà certo facile per quei leader, che hanno coperto entrambi gli uomini dei peggiori insulti possibili. Chi non ce la farà sarà costretto ad andarsene. Ad esempio, Juncker:
Giù le mani dall'UE, Trump; Noi non sobilliamo l'Ohio alla secessione: Juncker
"Donald Trump dovrebbe smetterla di parlare della dissoluzione dell'Unione europea, ha detto mercoledì scorso il Capo dell'esecutivo, sottolineando che gli europei non spingerebbero mai l'Ohio ad uscire dagli Sati Uniti. Con taglienti battute fatte alla vigilia dell'inaugurazione della presidenza Trump, Jean-Claude Juncker si è detto convinto che la nuova amministrazione capirà come non sia opportuno compromettere i rapporti transatlantici, ma ha anche aggiunto che la direzione intrapresa da Trump rimane incerta.
Juncker ha dichiarato alla televisione tedesca BR, come si evince da una trascrizione dell'emittente di Monaco, di essere convinto che nessuno stato dell'UE intenda seguire l'esempio dell'Inghilterra e lasciare l'Unione, nonostante Trump abbia pronosticato nella stessa settimana che altri avrebbero abbandonato: “Trump non dovrebbe nemmeno incoraggiarli indirettamente a farlo,” ha detto Juncker. “Noi non andremmo mai ad aizzare l'Ohio perché esca dagli Stati Uniti.”
Il Presidente della Commissione europea Juncker ha poi precisato di non aver ancora parlato con Trump – contrariamente a quanto sostenuto dal neo-eletto Presidente all'inizio di questa settimana. Secondo Juncker, Trump deve averlo scambiato con il Presidente del Consiglio europeo Donald Tusk. “Trump ha parlato con Tusk e ci ha confusi l'uno con l'altro,” ha detto Juncker, lanciando una frecciatina in riferimento alla poca dimestichezza che il miliardario americano avrebbe con il suo nuovo ruolo. “Questa è una caratteristica della politica internazionale,” ha detto. “Sta tutto nei dettagli.”
È invece lampante che, in diversi paesi, una parte crescente della società civile e delle sfere politiche stia pensando e pianificando come seguire l'esempio degli inglesi. Junker farebbe meglio ad ascoltare le loro istanze piuttosto che cercare di ignorarle e negarle, se non vuole garantirsi di ottenere l'esatto contrario di quello che auspica.
La stessa elezione di Donald Trump è un segno inequivocabile di come molte cose nel mondo stiano andando molto male. La Brexit è un altro segnale che va nella stessa direzione. Dietro l'angolo, le prossime elezioni e consultazioni europee sono in agguato. Non importa neanche chi vincerà: gli scarti rischiano in molti casi di essere troppo di misura perché l'attuale establishment possa sentirsi al sicuro.
Nel frattempo, godendosi da fuori lo spettacolo, è impossibile rimanere seri mentre la retorica e le azioni stesse del vecchio assetto mondiale oggi gli si ritorcono contro. E tutto questo non c'entra nulla con l'essere pro-Trump o pro-Le Pen.
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