30/04/18

Le "Fake news" sono la reazione alla fine del monopolio della narrazione

Dal blog dell'economista serbo-americano Branko Milanovic, un'interessante riflessione di natura storica e geopolitica sull'isteria liberal per le fake news: è la reazione scomposta dell'establishment anglo-americano, abituato a detenere il monopolio informativo e narrativo globale fin dalla Seconda Guerra Mondiale, all'ingresso nello spazio mediatico unificato globale dei canali  informativi rivali (russi, cinesi, arabi, turchi, etc) che riescono non solo a rompere questo monopolio nei propri mercati di riferimento, ma perfino a sviluppare una narrazione alternativa del dominio anglo-americano nel cortile di casa dell'Occidente.

 

 

 

di Branko Milanovic, 18 febbraio 2018

 

Davvero poche persone riescono a trovare un senso nell'attuale isteria sulle "fake news" e quasi nessuno è disposto a inquadrarla nel contesto storico e a comprendere perché il problema sia sorto adesso.

 

La ragione per cui si è diffusa l'isteria, e specialmente negli Stati Uniti, è perché si tratta di  una reazione (più o meno comprensibile) alla perdita del potere monopolistico globale esercitato dai media anglo-americani, in particolar modo dal 1989, ma praticamente dal 1945 in poi.

 

Le ragioni del quasi-monopolio occidentale tra il 1949 e il 1989 (chiamiamola Fase 1) sono  molteplici: il grande flusso di notizie provenienti da canali di informazione come la BBC, e più tardi la CNN, molto maggiore rispetto a quelle fornite dalle agenzie nazionali in molti paesi; la portata molto più ampia dei grandi servizi informativi in lingua inglese: questi offrivano una copertura giornalistica di tutti i paesi, mentre i media nazionali potevano a malapena permettersi corrispondenti in due o tre delle maggiori capitali mondiali; la diffusione dell'inglese come seconda lingua; e ultimo, ma non meno importante, la migliore qualità delle notizie (ovvero la maggiore veridicità) rispetto a quelle reperibili nelle fonti nazionali.

 

Questi vantaggi dei media occidentali erano particolarmente evidenti ai cittadini del Secondo Mondo, dove i governi mantenevano una stretta censura, cosicché l'URSS doveva perfino arrivare all'estremo di bloccare le stazioni radio occidentali. Ma anche nel resto del mondo i media occidentali erano spesso migliori di quelli locali per le ragioni che ho menzionato.

 

Un lettore attento avrà notato che finora ho contrapposto i media globali anglo-americani a quelli nazionali o solamente locali. Ciò perché solo i primi avevano una portata globale e il resto dei media (a causa della mancanza di finanziamenti o di ambizione, del controllo governativo o della limitata diffusione della lingua) operava a livello puramente nazionale. Così i media inglesi e statunitensi hanno combattuto una battaglia impari con i piccoli giornali o TV nazionali. Non è sorprendente che i media globali anglo-americani siano stati capaci di controllare, in molti casi completamente, la narrazione politica. Non solo i media occidentali erano pienamente in grado di influenzare quello che (ad esempio) le persone in Zambia pensavano dell'Argentina o viceversa (perché probabilmente chi viveva in Zambia aveva a disposizione una copertura locale degli avvenimenti in Argentina prossima alla zero); soprattutto, a causa della maggiore apertura e migliore qualità dei media occidentali, questi erano in grado perfino di influenzare la narrazione pubblica all'interno dello Zambia o all'interno dell'Argentina.

 

I rivali globali che l'Occidente affrontava all'epoca erano risibili. Le radio ad onde corte cinesi, sovietiche e albanesi avevano programmi in molteplici lingue, ma le loro storie erano così insipide, noiose e irrealistiche che la gente che, di volta in volta, le ascoltava, lo faceva per lo più a scopo di divertimento.

 

Il monopolio dei media occidentali si è quindi ulteriormente espanso con la caduta del Comunismo (chiamiamola Fase 2). Tutti i paesi ex-comunisti dove i cittadini erano abituati ad ascoltare clandestinamente Radio Europa Libera erano adesso più che disponibili a credere nella verità di tutto quello che veniva diffuso da Londra e Washington. Molti di questi organi di informazione si installarono nell'ex Blocco Orientale (RFE oggi ha i l quartier generale a Praga).

 

Ma la luna di miele del monopolio globale occidentale iniziò a cambiare quando gli "altri" realizzarono che anche loro potevano provare a diventare globali, nell'unico spazio mediatico globale creato grazie alla globalizzazione e a Internet. La diffusione di Internet garantiva che si potessero produrre programmi e notizie in lingua spagnola - o araba - e che fossero guardati in ogni parte del mondo. Al Jazeera è stata la prima a intaccare pesantemente, e poi distruggere, il monopolio occidentale sulla narrazione del Medio Oriente in Medio Oriente. E adesso entriamo nella Fase 3. I canali turchi, russi e cinesi hanno quindi fatto lo stesso. Quanto successo nel mondo delle notizie ha avuto un parallelo in un'altra area in cui il monopolio anglo-americano era totale, ma poi ha iniziato a indebolirsi. Le serie TV globali che venivano esportate, di solito erano prodotte solamente negli USA - o in UK; ma presto hanno trovato rivali di grande successo nelle telenovelas latino-americane, nelle serie indiane e turche, e più recentemente russe. In realtà, questi nuovi arrivati hanno praticamente spinto le serie USA e UK quasi completamente fuori dai propri mercati "nazionali" (che, per esempio, per la Turchia include gran parte del Medio Oriente e dei Balcani).

 

Quindi è arrivata la Fase 4, quando altri media non-occidentali hanno capito che potevano provare a sfidare il monopolio informativo occidentale non solo all'estero, ma anche nel giardino di casa dei media occidentali. Questo è successo quando Al Jazeera-US, Russia Today, CCTV e altri sono entrate in scena con i loro programmi e le loro notizie in lingua inglese (e anche francese, spagnola, etc) orientate all'audience globale, inclusa quella americana.

 

Questo è stato in effetti un cambiamento enorme. Ed è il motivo per cui stiamo attraversando una fase di reazione isterica alle "fake news": perché è la prima volta che media non-occidentali stanno non solo creando la propria narrazione globale, ma stanno anche cercando di creare una narrazione dell'America.

 

Per la gente che viene da paesi piccoli (come me) questa è una  cosa del tutto normale: siamo abituati a stranieri che non solo nominano i nostri ministri ma che sono presenti in tutto lo spazio mediatico, e persino influenzano la narrazione della storia e della politica del paese, spesso perché la qualità delle loro notizie e delle loro borse di studio è migliore. Ma per molte persone negli USA e in UK questo è uno shock totale: come osano degli stranieri dir loro qual è la narrazione del proprio paese?

 

Ci sono due possibili esiti di questa situazione. Uno è che il pubblico statunitense dovrà rendersi conto che, con la globalizzazione, persino il paese più importante, come sono gli USA, non è immune dall'influenza degli altri; anche gli Stati Uniti, in confronto al resto del mondo nel suo complesso, diventano "piccoli". Un'altra possibilità è che l'isteria porterà alla frammentazione dello spazio di internet, come stanno già facendo Cina, Arabia Saudita e altri. Allora invece di una bella piattaforma globale per tutte le opinioni, torneremo indietro alla situazione pre-1945, con "stazioni radio" nazionali, reti internet locali, bando delle lingue straniere (e forse persino degli stranieri) sulle NatNets nazionali [gioco di parole basato sull'etimologia della parola internet,  sincrasi di International Network, i.e. rete internazionale, a cui vengono contrapposte le reti nazionali, i.e. National Networks, NatNets, ndt] - in sostanza avremo messo fine alla globalizzazione del libero pensiero e saremo tornati ad un genuino nazionalismo.

 

Le (sorprendentemente buone) conseguenze della Brexit

Ebbene, sì: l'avevamo detto. Che le conseguenze della Brexit non sarebbero sicuramente state quelle paventate dal coro interessato di prefiche della élite finanziaria e della stampa mainstream ce lo eravamo detto tante volte, pubblicando le traduzioni dei pochi (ma buoni) che ancora osano ragionare con la propria testa (scrivete "Brexit" nella casella del nostro motore di ricerca, gli articoli sono troppi per cercare di linkarli). Le conferme, del resto, sono fioccate subito: e oggi, a due anni dal referendum, lo si può vedere ancora più chiaramente in questa sintesi della situazione pubblicata su Investment U. Qualcuno dovrebbe dire "Mi ero sbagliato". E un dubbio è lecito: che ne sarà delle oscure profezie sull'uscita dell'Italia dall'euro? Saranno altrettanto (in)credibili?

 

 

 

di Alexander Green, 20 aprile 2018

 

All'indomani del risultato a sorpresa del referendum in Gran Bretagna, con cui nel giugno 2016 il Paese scelse di lasciare l'Unione Europea, le élite politiche e la stampa ufficiale si abbandonarono a una sorta di frenesia collettiva.

 

La loro deprimente lettura della situazione fu riassunta bene dal primo ministro olandese Mark Rutte, che insistette sul fatto che il Regno Unito sarebbe "collassato politicamente, monetariamente, costituzionalmente ed economicamente".

 

Mmmm...

 

Il voto provocò un brusco calo a breve termine dei mercati azionari globali e un immediato deprezzamento della sterlina.

 

Ed era comprensibile. Dopo tutto, la quinta maggiore economia mondiale aveva deciso di lasciare il blocco di 28 nazioni che formano l'Unione europea.

 

Ed essere membri dell'UE comporta molti vantaggi. L'UE è un mercato unico per lo scambio di beni e servizi, che comprende oltre 500 milioni di persone. Riduce le tariffe e altre barriere, stimolando la concorrenza e l'efficienza.

 

Ma aderire all'UE comporta anche una significativa rinuncia all'autonomia di ogni nazione. E questo aspetto non è mai stato granché apprezzato dagli inglesi.

 

Bruxelles estende i suoi tentacoli praticamente su ogni aspetto della vita dei Paesi membri, comprese le regole sull'immigrazione. Le sue pesanti regolamentazioni hanno interessato quasi il 70% delle attività del governo britannico.

 

Come commentava l'editorialista politico George Will all'epoca, "L'UE ha una bandiera che nessuno saluta, un inno che nessuno canta, un presidente di cui nessuno sa il nome e una burocrazia ingessata che nessuno apprezza".

 

I grandi esperti però stabilirono che il voto "leave" avrebbe provocato un disastro.

 

Noi l'abbiamo pensata esattamente al contrario, definendolo "l'evento più significativo nella storia del dopoguerra della Gran Bretagna" e sottolineando una serie di eccellenti opportunità di investimento.

 

Diageo (NYSE: DEO), Rio Tinto (NYSE: RIO) e HSBC Holdings (NYSE: HSBC) sono solo tre delle raccomandazioni sul mercato inglese che ci hanno proficuamente ripagato negli ultimi due anni.

 

Ma come sono andate le cose, più in generale?

 

Fraser Nelson, giornalista della rivista inglese The Spectator ed editorialista del Daily Telegraph, lo ha sintetizzato bene in un recente editoriale sul The Wall Street Journal:

 

- Nel periodo precedente al referendum del 2016, il Fondo monetario internazionale aveva previsto che un voto favorevole alla Brexit avrebbe comportato un crollo dei prezzi delle azioni e degli immobili e una flessione degli investimenti esteri. (E invece tutti e tre hanno raggiunto livelli record. Solo negli ultimi 18 mesi, l' iShares MSCI Regno Unito ETF (NYSE: EWU) ha guadagnato oltre il 20% in dollari).

 

- Barclays, Credit Suisse e Nomura avevano previsto che l'economia britannica nel 2017 si sarebbe contratta. (Si è espansa).

 

- L'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico aveva avvertito che consumatori, spaventati, avrebbero ridotto le loro spese. (Hanno speso di più).

 

- Il Tesoro britannico aveva dichiarato che l'economia sarebbe "caduta in recessione, con quattro trimestri di crescita negativa", mentre "la disoccupazione sarebbe aumentata fino a circa 500.000 unità, con tutte le regioni che avrebbero registrato un aumento del numero di persone senza lavoro". (Invece, la crescita economica ha accelerato, l'occupazione è aumentata di 560.000 unità e attualmente la disoccupazione si è attestata al suo minimo da 43 anni.)

 

- Nel frattempo, il numero di cittadini britannici che hanno un lavoro ha toccato il livello record. I nuovi ordini per i produttori sono al loro massimo livello nell'intera generazione.

 

- La disuguaglianza di reddito si avvicina al livello minimo degli ultimi 30 anni, secondo l'Office for National Statistics.

 

- I salari sono cresciuti. L'inflazione ha appena toccato il suo minimo annuale. E l'indice di felicità nazionale è al culmine.

 

 

Questo sorprende un tremendo numero di soloni, non ultimo l' editorialista del New York Times Paul Krugman, un uomo non esattamente famoso per il suo understatement.

 

La settimana dopo il voto sulla Brexit, strigliò “i davvero pessimi giornalisti dei tabloid britannici, che hanno dato in pasto al pubblico una continua sfilza di bugie”, nonché David Cameron, colui che "sarebbe passato alla storia come l'uomo che ha rischiato di distruggere l'Europa e la sua stessa nazione per un vantaggio politico momentaneo."

 

Krugman ha un fantastico curriculum di errori, in effetti. (Dopotutto è lo stesso personaggio che nel 1998 notoriamente dichiarò che Internet "non avrebbe avuto un maggior impatto sull'economia di quello avuto dal fax").

 

Ma come mai così tanti altri espertoni hanno sbagliato così tanto?

 

Perché non fanno che crogiolarsi a vicenda nei pregiudizi e nelle opinioni negative gli uni degli altri, per poi produrre pronostici - sulla spesa dei consumatori, sugli investimenti e sulla produttività - che risultano essere delle assurdità.

 

La sintesi finale, quasi due anni dopo il voto sulla Brexit? L'economia del Regno Unito sta andando bene. Londra rimane uno dei grandi centri finanziari del mondo (alcuni direbbero il grande centro finanziario). E il valore delle azioni britanniche vola sempre più in alto.

 

Ringraziate il vostro pessimista locale. Ci rendono tutto più facile.

 

 

29/04/18

Nuove frontiere della pediatria: descrivere l'allattamento al seno come "naturale" non è etico perché rinforza i ruoli di genere

Questo articolo, apparso sull'Independent Women's Forum, denuncia uno studio pubblicato su una rivista accademica di pediatria in cui il delirio liberal progressista arriva a stravolgere lo stesso concetto di "naturale" per costringerlo entro i limiti del tristissimo politicamente corretto. Un tentativo di manipolazione mentale, che minaccia la base stessa delle funzioni naturali degli essere umani, rispetto al quale è molto importante restare vigili.
di Jillian Kay Melchior,  26 aprile 2018

 

Un nuovo studio pubblicato su Pediatrics afferma che è "eticamente inappropriato" per il governo e le organizzazioni mediche descrivere l'allattamento al seno come "naturale", perché il termine impone nozioni rigide sui ruoli di genere:

 

"Associare la natura alla maternità  ...può inavvertitamente sostenere argomentazioni biologicamente deterministiche sul ruolo degli uomini e delle donne nella famiglia (per esempio, che dovrebbero essere principalmente le donne a prendersi cura dei bambini)".

 

Lo studio rileva che negli ultimi anni, il Dipartimento USA sulla Sanità e i Servizi sociali, l'American Academy of Pediatrics, l'Organizzazione mondiale della sanità e diversi dipartimenti sulla sanità a livello nazionale hanno tutti promosso l'allattamento al seno rispetto all'allattamento artificiale, definendolo con il termine "naturale".

 

"Fare riferimento al 'naturale' nella promozione dell'allattamento al seno... può inavvertitamente sostenere una serie di valori sulla vita familiare e sui ruoli di genere, che sarebbero eticamente inappropriati”, dice lo studio.

 

A meno che tali annunci di pubblicità-progresso non "rendano trasparenti i valori e le convinzioni che li sottendono", "dovrebbero fare a meno di dichiarare che l'allattamento al seno è 'naturale' ".

 

E tuttavia  le autrici dello studio, Jessica Martucci e Anne Barnhill, hanno chiaramente in mente una serie alternativa di "valori e credenze" che non sono affatto resi trasparenti.

 

Non è chiaro se le autrici dello studio siano preoccupate di come i tradizionali ruoli di genere possano limitare l'avanzamento delle donne nel mondo del lavoro, o se questa preoccupazione riguardi il fatto che le visioni convenzionali sulla maternità escludono le persone transessuali. O forse questo è soltanto un altro esempio di come l'ossessione progressista per il genere e la sessualità abbia ormai permeato tutti i campi degli studi accademici.

 

In ogni caso, Martucci e Barnhill mascherano i loro reali obiettivi portando avanti anche l'argomento secondario, poco convincente, che descrivere l'allattamento al seno come "naturale" alimenti il movimento anti-vaccini.

 

Quando gli annunci di pubblicità- progresso esaltano l'allattamento al seno come "naturale", sostengono Martucci e Barnhill, l'implicazione è che i prodotti fabbricati o prodotti in serie siano discutibili o pericolosi - quindi queste promozioni potrebbero involontariamente incoraggiare i genitori a rifiutare il progresso scientifico anche in altri campi.

"Se fare ciò che è 'naturale' è 'meglio' nel caso dell'allattamento al seno, come possiamo aspettarci che quella visione del mondo potente e profondamente persuasiva venga ignorata dalle madri quando fanno delle scelte sulle vaccinazioni?”, scrivono.

 

C'è certamente una visione del mondo assertiva che pervade tutto questo articolo, e tuttavia non la troviamo né potente né profondamente persuasiva.

 

 

— Jillian Kay Melchior scrive per  Heat Street ed è membro del Steamboat Institute e del Independent Women’s Forum.

28/04/18

Il confine svizzero dimostra che la libertà di circolazione funziona perfettamente anche senza unione doganale

Daniel Hannan sul Sun espone la posizione di chi ha sostenuto e sostiene la Brexit, ma vorrebbe evitare fastidiosi confini coi propri vicini (per la Gran Bretagna, soprattutto con l'Irlanda) e al contempo stare fuori dall'unione doganale della UE. La risposta ideale esiste già: la Svizzera, il cui confine è attraversato ogni giorno da milioni di persone, senza barriere militarizzate, ma anche mantenendo la piena autonomia sull'imposizione dei dazi (chi importa in Svizzera può dichiarare facilmente tutto online). È contro l'interesse dei britannici rimanere nell'unione doganale dopo l'uscita dalla UE, perché questo imporrebbe loro di seguire la stessa politica dei dazi del resto della UE, senza che i partner commerciali siano vincolati a reciprocare, ma c'è chi sta cercando la soluzione peggiore per la pessima ragione di far pagare un costo per la Brexit.

 

 

di Daniel Hannan, 24 aprile 2018

 

Personalmente attraverso il confine tra l’Unione Europea e la Svizzera ogni mese. E non ci farei nemmeno caso, se non sapessi che è lì.

 

La maggior parte degli spostamenti tra i paesi UE e i loro vicini non sono presidiati. Alcuni sono proprio invisibili.

 

È vero che ci sono delle cabine sul posto di frontiera con la Svizzera, ma queste servono per lo più a garantire che i veicoli stranieri comprino i contrassegni stradali per poter circolare sulle strade svizzere. I punti di dogana risalgono a quando gli esportatori non potevano ancora presentare le proprie dichiarazioni via internet.

 

Il confine svizzero è attraversato ogni giorno da 2,4 milioni di persone – si tratta di un numero colossale per un paese con una popolazione di appena 8,4 milioni di abitanti.

 

E 440.000 cittadini svizzeri vivono in UE, una proporzione molto maggiore [rispetto alla popolazione complessiva] se confrontati ai 1,2 milioni di britannici nella stessa condizione.

 

La Svizzera riesce a vendere [esportare] verso la UE, per ciascuno dei propri cittadini, cinque volte di più di quanto faccia la Gran Bretagna.

 

Ma qui è il punto. La Svizzera sta fuori dall’unione doganale della UE, e lì praticamente nessuno vorrebbe farne parte.

 

La Svizzera è la risposta a quelli che dicono che l’unione doganale è il modo migliore per evitare un inopportuno confine con l’Irlanda.

 

O, almeno, è una mezza risposta. L’altra mezza è la Turchia.

 

La Turchia è l’unico paese, ad eccezione dei microstati come Monaco, che sia nell’unione doganale pur essendo al di fuori della UE. Nonostante ciò la sua frontiera è molto più presidiata dalla polizia di quanto lo sia quella svizzera.

 



Nella foto sopra, confine tra Turchia e UE (in Bulgaria)

 

In altre parole, essere in un’unione doganale non fa scomparire i confini.

 

Ma se vogliamo rendere i confini il più discreti possibile, la Svizzera è il miglior punto di riferimento da cui partire.

 

Il suo accordo di libera circolazione con i suoi vicini è simile a quello che già esiste tra il Regno Unito e l’Irlanda.

 

E in effetti le cose con l’Irlanda dovrebbero andare anche in modo più facile. Ogni giorno 23.000 camion trasportano beni per milioni di euro tra il confine svizzero e quello UE.

 

A confronto, più del 90 percento del commercio tra Regno Unito e Irlanda è est-ovest anziché nord-sud.

 

Certo, il modo di evitare i controlli in Irlanda sarebbe quello di avere un ampio accordo commerciale tra Gran Bretagna e UE, che fornisca un reciproco riconoscimento. È su questo che Theresa May sta lavorando fin dall’inizio.

 

Ma allora perché gli eurofili di qui stanno lavorando con Bruxelles per rendere l’Irlanda un ostacolo a un simile accordo?

 

Non dovrebbero tutti, sia i sostenitori del Remain che quelli del Leave [cioè sia i pro che contro la Brexit, NdT] essere favorevoli al più ampio accordo possibile con i nostri vicini?

 

Ci sono diverse motivazioni in atto, alcune delle quali piuttosto spiacevoli. Gli eurocrati credono, evidentemente, che se la Brexit sarà sufficientemente dura, alla fine faremo marcia indietro e resteremo.

 

In assenza di quello, vogliono tenerci bloccati nel loro accordo commerciale perché, come ha spiegato Katya Adler della BBC, sono terrificati all’idea di avere un “paese ultra-competitivo” al proprio confine.

 

Alcuni parlamentari anti-Brexit vorrebbero capovolgere l’esito del referendum. “Guardate”, sembrano voler dire, “l’accordo commerciale promesso da chi ha voluto la Brexit non ci viene offerto. Dobbiamo ripensarci”.

 

Certo, è il loro stesso comportamento che fa temporeggiare Bruxelles. Perché mai dovrebbero firmare un ampio accordo commerciale, se il Parlamento britannico sembra potergli offrire qualcosa di molto meglio, e cioè una sottomissione permanente dei britannici alle regole UE?

 

Il ministro degli esteri Boris Johnson avrebbe detto privatamente che, senza un’uscita dall’unione doganale e il recupero del nostro diritto a siglare accordi commerciali indipendenti, la Brexit non ha nemmeno senso di esistere.

 

Ha totalmente ragione. Alcuni vedono la permanenza nell’unione doganale come una specie di compromesso. Se fosse vero potrebbe aver senso.

 

Il voto per la Brexit, dopotutto, non è stato a valanga. Dovremmo quindi cercare dei compromessi, restare in alcuni programmi della UE, permettere ai cittadini dei paesi UE di venire a cercare lavoro, e magari rientrare nella Associazione europea di libero scambio.

 

Ma restare nell’unione doganale non è un compromesso, non è come mangiare un hamburger a media cottura perché metà della nazione lo voleva ben cotto e l’altra metà lo voleva al sangue. Sarebbe più come buttare l’hamburger nel cestino e mangiarsi il tovagliolo.

 

Come ha notato Lord Hill, il nostro ex Commissario Europeo fermamente anti-Brexit, sarebbe come lasciare che Bruxelles ci detti il proprio accordo commerciale coi paesi non-UE senza che noi potessimo profferire parola. La realtà è ancora peggio.

 

Se la UE dovesse raggiungere un accordo commerciale, diciamo, con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna dovrebbe rispettare ciascun singolo punto deciso dalla UE a 27 paesi [cioè senza la Gran Bretagna, NdT]. Ma gli Stati Uniti, a quel punto, potrebbero anche decidere di non rispettare lo stesso patto con la Gran Bretagna singolarmente.

 

I laburisti lo sanno perfettamente. Come ha detto il loro portavoce Barry Gardiner: “La UE potrebbe fare un accordo con qualsiasi paese – diciamo con l’America – e noi nel Regno Unito vi saremmo vincolati.

 

Dovremmo accettare la liberalizzazione del nostro mercato. E perché mai l’America dovrebbe darci lo stesso accesso, quando ha ottenuto tutta la liberalizzazione che voleva del nostro mercato?

 

Proprio così, Barry.

 

Lo ha detto, ovviamente, prima che i laburisti vedessero in questo un’opportunità per mettere in imbarazzo il governo, o perfino per indire nuove elezioni, e allora hanno cambiato posizione.

 

Oggi Barry vuole mantenere un accordo a cui Jeremy Corbyn si era opposto ancora pochi mesi fa, a gennaio, sostenendo l’argomento indiscutibilmente socialista secondo il quale l’unione doganale “ci protegge dai paesi in via di sviluppo”.

 

I laburisti stanno incredibilmente sostenendo uno di quegli aspetti della UE a cui si erano sempre opposti, tornando così direttamente agli anni ’50.

 

Vogliono mantenere in opera dei dazi che non solo danneggiano molti paesi poveri, ma causano anche l’aumento del costo del cibo, del vestiario e delle scarpe in Gran Bretagna, colpendo così le famiglie a basso reddito delle quali i laburisti vorrebbero ergersi a paladini.

 

Nessun altro paese confinante accetterebbe simili termini dell’accordo. Non lo farebbero gli svizzeri, né i norvegesi, né i serbi, né gli albanesi. Perfino l’entrata della Turchia nell’unione doganale è solo parziale, ed è intesa come un primo passo verso una piena appartenenza.

 

Ankara è stata a gemere per su questo per 20 anni, e per buoni motivi.

 

I laburisti, assieme ai liberal democratici, all’SNP e ad alcuni conservatori ribelli, stanno chiedendo un accordo peggiore di quello che esiste per qualsiasi paese confinante con la UE.

 

Non possiamo dare la colpa agli eurocrati se si approfittano delle nostre debolezze. Dobbiamo dare la colpa a quei parlamentari britannici e ai loro simili che creano questa situazione.

 

Avrebbero ogni diritto di cercare di ammorbidire la Brexit. E invece stanno sostenendo ciò che sanno essere un pessimo esito nella speranza di capovolgere il voto popolare.

26/04/18

Sarà l'Armenia la nazione designata per il prossimo cambio di regime sostenuto dall'Occidente?

In Armenia sta scoppiando l'ennesima rivoluzione colorata, con gli stessi ingredienti di quelle già viste in Nordafrica, Ukraina e in tanti altri paesi ancora. L'obiettivo è sempre lo stesso, fomentare una guerra per procura tra Occidente e Russia, per il controllo del Caucaso. Questo focolaio di tensione è particolarmente preoccupante perché si trova proprio alle porte della Russia, e la crisi rischia di precipitare rapidamente. Un nuovo scenario di guerra rischia di aprirsi in un momento già delicatissimo per l'equilibrio geopolitico globale.

 

 

 

di Frank Sellers 18 aprile 2018

 

 

Decine di migliaia di manifestanti sono scesi in strada in tutte le principali città dell'Armenia quando il presidente uscente, Serzh Sargsyan, è stato eletto Primo Ministro dal Parlamento. L’evento è stato percepito come un abuso di potere, poiché Sargsyan conserverà in gran parte gli stessi poteri che aveva ricoperto durante i suoi due mandati presidenziali. Questa dinamica si svolge subito dopo la transizione armena del 9 aprile da regime presidenziale a regime parlamentare.

 

 

Diverse organizzazioni non governative (ONG) sponsorizzate dall'Occidente sono pesantemente coinvolte nel sistema educativo, nei servizi sociali e nelle associazioni caritatevoli dell'Armenia post-sovietica. Queste ONG hanno venduto al pubblico l’idea che i problemi economici dell'Armenia siano il diretto risultato di un governo corrotto, amico della Russia, e della stessa Russia.

 

 

Di conseguenza, le proteste si basano sull'idea che il governo di Sargsyan abbia solo peggiorato le cose per la popolazione. Dal momento che Sargsyan è ritenuto essere in combutta con i russi, e visto l’ulteriore sviluppo dei legami armeni con la Russia, queste proteste assumono quindi un valore potenzialmente disastroso, sia a livello nazionale, per gli armeni, sia geopoliticamente, poiché minacciano la posizione della Russia nella regione.

 

 

Tuttavia, negli ultimi anni l'Armenia ha giocato su entrambi i fronti, poiché si è anche avvicinata all'Unione europea con la ratifica di un accordo di cooperazione generale e rafforzata con il blocco europeo, ed ha approfondito i legami diplomatici ed economici con l’Occidente, mentre contemporaneamente assumeva impegni nell'ambito delle iniziative economiche russe nella regione. La Russia ha una brutta reputazione perché nel conflitto nel Nagorno Karabakh-Azerb sta facendo il doppio gioco, dato che sponsorizza entrambe le parti, e la percezione comune, derivata dalla propaganda di queste ONG, è che la Russia ricavi vantaggio dall’aggravarsi del conflitto.

 

 

La situazione, in effetti, ha il potenziale di una polveriera, con tutti gli elementi per innescare un malcontento popolare tale da consentire un tentativo di cambio di regime. E, in effetti, questo scenario ha tutte le caratteristiche di una rivoluzione colorata, ed il leader del movimento, Nikol Pashinyan, l’ha già definita una "rivoluzione di velluto", un richiamo al cambio di regime avvenuto in Cecoslovacchia nel 1989.

 

 

Pashinyan ha invitato i manifestanti a bloccare le strade e impedire l'apertura di uffici governativi, ed è arrivato perfino ad affermare che il governo armeno "non ha più legittimità" e che tutte le agenzie governative e il personale di polizia dovrebbero rispondere alle "commissioni" nominate dalla sua rivoluzione.

 

 

Tenete presente, tuttavia, che Sargsyan non ha, finora, infranto alcuna legge, né violato la costituzione armena, quindi la denuncia di illegittimità da parte di Pashinyan può essere vista solo come un'istigazione infondata ad ulteriore violenza e un ostinato rifiuto di accettare qualsiasi compromesso o risoluzione pacifica della situazione attuale. L'indisponibilità al compromesso soddisfa uno dei fattori chiave che si riscontrano comunemente in molte rivoluzioni colorate.

 

 

Il tipico modo in cui avvengono le rivoluzioni colorate appoggiate dall'Occidente è quello in cui una protesta pacifica basata su legittime rimostranze viene dirottata per diventare il catalizzatore di una rivoluzione violenta. Se consideriamo la rivoluzione EuroMaidan avvenuta nel 2014, una protesta pacifica è diventata violenta dopo il massacro dei "cento eroi celesti" da parte di misteriosi cecchini, che ha fatto vittime sia tra la polizia che tra i manifestanti, finché il conflitto ha raggiunto un punto di non ritorno (qui un clamoroso quanto poco pubblicizzato reportage sulle verità nascoste della strage di Maidan, ndt) .

 

 

 

Ad oggi, la situazione nelle strade di Yerevan sembra andare nella stessa direzione, poiché le proteste sono già diventate semi-violente, e diversi agenti di polizia hanno riportato ferite da coltello. C’è da notare che questo tipo di comportamento è estraneo alla cultura armena. Quando avvengono queste tragedie, provocatori occidentali sono spesso presenti a fomentare il caos. Nella foto di alcuni degli assalitori, si noti che l’uomo a sinistra non è armeno.

 

 



 

 

Nel gennaio 2015, Sargsyan ha portato l'Armenia ad aderire al Partenariato per la pace, cosicché oggi coopera militarmente sia con le forze russe all'interno dell'Armenia che con la NATO, oltre a far parte dell'Unione Economica Eurasiatica guidata dalla Russia.

 

 

Sei mesi dopo questi accordi con la Russia, il governo armeno si è trovato ad affrontare disordini popolari finalizzati a un cambio di regime, come la rivolta soprannominata "Electric Yerevan", dove a provocare il tumulto civile era il proposto aumento dei prezzi dell'elettricità. Nikol Pashinyan ha assunto una posizione di prominenza in questo movimento, così come in quello che è attualmente in corso a Yerevan e in tutta l'Armenia.

 

 

Circa un anno dopo sono scoppiate rivolte a seguito dell'arresto di un leader dell'opposizione e le proteste sono rapidamente divenute violente, arrivando fino alla presa di ostaggi e all’uccisione di due agenti di polizia in servizio, mentre i media occidentali e l'ambasciata degli Stati Uniti in Armenia si sono schierati dalla parte dei rapitori. Nel seguente video, prodotto dai media tedeschi, possiamo vedere che alcuni di questi elementi fanno presagire una rivoluzione colorata sostenuta dall'occidente, e quali siano i fattori geopolitici coinvolti.

 

 

https://www.youtube.com/watch?time_continue=3&v=GEXGAl_L53E

 

 

Molti armeni sono persuasi che cambiando il loro governo e rifiutando la Russia come partner strategico dell'Armenia, nella speranza di un'integrazione con l’occidente, l'Armenia raggiungerà maggiori opportunità economiche e un tenore di vita notevolmente più alto per i suoi cittadini. Eppure, cosa ci insegna la storia sui cambiamenti di regime appoggiati dall'Occidente e le conseguenze sulle nazioni interessate? Basta considerare la situazione economica in Ucraina prima e dopo il colpo di stato, come riportato da Vesti:

 

 

"I risultati del nuovo governo sono semplicemente disastrosi per il paese. Nell'anno precedente al colpo di stato, il PIL era stimato sui $180 miliardi, nel 2017 si prevede che sarà la metà, $90 miliardi.

 

Il salario medio nel paese si è più che dimezzato, da $408 al mese a $ 196 l'anno scorso. Il tasso di cambio dell'hryvna è calato di tre volte e mezzo, da 8 a 27 per dollaro. Poiché le principali imprese high-tech sono state distrutte, l'economia ha acquisito una struttura coloniale.

 

Sempre più materie prime vengono esportate, pari a circa l'80% delle esportazioni. La metà di queste sono nel settore agrario. Il volume totale delle esportazioni è diminuito del 57%. Gli investimenti esteri diretti sono diminuiti di almeno quattro volte, da 6 miliardi all'anno a un miliardo e mezzo. Praticamente niente. E di questo niente, tuttavia, la maggior parte degli investimenti proviene ancora dalla Russia.

 

Il debito pubblico è aumentato continuamente e ora è diventato insostenibile. Da 64 miliardi di dollari è arrivato a 80 miliardi. Molti milioni di cittadini hanno lasciato il paese alla ricerca di una vita migliore. Alcuni di loro sono andati in Occidente, alcuni in Russia. Il sistema sanitario e il sistema educativo sono distrutti.

 

Così come il sistema processuale. Il saccheggio delle società è diventato la norma. La corruzione è aumentata. Il paese è in pezzi.

 

Poroshenko e la sua squadra hanno ingannato tutti: l'Occidente, la Russia e il loro popolo, per quanto riguarda le prospettive del paese, le pratiche del nuovo governo e gli Accordi di Minsk."

 

 

Il voltafaccia alla Russia e l'adesione all'Occidente, tuttavia, non solo non produrrà il risultato economico che molti armeni sembrano sperare, ma presenta un pericolo molto reale sotto forma di una maggiore escalation del conflitto con il vicino Azerbaijan, per la questione del Nagorno Karabakh. L'ultimo conflitto in questa regione è costato la vita a circa 6.000 armeni e circa 30.000 azeri.

 

 

Inoltre, se queste proteste continueranno a degenerare nella violenza e insisteranno a chiedere un cambio di regime, e se il governo invece di dimettersi a favore dell'opposizione scegliesse di coinvolgere l'esercito, la situazione potrebbe portare a una destabilizzazione del paese. Durante questo periodo di caos, non è impensabile che gli azeri possano cogliere l'opportunità di lanciare una nuova campagna per prendere il Nagorno Karabakh, mentre il governo e le forze armene sono occupate  altrove a preservare l'ordine .

 

 

Un nuovo conflitto tra Armenia e Azerbaijan produrrebbe risultati semplicemente imprevedibili, con implicazioni geopolitiche sul ​​coinvolgimento della Russia e della NATO, visto che l'Armenia ospita basi militari russe mentre l'Azerbaijan ospita una base NATO. Ma se gli armeni dovessero interrompere i rapporti con i russi in favore dell'Occidente, il coinvolgimento russo resterebbe in una zona di incertezza, perché il conflitto sconvolgerebbe le prospettive economiche e militari della Russia nella regione. Questa rischia dunque di essere la prossima guerra per procura tra la Russia e l'Occidente.

 

 

Queste proteste sono estremamente pericolose, non solo a livello regionale, ma anche per l'equilibrio geopolitico di potere tra est e ovest, per le conseguenze che ne potrebbero scaturire se dovessero andare avanti incontrollate. Benché le proteste contro il governo di Sargsyan non rappresentino nulla di nuovo, tenendo conto degli sviluppi degli ultimi anni, quelle in atto al momento differiscono dalle predenti perché, se le rivolte precedenti erano limitate solo a Yerevan, attualmente i disordini sono su scala nazionale, e quindi rappresentano una pericolo maggiore. Nel frattempo, gli armeni in buona fede non si rendono conto che la loro protesta viene utilizzata dalle potenze internazionali come una semplice pedina su uno scacchiere globale.

 

 

25/04/18

Assad e Putin impediscono agli ispettori di visitare il sito del presunto attacco chimico? È una fake news. L’OPCW dichiara che è stata l’ONU a rallentarli

Come riporta Zero Hedge, continua la valanga di fake news sui media mainstream riguardo al presunto attacco chimico di Duma. Per giustificare un’azione militare contro uno Stato sovrano prima che gli ispettori internazionali potessero verificare quanto effettivamente avvenuto, le istituzioni occidentali hanno iniziato a parlare di ostruzionismo da parte delle autorità russe e siriane nei confronti dell’OPCW. È la stessa OPCW a smentire queste voci, mentre intanto i giornalisti entrati a Duma non trovano alcuna traccia di un attacco chimico, e si moltiplicano le testimonianze secondo cui si sarebbe trattato di una messinscena orchestrata dai famigerati Caschi Bianchi.

 

 

 

di Tyler Durden, 22 aprile 2018

 

Dopo diversi giorni di ritardo trascorsi all’interno dell’arco di sicurezza del centro della città di Damasco, il gruppo di osservatori internazionali sulle armi chimiche, l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPCW), ha annunciato che la sua squadra di investigatori è finalmente entrata nella città di Duma, sobborgo di Damasco, la mattina di sabato.

 

In una dichiarazione ufficiale online, l’OPCW ha confermato quanto segue:

 

“La squadra della Missione per la ricerca di prove (FFM - Fact Finding Mission, ndt) dell’Organizzazione per la Proibizione di Armi Chimiche (OPCW) ha visitato oggi uno dei siti di Duma, nella Repubblica Araba Siriana, per raccogliere campioni per le analisi in relazione alle accuse di utilizzo di armi chimiche il giorno 7 aprile 2018. L’OPCW valuterà la situazione e deciderà i prossimi passi, inclusa un’altra possibile visita a Duma.


 


La missione per la ricerca di prove dell’OPCW studierà inizialmente i campioni prelevati in un laboratorio OPCW in Olanda, ma è possibile che i campioni siano distribuiti in altri suoi laboratori designati.


 


In passato ci sono volute anche diverse settimane o mesi per la pubblicazione di un report preliminare per il pubblico.”


 

La dichiarazione prosegue:

 

"I campioni prelevati saranno trasportati al Laboratorio dell’OPCW di Rijswijk e poi spediti per le analisi ai laboratori selezionati dell’OPCW. Sulla base delle analisi dei campioni, oltre ad altre informazioni e materiali raccolti dalla squadra, la Missione di accertamento dei fatti stenderà il suo rapporto per presentarlo agli Stati Membri della Convenzione per le Armi Chimiche per le loro considerazioni."


 

Non è chiaro se tra questi siano inclusi campioni di tessuto prelevato dai cadaveri, dato che ormai ci sono diverse voci secondo le quali il gruppo jihadista che occupava precedentemente l’area – Jaish Al-Islam – ha sepolto frettolosamente i corpi delle presunte vittime dell'aggressione chimica.

 

Nonostante la squadra sia stata invitata nel paese dai governi siriano e russo – entrambi aderenti all’ente internazionale per lo smantellamento dello stock di armi chimiche proibite – c’è stata molta opacità e molti tentativi di spin sul perché la squadra sia stata ritardata, e diversi media occidentali hanno falsamente sostenuto che la Siria e la Russia stavano cercando di coprire le prove.

 

Questa accusa si basava in parte su affermazioni non verificate di leader politici occidentali, che da molto tempo perseguono l’uscita di scena di Bashar Al-Assad, e che hanno fornito aiuto sotto copertura a vari gruppi di jihadisti ribelli.

 

Per esempio, il Ministro degli Esteri francese ha accusato sia Damasco sia la Russia di “ostruzionismo che sta ovviamente danneggiando la portata dell’inchiesta. Probabilmente lo scopo è rimuovere le prove e altri elementi materiali legati all’attacco chimico nel sito stesso dove è avvenuto”.

 

Tuttavia, nonostante i molti titoloni sulla stampa internazionale, e le molte dichiarazioni di leader occidentali e di giornalisti che se ne stanno a grande distanza dalla Siria, secondo cui sarebbe in corso una cospirazione per coprire l’attacco chimico, l’OPCW ha emesso un comunicato ufficiale confermando che non sono state le autorità russe o siriane a impedire agli ispettori di visitare Duma, bensì il Dipartimento di Protezione e Sicurezza delle Nazioni Unite (UNDSS), che ha l’ultima parola sugli spostamenti dell’OPCW in Siria.

 

Mercoledì 18 aprile il Direttore generale dell’OPCW Ahmet Üzümcü ha diramato un comunicato che ha smentito la teoria “la Siria/Russia sta nascondendo le prove”:

 

“Il 16 aprile abbiamo ricevuto conferma dall’Autorità Nazionale della Repubblica Araba Siriana che, nel rispetto degli accordi raggiunti per consentire l’evacuazione della popolazione in Gouta, l’esercito siriano non poteva entrare a Duma. La sicurezza del sito dove la FFM prevede di operare è sotto il controllo della Polizia militare russa. Il Dipartimento di Protezione e Sicurezza delle Nazioni Unite (UNDSS) ha concluso i necessari accordi con le autorità siriane perché la squadra sia scortata fino a un punto determinato, dopo il quale la scorta sarà garantita dalla Polizia Militare russa.


 


Tuttavia, la UNDSS ha preferito prima condurre una visita di ricognizione al sito, che ha avuto luogo ieri. I membri della squadra FFM non hanno partecipato alla visita.


 


All’arrivo al sito 1, si è radunata una grande folla  e l'UNDSS ha dato parere che il team di ricognizione avrebbe dovuto ritirarsi. Al sito 2, la squadra è stata bersaglio di armi da fuoco leggere ed è stato fatto detonare un esplosivo. Il team di ricognizione è tornato a Damasco."


 

 

Anche se la dichiarazione dell’OPCW riconosce ulteriormente che l’area è un “ambiente molto instabile” flagellato da “rischi per la sicurezza” – diversi giornalisti sono in realtà riusciti a raggiungere Duma all’inizio della settimana, prima dell’arrivo dell’OPCW.

 

Alcuni tra quelli che hanno avuto accesso al sito, come per esempio il britannico Robert Fisk dell’Independent e Pearson Sharp di One America News Network non hanno trovato alcuna prova che sia avvenuto un attacco chimico a Duma, al contrario di quanto è stato ampiamente riportato sui media internazionali.

 

 

24/04/18

25 aprile - Unione monetaria: un punto di vista italiano

La memoria del 25 aprile non dovrebbe essere pretesto per esercizi di retorica, nel migliore dei casi vacui e nel peggiore strumentali a posizioni contrarie agli interessi veri e profondi del nostro Paese. Per celebrare degnamente il giorno della Liberazione, riproponiamo un articolo di Alberto Bagnai, che analizza la crisi dell'eurozona e le sue conseguenze dal punto di vista dell'Italia, segnalando ancora una volta come il vincolo esterno legato alla moneta unica sia diventato un mezzo per orientare il processo democratico a dispetto della volontà popolare - e agire sulla distribuzione del reddito. Onorare il 25 aprile per noi significa difendere la sovranità e la democrazia in Italia.

 

 

Nel primo dei due capitoli scritti per L’euro est-il mort?, libro pubblicato in Francia che raccoglie i contributi di più autori coordinati dall’economista Jacques Sapir,  Alberto Bagnai - ben noto ai nostri lettori per il blog Goofynomics e presidente dell'associazione a/simmetrie - analizza la crisi dell’eurozona con l’aiuto dell’esperienza italiana, particolarmente utile da due punti di vista: perché l’Italia stessa è un’unione monetaria che non è un’area valutaria ottimale e ne ha già sperimentato le conseguenze; e perché le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell'unione europea: utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Senza il “sogno europeo”, il “ce lo chiede l’Europa” e le crisi generate dalla moneta unica non sarebbe stato possibile realizzare il programma di “riforme strutturali” che hanno indebolito e impoverito i lavoratori e in generale le fasce di popolazione più deboli. Il vero successo dell'euro, amaramente, è stato questo.

 

 

di Alberto Bagnai, ottobre 2016

 

 

Leuro e il declino delleconomia italiana

 

Adam Smith ce l’aveva ben detto, nel terzo capitolo del primo libro de «La ricchezza delle nazioni»: la divisione del lavoro è limitata dalla dimensione del mercato. Non ci si può aspettare che un produttore privo di sbocchi sul mercato sia spinto ad adottare innovazioni e quindi aumentare la produttività. A che cosa gli servirebbe produrre di più, o produrre a un costo più basso, se non ha qualcuno a cui vendere? La produttività non è una questione puramente esogena o tecnica. Nell’economia classica (Smith), come in quella keynesiana, e, ci permettiamo di aggiungere, nell’economia tout court, la produttività dipende anche dalla domanda.
Che cosa c'entra questo con l'Italia?

 

L'evento che più salta all’occhio nell'economia italiana degli ultimi trent'anni è senza dubbio l'improvviso arresto del tasso di crescita della produttività del lavoro, che si manifesta poco dopo la metà degli anni 90. Dal 1971 al 1996 la produttività del lavoro era aumentata a un tasso medio annuale del 2.7%, non lontano dal 3.0% della Francia e dal 2.9% della Germania. Tra il 1997 e il 2010 il tasso di crescita in Italia crolla allo 0.3%, mentre rimane all'1.4% in Francia e all'1.3% in Germania. È nel 1997 che comincia il declino dell'economia italiana, questo è un fatto così evidente che anche i sostenitori dell'euro sono costretti ad ammetterlo. In effetti il 1997 è un anno cruciale nel percorso verso la moneta unica. I paesi candidati infatti si erano impegnati ad adottare, nei due anni precedenti all'entrata in vigore dell'euro, una parità fissa rispetto all'ECU. Questo punto determinante sfugge ai più: per quello che riguarda il rapporto tra i paesi europei, l'euro in effetti ha inizio nel 1997, perché è a partire da questa data che i tassi di cambio tra i futuri paesi membri sono resi fissi (con margini di oscillazione molto ridotti).

 

La rigidità del tasso di cambio comporta una riduzione pressoché immediata del tasso di crescita delle esportazioni. La chiusura degli sbocchi sui mercati esteri, dove i prodotti italiani diventavano progressivamente sempre meno competitivi, produsse gli effetti che erano già chiari a Smith nel XVIII secolo, e sarebbero stati studiati più approfonditamente da Kaldor nel XIX: un circolo vizioso di caduta della produttività, che provoca una caduta della competitività, che causa una caduta delle esportazioni, che comporta un ulteriore calo della produttività. La crescita media dell'economia italiana tra il 1980 e il 1997 era stata del 2.3%. Dal 1997 alla crisi del 2009 scende all'1.3%. Se si tiene conto anche degli anni della crisi, dal 1997 al 2015 la crescita media è stata dello 0.4%. Il PIL nel 2015 era uguale a quello del 2000. L’Italia è tornata indietro di 15 anni e questa catastrofe senza precedenti nella sua storia e senza uguali oggi nell'eurozona dipende in larga misura dal fatto che la crisi ha colpito un'economia sofferente e in declino. Un declino che coincide con ciò che ne è stato la causa: l'adozione de facto dell’euro.[i]

 

 

LItalia e leuropeismo

 

Forse è per questo che, quando si affronta l'argomento dell'euro in Italia, è ormai difficile trovare qualcuno disposto a sostenere che la moneta unica ci protegge dalle crisi. I fatti dimostrano che argomenti economici di questo tipo erano falsi. Chi difende il progetto ora cerca piuttosto di mettere in rilievo la sua dimensione politica, che sarebbe soprattutto quella di favorire il superamento degli Stati-nazione. Questi ultimi, ci dicono, sarebbero la causa dei conflitti. Di conseguenza, per assicurare la pace ai popoli europei, bisogna spazzare via il «nazionalismo», creando un immenso Stato federale, di cui l'euro sarebbe un simbolo. In più, questo aiuterebbe gli Stati «piccoli», come l'Italia, a difendersi meglio dai «grandi» paesi emergenti. Diversi politologi (in particolare Majone e Zielonka) sottolineano che questo implica un modo di ragionare un po' assurdo: per combattere il nazionalismo si ricorre a un nazionalismo di ordine superiore[ii].

 

I grandi Stati federali, così come li conosciamo, derivano soprattutto dall'antico impero britannico (Stati Uniti, Canada, Australia, India). In realtà sono Stati-nazione, dove la lingua e le istituzioni inglesi sono dominanti (con l'eccezione dell'India, dove le differenti culture locali sono state difficili da sradicare e dove quindi la struttura federale non ha consentito di evitare numerosi conflitti). In Europa, gli Stati-nazione si affermano con i Trattati di Westfalia (1648), che misero termine alle guerre di religione. Le loro costituzioni sono uno strumento di protezione dei diritti fondamentali, a cui sarebbe pericoloso rinunciare senza sapere esattamente da che cosa sarebbero sostituite. È stata la Nato, e non l'Europa, che ci ha assicurato fino a oggi un lungo periodo di pace (o meglio, di guerra fredda), e tra le cause dell'ultima guerra mondiale c'è stato l'errore che Keynes aveva denunciato in anticipo: schiacciare la Germania sotto il suo debito di guerra.[iii] Prostrare un paese sotto il peso di un debito insostenibile: è esattamente lo stesso errore che si sta ripetendo oggi con la Grecia, e questo per salvaguardare l'euro «che porta la pace».

 

C'è forse del metodo, in questa follia europeista. In fondo, tutte le unioni monetarie sono, per definizione, strumenti di integrazione finanziaria, concepiti per facilitare il libero movimento dei capitali. Ora, la liberalizzazione dei movimenti dei capitali comporta una compressione dei redditi da lavoro[iv]. L'accanimento con cui le élite europee difendono la moneta unica, nonostante i suoi limiti evidenti, potrebbe quindi spiegarsi con la volontà di proteggere i profitti a spese dei salari.

 

Certo, si tratta di un obiettivo politicamente legittimo. Tuttavia, due cose dovrebbero metterci in guardia. Da una parte, il fatto che ormai la Banca centrale europea (BCE) si preoccupa per le conseguenze negative dei bassi salari sulla deflazione, e quindi sulla ripresa dell’economia europea.[v] Forse il bel gioco è durato troppo? Dall’altra, dovrebbe allarmarci il modo sottilmente sleale attraverso il quale il progetto europeo è stato presentato come qualcosa di cui non si poteva neppure discutere, viste le sue nobili intenzioni (garantire la pace) e le cui conseguenze economiche sarebbero andate a vantaggio delle classi sociali più deboli (perché l’euro le avrebbe «protette», e la «grande Europa politica» li avrebbe aiutati a combattere il «grande capitale internazionale»).
Nell'analisi dell'attuale vicolo cieco in cui si trova l'Europa, l'esperienza italiana può aiutarci. Nel percorso storico e politico italiano, due elementi sono a mio parere utili a questo scopo. Il primo è che l'Italia, proprio come la zona euro della quale fa parte, è essa stessa un'unione monetaria, che non è un'area valutaria ottimale, a causa delle profonde differenze strutturali tra Nord e Sud del paese. Gli italiani vivono quotidianamente i problemi che sorgono quando regioni troppo diverse si riuniscono sotto una stessa moneta, e hanno dovuto imparare ad affrontare questi problemi. Il secondo è che le élite italiane hanno dichiarato molto esplicitamente quali erano, dal loro punto di vista, gli obiettivi dell'unione europea. Si trattava, infatti, di utilizzare il vincolo esterno legato alla moneta unica per orientare il processo democratico e in questo modo la distribuzione del reddito. Se, come fa osservare Featherstone, dalla creazione - nel 1979 - del sistema monetario europeo il vincolo esterno in Europa è stato applicato un po' dappertutto per influenzare le politiche nazionali, la sua filosofia politica non è mai stata espressa così chiaramente come dagli esponenti politici italiani (al punto che perfino nella letteratura scientifica internazionale si usa l'espressione italiana «vincolo esterno»).[vi]

 

 

LItalia come unione monetaria

 

Nel 2006, uno studio della Banca d’Italia faceva osservare che 145 anni dopo l'unificazione monetaria dell’Italia (realizzata contemporaneamente all'unificazione politica), i livelli dei prezzi e i tassi d'inflazione nelle differenti regioni e province non convergevano ancora del tutto.[vii] Un fenomeno molto intrigante. Infatti, stando alla teoria economica ortodossa, a determinare il livello dei prezzi è la quantità di moneta circolante. Sarebbe dunque logico attendersi che a una moneta unica corrisponda un livello di prezzi, o almeno un'inflazione, unici. Questo studio mostra che in Italia non va affatto così. Uno studio successivo mostrò che la medesima cosa succedeva su scala europea, dove si assiste a una divisione dei paesi in tre «club d’inflazione»: i paesi del Nord (che convergono verso un' inflazione bassa), l’Italia (con un'inflazione media), e i paesi del Sud (con un'inflazione relativamente elevata).[viii] L'esperienza delle regioni italiane suggerisce tuttavia che questo stato di fatto è destinato a persistere molto a lungo, il che significa che bisognerà attendere molto tempo perché tutti i paesi europei convergano verso il medesimo tasso di inflazione.

 

Da questi fatti statistici derivano due conseguenze significative.
In primo luogo, il fatto che una moneta unica conduca comunque a livelli di inflazione diversi rimette in discussione l'ingenua convinzione che sia la moneta che «causa» i livelli dei prezzi. Non si tratta di un'osservazione puramente teorica, al contrario: si tratta di una constatazione politica. L'inizio della terza globalizzazione (la globalizzazione «finanziaria») è stato caratterizzato da due importanti riforme istituzionali: la liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali e l'affermazione del principio dell'indipendenza dai governi della Banca centrale.[ix] Quest'ultimo si traduce nella proibizione rivolta alla Banca centrale di finanziare programmi di spesa pubblica attraverso l'emissione di moneta (incluso l'acquisto di titoli di debito pubblico al momento dell'emissione).

 

Questo divieto, giustificato all'epoca con la necessità di contenere l'inflazione legata all'impennata del prezzo del petrolio, ha avuto come conseguenza quella di obbligare gli Stati sovrani a rivolgersi ai mercati finanziari (e dunque in misura sempre crescente agli investitori internazionali) per soddisfare i loro bisogni di finanziamento. Si partiva dal principio che questo avrebbe sottoposto i governi, potenzialmente corrotti o miopi, alla disciplina dei mercati, visto che questi si sarebbero rifiutati di finanziare governi inefficienti.

 

Alla base di questo approccio, c'era l'idea che, poiché è la moneta che provoca l'inflazione, lasciando la gestione della massa monetaria nelle mani dei governi, questi ne avrebbero sicuramente approfittato a fini elettorali, provocando di conseguenza un aumento dell'inflazione.

 

Tuttavia, il fatto che da una parte una moneta unica possa coesistere con tassi di inflazione diversi e divergenti e dall'altra che la creazione massiccia di moneta da parte della BCE non sia riuscita a rianimare l'inflazione in Europa ci permette di vedere chiaramente che il legame tra massa monetaria e inflazione non è automatico. Questo spiega perché a una moneta unica non corrisponde un'inflazione unica. L'esperienza europea (e prima di questa l'esperienza italiana) ormai ci conferma che la dinamica dei prezzi è legata ad altri elementi strutturali di un sistema economico, in particolare al mercato del lavoro: è il tasso di disoccupazione, e non quello di creazione di moneta, che regola il tasso d'inflazione.[x] Questo d'altra parte spiega perché è nel sud d'Italia, dove la disoccupazione è maggiore, che l'inflazione è più bassa. Se però la moneta non causa l'inflazione, non è più giustificabile la decisione di sottrarne la gestione ai governi per garantire la stabilità dei prezzi. Se cade questa motivazione, bisogna dunque che ci domandiamo quale sia la giustificazione per proibire il finanziamento monetario del debito pubblico. In effetti, l'idea di sottomettere gli Stati alla disciplina dei mercati o, in altri termini, di privatizzare il più possibile il circuito del risparmio e dell'investimento, sembra un po' superata, in un periodo in cui si assiste alla crisi mondiale di questi stessi mercati.

 

Il fatto che una moneta unica non garantisca la convergenza dei tassi d'inflazione ha un'altra conseguenza importante. Se infatti non si produce una convergenza, la moneta unica non può garantire che il rapporto tra i prezzi dei beni prodotti all'interno di un paese e quelli prodotti all'estero, quello che si definisce il tasso di cambio «reale», sia stabile. Nei paesi dove l'inflazione è più bassa, questo rapporto avrà la tendenza a diminuire. Si assisterà così a quella che si definisce una svalutazione del tasso di cambio reale, che corrisponde a un miglioramento della competitività, e comporta un surplus commerciale, al quale dovrà necessariamente corrispondere un deficit da qualche altra parte (nei paesi dove l'inflazione è più alta). Se il paese più forte avesse la sua propria valuta, questa tendenza sarebbe compensata da una rivalutazione del suo tasso di cambio: la moneta del paese forte diventerebbe anch'essa più forte, perché tutti la richiederebbero per acquistare i beni che produce.
Ma se la moneta è unica, il paese più forte non può rivalutare, il che vale a dire che non può riallineare la sua moneta alla sua produttività. Il peso dell'aggiustamento sarà allora sostenuto dai paesi che, per svariate ragioni (storiche, tecnologiche, sociali, culturali) in quel momento sono meno produttivi.

 

Negli anni '80 c'era la tendenza a interpretare questi fenomeni in un'ottica moralistica. Il deficit commerciale, si diceva, spronerà i deboli a correggersi. Un eccesso persistente di importazioni crea necessariamente un debito estero (perché bisogna pagare i beni che si acquistano all'estero) e una perdita di posti di lavoro (perché le importazioni non creano lavoro nelle regioni di destinazione, ma in quelle di provenienza). I paesi deboli si troveranno dunque di fronte a un dilemma: o diventare più produttivi (in modo da poter avere prezzi meno elevati) o perdere posti di lavoro, e sceglieranno per forza di cose la strada giusta, cioè fare le riforme necessarie a diventare più produttivi.

 

L'idea secondo cui, una volta buttati nella piscina della moneta unica, i paesi più deboli avrebbero volenti o nolenti imparato a nuotare era di per sé piuttosto autoritaria e sorda allo spirito di «solidarietà» e «unione sempre più stretta» declamato dal progetto europeo. In più, era smentita dall'esperienza italiana, e anche dalla più recente esperienza tedesca, che dimostrava che le regioni più deboli non riescono a recuperare facilmente il loro ritardo, quando sono schiacciate dal peso di una moneta troppo forte.[xi]

Infine, questa idea era un po' ingenua, nel senso che è ingenuo illudersi che, in mancanza di una rivalutazione della valuta del paese forte, la riduzione dei prezzi nel paese debole possa sistemare le cose. Certo, in linea di principio per far scendere i prezzi basta essere più produttivi: se lo stesso lavoratore produce il doppio dei beni, i beni possono essere venduti a metà prezzo.  Ma un aumento della produttività non si ottiene dall'oggi al domani. Questo meccanismo non è compatibile con l'urgenza generata dalle crisi finanziarie.

 

Quando scoppia la crisi, è piuttosto la disoccupazione (o la chiusura delle aziende) che assicura la moderazione dei prezzi. Se però la disoccupazione persiste, i lavoratori si trasferiscono. Per gli economisti «ortodossi» è un bene: il tasso di disoccupazione scende, perché, dopo che i disoccupati se ne sono andati, non ci sono più disoccupati. Pangloss non saprebbe dirlo meglio!

 

Gli economisti keynesiani hanno invece il buon senso di rendersi conto che questi disoccupati sono anche clienti delle aziende locali: la loro uscita di scena provoca quindi una crisi di domanda, che fa sprofondare le regioni deboli nella trappola del sottosviluppo. Se calano gli acquirenti locali, bisogna andare a caccia di mercati all'estero, e per farlo è necessario tagliare ancora maggiormente il costo del lavoro, ovvero i redditi dei lavoratori, spingendo ulteriormente a calare la domanda interna, in una spirale senza fine.

 

Del resto, è proprio questo che spiega la mancata convergenza dei prezzi tra le regioni italiane. La svalutazione «interna» (vale a dire la contrazione dei salari) è un meccanismo molto più lento e inerziale della svalutazione «esterna» (abbassamento del tasso di cambio della valuta nazionale). Una volta che il processo di aggiustamento è avviato, è difficile interromperlo al momento giusto, soprattutto se per favorirlo si sono messe in atto riforme strutturali (come il «jobs act» italiano o la «loi travail» francese). Il rischio è quindi di ritrovarsi intrappolati in una spirale deflazionistica. È quello a cui abbiamo assistito per decenni in Italia ed è quello da cui ci mette in guardia oggi la BCE a livello europeo.

 

Ci sono studi che dimostrano che la rigidità del tasso di cambio si accompagna a una crescita più debole.[xii] Non c'è da stupirsene: quando il meccanismo di aggiustamento si basa sulla diminuzione dei salari, è necessario che aumenti la disoccupazione (perché in caso contrario i lavoratori non accetterebbero la riduzione dei loro redditi). Ma è il lavoro che crea il valore. Un sistema economico che si riequilibra attraverso la disoccupazione è dunque destinato a creare meno valore.

 

L’esperienza italiana ci mostra che in questo gioco nessuno è vincitore. Se le regioni del Nord per un certo periodo hanno potuto sfruttare quelle del Sud come fonte di manodopera a basso costo, e allo stesso tempo come mercato per i prodotti delle loro industrie, a lungo termine la divergenza tra le due parti del paese risulta un rischio per la crescita, che compromette la stabilità finanziaria e finisce col creare tensioni secessioniste (rappresentate in Italia dalla Lega Nord). Lo stesso scenario si presenta oggi su scala europea.

 

 

Unione monetaria e  «vincolo esterno» tra economia e politica

 

Quanto detto finora non è una novità. Nel 1996, Rudiger Dornbusch (MIT) già sosteneva che «la critica più seria che si può rivolgere a un’unione monetaria è che abbandonando gli aggiustamenti ottenuti attraverso il tasso di cambio è destinata a trasferire al mercato del lavoro il compito di regolare la competitività e i prezzi relativi… Le perdite di prodotti e di lavoro finiranno col prevalere…».[xiii] Due anni più tardi, Paul Krugman segnalava che «il pericolo più evidente e più immediato è che l’Europa diventi giapponese: che scivoli inesorabilmente nella deflazione, e che nel momento in cui i banchieri centrali decidono di mollare la presa, sia troppo tardi».[xiv] Ben prima, nel 1971, Nicholas Kaldor (Cambridge) aveva stabilito un punto: «Sarebbe un errore pericoloso credere che l’unione economica e monetaria possa venire prima dell’unione politica, perché se la creazione dell’unione monetaria e il controllo della Comunità sulle finanze nazionali provocano tensioni che portano al crollo del sistema, l’unione monetaria avrà impedito lo sviluppo di una unione politica, invece di favorirlo».[xv]

 

Oggi sta accadendo proprio quello che gli economisti più autorevoli avevano previsto: siamo in deflazione, perché gli aggiustamenti agli shock esterni (come la crisi dei «subprimes») si sono trasferiti sul mercato del lavoro (e quindi sui salari, attraverso l’aumento della disoccupazione), cosa che ha messo sotto pressione le economie nazionali e ha allontanato le prospettive fondate di una unione politica.

 

Da questo punto di vista, si può dunque affermare che l’euro è uno dei più grandi successi della scienza economica: tutto quello che questa aveva previsto si è realizzato, ed esattamente nel modo in cui la scienza economica l’aveva previsto.[xvi] Si sarebbe tentati di concludere che l’unione monetaria è stata al contrario una grande sconfitta della politica: dopo avere ignorato gli avvertimenti degli economisti, i politici non hanno raggiunto nessuno degli obiettivi che ostentavano (prosperità, stabilità, pace) e ci si può chiedere se mai li raggiungeranno. Tuttavia il dibattito politico italiano ci offre una visione più sfumata, che cercherò di descrivere partendo dalle dichiarazioni di tre dei nostri uomini politici che hanno ricoperto ruoli di responsabilità in Europa.

 

Nel 2001, Romano Prodi (all’epoca presidente della Commissione Europea) affermò: «Sono sicuro che l’euro ci obbligherà a introdurre nuovi strumenti di politica economica. È politicamente impossibile proporli adesso, ma un giorno ci sarà una crisi e si creeranno questi nuovi strumenti ».[xvii]

 

Quali erano questi strumenti che si ritenevano necessari, ma non erano proponibili politicamente? Ovviamente, tutto ciò che poteva portare a una maggior flessibilità verso il basso dei salari. A questo riguardo si può citare Tommaso Padoa-Schioppa (allora membro del comitato esecutivo della BCE, e in seguito ministro nel governo Prodi): «Nell’ Europa continentale, un programma completo di riforme strutturali deve oggi spaziare nei campi delle pensioni, della sanità, del mercato del lavoro, della scuola e in altri ancora. Ma dev’essere guidato da un unico principio: attenuare quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità».[xviii]

 

Chiaramente, l'idea di essere riavvicinati bruscamente alla durezza del vivere non poteva sorridere agli elettori. Questa durezza, in particolare la disoccupazione, è stata usata per assicurare la flessibilità dei salari verso il basso: il meccanismo di aggiustamento ritenuto essenziale alla sopravvivenza della moneta unica, e che oggi è in fase di accartocciarsi su se stesso in una crisi deflazionistica (come Krugman aveva previsto). Ma se anche questo meccanismo potesse funzionare, tuttavia, resterebbe un piccolo problema: i salari, in una economia capitalistica, costituiscono il reddito della maggioranza dei cittadini. Questo rende di per sé poco politicamente sostenibile un sistema economico che a ogni crisi esige di ridurli. A questo proposito, nel 1998, Mario Monti (allora Commissario europeo per il mercato interno) aveva dichiarato: «Tutto sommato, alle istituzioni europee interessava che i Paesi facessero politiche di risanamento. E hanno accettato l’onere dell’impopolarità essendo più lontane, più al riparo, dal processo elettorale».[xix]

 

L'esperienza italiana ci offre quindi una nuova griglia analitica, coerente con le dichiarazioni dei politici italiani: a quanto pare, le élite dei paesi dell'UE periferici, come l'Italia, volevano smantellare e privatizzare lo stato sociale (Padoa Schioppa), sotto la pressione di una situazione di emergenza causata da crisi economiche (Prodi), utilizzando l'UE come capro espiatorio (Monti). Si tratta di una dinamica politica che è stata teorizzata e analizzata da molti autori, tra cui Featherstone.

 

L'adesione all'euro, e in precedenza al Sistema monetario europeo, ha creato un "vincolo esterno" il cui scopo era quello di garantire la sostenibilità politica del progetto, a molti livelli: in primo luogo, perché le crisi che il processo di integrazione monetaria rende inevitabili, aprono finestre di opportunità per l'avanzamento del progetto di unione politica. È la teoria di Jean Monnet, secondo il quale «l’Europa sarà costruita attraverso le crisi e sarà la somma delle soluzioni apportate a queste crisi».[xx] Inoltre, le crisi finanziarie permettono di proporre ai cittadini, come misure di emergenza, tagli di bilancio i cui effetti sulla distribuzione del reddito saranno permanenti.[xxi]

 

Ancora, perché ciò consente di attribuire a un ente "terzo", "indipendente" e soprattutto sottratto al controllo diretto degli elettori, vale a dire "l'Europa", la responsabilità delle politiche regressive che gli stessi elettori avrebbero respinto se fossero state proposte dai governi nazionali. È qui che le parole di Monti sono coerenti con l'analisi di Featherstone del "vincolo esterno”: dato che la moneta unica non è compatibile con il modello europeo di tutela del lavoro, quest'ultimo deve cedere il passo alla prima.
Per garantire il successo di questo progetto politico, che era, in sostanza, un progetto di redistribuzione del reddito, bisognava presentarlo come il risultato inevitabile di fenomeni incontrollabili (come ad esempio la globalizzazione) ed errori del passato (la prodigalità dei governi). La realtà era un po' diversa: lo smantellamento dello stato sociale e del sistema di protezioni del lavoro non mirava al consolidamento dei bilanci pubblici, che non ne avevano bisogno,[xxii] quanto piuttosto a promuovere l'aggiustamento verso il basso dei salari, meccanismo essenziale in un regime di moneta unica.

 

Da questo punto di vista, l’euro è stato senza alcun dubbio un grande successo. Ormai in Italia più o meno tutti ammettono che lo spauracchio del debito pubblico non giustificava le riforme realizzate negli ultimi cinque anni (dalla riforma delle pensioni, a quella della scuola, a quella del codice del lavoro, come suggerito da Padoa Schioppa). L’insorgere della crisi bancaria ha mostrato a tutti che il problema era altrove, vale a dire nel circuito finanziario privato, e non in quello pubblico.[xxiii] Impoverire un intero paese con politiche di imposte più alte e tagli alle prestazioni sociali ha peggiorato la situazione, ma cancellare i risultati di questi errori non sarà facile.

 

 

[i][i] Bagnai, A. 2016. Italy’s decline and the balance-of-payments constraint: a multicountry analysis. International Review of Applied Economics, 20, 1-26.

 

[ii] Giandomenico Majone (2014) Rethinking the union of Europe post-crisis  Has integration gone too far?, Cambridge: Cambridge University Press; Jan Zielonka (2014) Is the EU doomed?, Cambridge: Polity Press.

 

[iii] John Maynard Keynes (1931) Essays in persuasion, London: MacMillan.

 

[iv] Su questo ultimo punto, Davide Furceri et Prakash Loungani (2015) « Capital Account Liberalization and Inequality »,IMF Working Papers 15/243, International Monetary Fund.

 

[v] Banca Centrale Europea (2016) « Economic Bulletin », n. 3 (marzo).

 

[vi] Kevin Featherstone K. (2001) “The political dynamics of the vincolo esterno: the emergence of EMU and the challenge to the European social model”, Queens Papers on Europeanisation, 6, Belfast: Queens University.

 

[vii] Fabio Busetti, Silvia Fabiani, Andrew Harvey (2006) "Convergences of prices and rates of inflation," Temi di discussione (Economic working papers) 575, Bank of Italy, Economic Research and International Relations Area.

 

[viii] Fabio Busetti, Lorenzo Forni, Andrew Harvey, Fabrizio Venditti (2007) "Inflation Convergence and Divergence within the European Monetary Union," International Journal of Central Banking, vol. 3(2), pp. 95-121, giugno.

 

[ix] Carmen M. Reinhart, Belen Sbrancia (2011) “The liquidation of government debt”, BIS Working Papers, n. 363, novembre

 

[x] Questo approccio è ormai condiviso dalla Banca Centrale Europea (op. cit.).

 

[xi] L'esperienza tedesca è descritta da Vladimiro Giacché (2013) Anschluss. Lannessione. Lunificazione della Germania e il futuro dellEuropa. Reggio Emilia: Imprimatur Editore.

 

[xii] Eduardo Levy-Yeyati, Federico Sturzenegger (2003) "To Float or to Fix: Evidence on the Impact of Exchange Rate Regimes on Growth," American Economic Review, vol. 93(4), pp. 1173-1193; Martin T. Bohl, PhilipMichaelis, Pierre L. Siklos (2016) “Austerity and recovery: Exchange rate regime choice, economic growth, and financial crises”, Economic Modelling, vol. 53, pp. 195-207

 

[xiii] Rudiger Dornbusch (1996) “Euro fantasies”, Foreign Affairs, vol. 75, n. 5 (la traduzione è nostra).

 

[xiv] Paul Krugman (1998) “The euro: beware of what you wish for”, Fortune, dicembre (la traduzione è nostra).

 

[xv] Nicholas Kaldor (1971) “The Dynamic Effects of The Common Market”, The New Statesman, 12 marzo.

 

[xvi] Restano da spiegare le complesse ragioni che hanno portato la maggior parte degli economisti a difendere, al momento della sua crisi, il medesimo progetto del quale avevano preannunciato il faIlimento.

 

[xvii] Romano Prodi (2001) “Prodi pledges to make role more visible after attacks on leadership”, intervista sul Financial Times, 5 dicembre 2001, p. 1 (edizione di Londra).

 

[xviii] Tommaso Padoa Schioppa (2003) “Berlino e Parigi: ritorno alla realtà”, Il Corriere della Sera, 26 agosto 2003.

 

[xix] Federico Rampini (1998), Intervista sull’Italia in Europa, Roma, Bari: Laterza.

 

[xx] Jean Monnet (1976) Mémoires, Paris: Fayard.

 

[xxi] Ishac Diwan (2001) “Debt as Sweat: Labor, financial crises, and the globalization of capital”, mimeo, World Bank.

 

[xxii] Commission Européenne (2012), “Fiscal sustainability report”, settembre.

 

[xxiii] Richard Baldwin, Francesco Giavazzi (2015) The Eurozone crisis: a consensus view of the causes and a few possible solutions, Londre: CEPR Press-

 

23/04/18

Affrontare la carenza di infrastrutture in Europa: vincoli di spesa e capacità di pianificazione

Le politiche di consolidamento fiscale, provocando un vero crollo degli investimenti per infrastrutture, hanno ostacolato la crescita in Europa e ampliato le divergenze tra Paesi. Lo documenta uno studio sulla spesa per infrastrutture nei Comuni condotto dalla Banca Europea degli Investimenti: un terzo dei Comuni ha riferito di investimenti nelle infrastrutture insufficienti negli ultimi anni. E più di due terzi hanno citato come motivo i limiti di spesa imposti dalle regole sul bilancio. I Comuni più svantaggiati hanno carenze peggiori, più che proporzionalmente. I non sorprendenti danni delle politiche di austerità vengono documentati ed emergono con sempre maggiore chiarezza. Sorprende piuttosto la conclusione degli autori: di fronte alla denuncia da parte del 75% dei Comuni del grosso ostacolo costituito dai vincoli fiscali, lungi dall'osare metterli in discussione, si limitano a proporre una rituale maggior coordinazione (senza scordare naturalmente l'appello al coinvolgimento dei privati). Insomma, per fare le nozze basterebbe coordinare meglio i fichi secchi.

 

 

Di Philipp-Bastian Brutscher e Andreas Kappeler, 18 aprile 2018

 

 

 

 

Adeguate infrastrutture sono essenziali  per la crescita. Dopo l'esplosione della crisi finanziaria, tuttavia, gli investimenti per le infrastrutture del settore pubblico in UE sono diminuiti. Questo articolo utilizza i dati di una recente indagine per esplorare le cause delle carenze di infrastrutture in Europa. I risultati suggeriscono che sono necessari maggiore coordinamento e pianificazione per i progetti infrastrutturali, sia a livello di UE che a livello dei singoli Stati. Anche gli sforzi per attrarre investitori privati ​​devono continuare.

 

La necessità di investire di più nelle infrastrutture europee è stata ampiamente discussa nel contesto del quadro finanziario pluriennale dell'UE 2020. E giustamente: la crescita economica a lungo termine dell'UE e dell'economia globale dipende in modo critico dalla disponibilità di un'infrastruttura adeguata e all'avanguardia (UE 2018). Un ampio corpus di letteratura ha sottolineato l'importanza delle infrastrutture per l'aumento della produttività (Berg et al., Calderon e Serven 2014) e per rendere la crescita economica più inclusiva e sostenibile (Woetzel et al. 2016, UN 2016).

Gli investimenti in infrastrutture nell'UE sono oggi pari all'1,8% del PIL, secondo il rapporto sugli investimenti della BEI 2018. Questo significa che il livello è inferiore del 20% rispetto al periodo precedente alla crisi, benché negli ultimi anni il calo degli investimenti infrastrutturali sembri essersi stabilizzato. La diminuzione è stata più pronunciata nel settore dei trasporti (BEI 2017).

 

Figura 1 Investimenti in infrastrutture per settore e fonte, 2005-2016

 

Per settore:



 

Per fonte:

[caption id="attachment_14720" align="alignnone" width="495"] Fonte: Stime BEI basate su dati Eurostat, Projectware, EPEC. Nota: Basato sulla banca dati della BEI sulle infrastrutture. Mancano i dati per Belgio, Croazia, Lituania, Polonia, Romania, e Regno Uniti. Le cifre del 2016 sono provvsorie. PPP: partenariato pubblico-privato.[/caption]

 

Se questo calo degli investimenti nelle infrastrutture sia auspicabile o se piuttosto rifletta una carenza preoccupante, è al centro di un acceso dibattito. Una carenza di investimenti infrastrutturali è generalmente definita come la differenza tra le esigenze di investimento in infrastrutture, o quanto i paesi dovrebbero spendere per infrastrutture, e gli investimenti infrastrutturali effettivamente realizzati. Secondo alcuni il declino degli investimenti per infrastrutture riflette un sano effetto di saturazione: le principali infrastrutture di trasporto, comunicazione e sociali nell'UE sono già presenti. Tuttavia, questa prospettiva rischia di ignorare la necessità di sostituire le infrastrutture obsolete, di completare le connessioni su larga scala da tempo attese e di mantenersi al passo con i progressi tecnologici.

 

Diversi documenti hanno tentato di stimare le esigenze di investimento in infrastrutture e di identificare le lacune sostanziali.

 

Per il mondo nel suo insieme, le esigenze di investimento in infrastrutture stimate vanno dal 3,9% al 9,7% del PIL annuo (OCSE 2017, Bhattacharya et al., 2016 Woetzel et al., GCEC 2014). Il fabbisogno annuale di investimenti in infrastrutture in Europa è stimato al 4,7% del PIL per energia, trasporti, acqua, servizi igienici e telecomunicazioni (BEI 2016). Le metodologie alla base di questi risultati variano in modo sostanziale e spesso dipendono da ipotesi diverse sulla crescita potenziale del PIL e sull'elasticità della spesa per la crescita delle infrastrutture (OCSE 2017a).

 

I Comuni in Europa segnalano notevoli carenze infrastrutturali


 

Per contribuire alla discussione sulle esigenze di investimento in infrastrutture in Europa e aggiungere una nuova prospettiva, la BEI nel 2017 ha condotto un'indagine rappresentativa su 555 Comuni. La motivazione chiave per condurre questa inchiesta è stata che i Comuni dovrebbero essere in una posizione privilegiata per valutare le esigenze di investimento infrastrutturale, nonché le carenze e gli impedimenti nella loro giurisdizione.

 

Secondo l'indagine sui Comuni della BEI, un terzo dei Comuni ha riferito di investimenti nelle infrastrutture insufficienti negli ultimi anni (figura 2). È importante notare che ciò si riferisce agli investimenti per infrastrutture in generale e non solo alla parte dell'infrastruttura di cui i Comuni sono responsabili. I Comuni in particolare percepiscono spesso carenze di infrastrutture nel trasporto urbano, nelle telecomunicazioni e nell'edilizia sociale.

 

Figura 2 Percezione di insufficienza nelle infrastrutture

 



 
Domanda: per ciascuno dei seguenti casi, diresti che, nel complesso, gli investimenti passati nella tua municipalità hanno assicurato la giusta quantità di infrastrutture o hanno portato a infrastrutture insufficienti o eccessive? Fonte : indagine sui Comuni della BEI 2017.

 

Scarsi investimenti in infrastrutture rischiano di minare la convergenza e la competitività


 

I Comuni svantaggiati segnalano in modo più che proporzionale le carenze in infrastrutture. Questo squilibrio nelle carenze di investimenti infrastrutturali pesa sul processo di convergenza in Europa. I dati macroscopici supportano il fenomeno, mostrando che il declino degli investimenti in infrastrutture è particolarmente pronunciato nei paesi con la minore qualità dell'infrastruttura di partenza (BEI 2017).

 

L'aggiornamento delle infrastrutture europee è anche la chiave per preservare la competitività in Europa. Collegando la qualità delle infrastrutture locali nei settori dei trasporti e delle telecomunicazioni alle attività di investimento delle imprese, emerge un modello chiaro: scarse infrastrutture locali ostacolano la capacità delle imprese di rispondere alle opportunità di crescita globale e di tenere il passo con la concorrenza (BEI 2017, Revoltella et al. 2016).

 

I vincoli fiscali frenano gli investimenti del governo nelle infrastrutture


 

Cosa c'è dietro al declino degli investimenti per infrastrutture in Europa? La figura 1 mostra che gli investimenti pubblici in infrastrutture sono diminuiti in modo particolarmente marcato. Al cuore di questo declino c'è uno spostamento della spesa pubblica dagli investimenti fissi lordi verso la spesa corrente. Mentre in alcuni paesi i governi hanno recentemente presentato piani per invertire questa tendenza, in altri le prospettive di bilancio suggeriscono una continuazione di questo orientamento negativo.

 

In linea con questo risultato, quando viene chiesto quali siano i principali ostacoli per gli investimenti in infrastrutture, il 70% dei Comuni segnala vincoli fiscali (di budget e/o di tetti al debito, vedi figura 3). Tra i Comuni che segnalano lacune infrastrutturali, il 75% considera i vincoli fiscali come un grosso ostacolo. Anche la lunghezza dei processi regolatori necessari per approvare un progetto è menzionata da quasi il 50% dei Comuni come un ostacolo importante.

 

Figura 3 Ostacoli agli investimenti in infrastrutture segnalati dai Comuni


Domanda: fino a che punto uno dei seguenti elementi è un ostacolo all'attuazione delle attività di investimento in infrastrutture? È un ostacolo maggiore, un ostacolo minore o non è un ostacolo? (1) Saldo tra entrate e spese operative; (2) Limite sull'ammontare del debito consentito al Comune; (3) Accesso ai finanziamenti esterni (esclusi i finanziamenti da altri organismi governativi); (4) Capacità tecnica di pianificare e attuare progetti infrastrutturali; (5) Coordinamento tra le priorità politiche regionali e nazionali (anche tra i Comuni); (6) Lunghezza del processo di regolamentazione per approvare un progetto; (7) Stabilità politica e normativa.  Fonte : indagine municipale della BEI.


 

...ma un'efficace pianificazione ed esecuzione del progetto è la chiave per rilanciare l'investimento in infrastrutture


 

L'allentamento dei vincoli fiscali richiede tuttavia meccanismi che garantiscano investimenti maggiori nei progetti con il massimo impatto sociale, economico e ambientale.

 

L'Indagine sui Comuni della BEI suggerisce che potrebbero ancora esserci margini di miglioramento in questo senso: a prima vista, i Comuni sembrano essere consapevoli delle complessità associate a un'allocazione efficiente delle risorse. Oltre l'80% afferma di avere una strategia di sviluppo urbano. Tuttavia, non tutti tengono concretamente in considerazione queste strategie quando si tratta di pianificare l'infrastruttura reale. Di tutti i Comuni che hanno una strategia di sviluppo urbano, solo il 72% consulta questo documento nel processo di pianificazione dei progetti infrastrutturali.

 

L'analisi dell'importanza che i Comuni attribuiscono alle valutazioni preventive dei progetti infrastrutturali rivela un quadro simile. Del circa 60% dei Comuni che svolgono un qualche tipo di valutazione preventiva, solo due terzi circa lo considerano un fattore critico o importante. Di conseguenza, meno del 40% dei Comuni inclusi nell'inchiesta valuta la qualità dei progetti infrastrutturali prima dell'implementazione e considera queste informazioni importanti nel processo decisionale.

 

Figura 4 Importanza delle valutazioni preventive dei progetti infrastrutturali



 
Domanda: quanto ritieni importanti i risultati delle valutazioni indipendenti al momento di decidere se procedere o meno a un progetto? Fonte: inchiesta sui Comuni della BEI.

 

Anche quando si tratta di coordinare le attività di investimento in infrastrutture con altri organismi, c'è spazio per miglioramenti. Solo il 45% dei Comuni afferma di coordinare le proprie attività di investimento in infrastrutture con la Regione in cui si trovano; e solo il 37% si coordina con i Comuni limitrofi.

 

Sono quindi necessari maggiori sforzi per rafforzare il coordinamento e la pianificazione e l'attuazione di progetti infrastrutturali a livello UE, nazionale e subnazionale per garantire un uso efficace dei fondi pubblici.

 

 

Rendere gli investimenti in infrastrutture più attraenti per gli investitori istituzionali


 

La combinazione di notevoli carenze infrastrutturali e vincoli fiscali potrebbe richiedere un maggiore coinvolgimento degli investitori privati ​​nel finanziamento delle infrastrutture.

 

Gli investimenti in infrastrutture hanno molte caratteristiche che dovrebbero interessare gli investitori istituzionali. Hanno una lunga durata, facilitano la corrispondenza delle passività a lungo termine con i flussi di cassa e offrono opportunità per la diversificazione del portafoglio grazie alla bassa correlazione dei rendimenti con quella di altre attività (OCSE 2011). Tuttavia, l'investimento medio in infrastrutture da parte di questi investitori, sotto forma di azioni e debito non quotato, rappresenta solo l'1,1% del totale delle attività in gestione (OCSE 2016).

 

Il coinvolgimento limitato degli investitori privati ​​può in parte essere spiegato da questioni pratiche. Ad esempio, i bassi rendimenti hanno frenato gli investimenti del settore aziendale (Grayburn e Haug 2015). A differenza degli Stati Uniti, sembra che le autorità di regolamentazione in Europa non abbiano tenuto sufficientemente conto dell'aumento dei costi legati all'assicurazione contro il rischio azionario, che avrebbe dovuto aumentare i rendimenti consentiti. Inoltre, i fondi pensione e gli assicuratori non sono incentivati ​​a investire in infrastrutture a causa della mancanza di dati, di alcuni regolamenti sulla solvibilità e sui finanziamenti e di competenze limitate in materia di gestione degli investimenti e dei rischi (Della Croce e Yermo 2013, OCSE 2017b).

 

È anche probabile che un chiaro sistema di pianificazione e definizione delle priorità nel campo dei progetti infrastrutturali possa incidere anche sulla disponibilità dei potenziali investitori privati ​​a impegnarsi in progetti infrastrutturali tramite PPP (partenariato pubblico privato, ndt) o progetti di infrastrutture aziendali.


 

Conclusioni


 

Sebbene vi siano pochi dubbi sulla necessità di maggiori investimenti nelle infrastrutture dell'UE, è altrettanto importante che la pianificazione e l'attuazione dei progetti di infrastruttura siano rafforzate a livello dell'UE, nazionale e subnazionale. L'uso efficace dei fondi pubblici deve essere garantito da solide procedure di coordinamento, pianificazione e implementazione. Questa è anche la chiave per attrarre investitori privati. Proprio come i contribuenti, gli investitori privati ​​vogliono essere sicuri che i progetti in cui investono siano solidi e ben eseguiti.

 

Nel 2017, la BEI ha fornito 18 miliardi di euro per sostenere progetti infrastrutturali per 55,5 miliardi di euro, attirando investitori sia pubblici sia privati. Il Centro di competenza del partenariato pubblico-privato europeo e il polo consultivo europeo per gli investimenti sono due iniziative che hanno contribuito a migliorare la capacità tecnica di molti di questi progetti e, insieme ai finanziamenti della BEI, li hanno resi redditizi.

 

Bibliografia


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Bhattacharya, A, J P Meltzer, J Oppenheim, Z Qureshi and N Stern (2016), “Delivering on sustainable infrastructure for better development and better climate”, Brookings Institution, Washington, DC.

 

Calderon, C and L Serven (2014), “Infrastructure, growth and inequality: An overview”, World Bank, Policy research working paper n. 7034.

 

Della Croce, R and J Yermo (2013), “Institutional investors and infrastructure financing”, OECD, Working Papers on Finance, Insurance and Private Pensions no 36.

 

EIB (2016), Restoring EU Competitiveness, 2016 updated version, European Investment Bank, Luxembourg.

 

EIB (2017), EIB Investment Report 2017/2018: From recovery to sustainable growth, European Investment Bank, Luxembourg.

 

EU (2018), “A new, modern Multiannual Financial Framework for a European Union that delivers efficiently on its priorities post-2020”, COM(2018) 98 final, Brussels.

 

GCEC (2014), Better growth, better climate, Global Commission on the Economy and Climate, Washington, DC and London.

 

Grayburn and Haug (2015), “European regulators’ WACC decisions risk undermining investment decisions” in Insight in Economics 41, NERA Economic Consulting.

 

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OECD (2016), Annual survey of large pension funds and public pension reserve funds 2015, OECD Publishing.

 

OECD (2017a), Investing in climate, investing in growth, OECD Publishing.

 

OECD (2017b), Breaking silos: Actions to develop infrastructure as an asset class and address the information gap – An agenda for G20, OECD Publishing.

 

Revoltella, D, P-B Brutscher, A Tsiotras and C Weiss (2016), “Linking local businesses with global growth opportunities: The role of infrastructure”, Oxford Review of Economic Policy 32(3,1): 410–430.

 

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Woetzel, J, N Garemo, J Mischke, M Hjerpe and R Palter (2016), Bridging Global Infrastructure Gaps, McKinsey & Company.