30/11/18

Il debito globale è al suo apice e l’Italia sta meglio di quanto si creda

Un articolo dell’economista Marcello Minenna su Social Europe spiega gli apparenti paradossi del debito, svelati i quali l’Italia appare relativamente “virtuosa” (se questa parola ha un senso) in quasi ogni aspetto, incluso il debito pubblico. In primis, il debito è sia pubblico che privato, ed è il secondo che i “mercati” temono maggiormente. Inoltre, variabili come l’esposizione verso l’estero e la sovranità monetaria sono cruciali per la sostenibilità. Infine, la sostenibilità fiscale e i sistemi pensionistici e sanitari non entrano nel conto del debito pubblico, ma se così fosse molti paesi dell’eurozona risulterebbero ben più “insostenibili” dell’Italia. Nulla di nuovo per chi segue Goofynomics da anni, ma fa piacere notare che queste semplici verità stanno diventando mainstream.

 

 

di Marcello Minenna, 28 novembre 2018

 

Nel secondo trimestre del 2018 le dimensioni globali del debito hanno raggiunto un nuovo massimo, arrivando a 260.000 miliardi di dollari. Al tempo stesso il rapporto globale debito/PIL ha superato per la prima volta la soglia del 320%. Su questo totale, il 61% (160.000 miliardi di dollari) è rappresentato dal debito privato del settore non-finanziario, mentre solo il 23% è rappresentato dal tanto vituperato debito pubblico.

 

Gli USA da soli hanno emesso più del 30% del nuovo debito pubblico, con una notevole accelerazione negli ultimi due anni sotto la gestione Trump. Il ministero del Tesoro statunitense è seguito, in questo, dalle agenzie di debito giapponesi e cinesi e, a grande distanza, dalle maggiori economie dell’eurozona. I valori riportati dalle agenzie pubbliche cinesi vanno valutati con cautela alla luce dei ripetuti casi di falsificazione delle statistiche perfino da parte di funzionari pubblici. È quindi probabile che non solo il debito pubblico di Pechino, ma anche quello delle imprese cinesi, che già è il più elevato al mondo, sia in realtà più allarmante di quanto le stime ufficiali vogliano far credere.

 

Storicamente il debito di un paese, sia pubblico che privato, tende a crescere nel tempo in rapporto costante con la dimensione dell’economia. Fanno eccezione, seppure notevole, i casi di default improvvisi, che cancellano grandi porzioni del debito. Pertanto l’enormità del debito totale non fornisce, di per sé, informazioni sulla sua sostenibilità. Non si può nemmeno dedurre, per contro, che un debito totale più basso sia segno di stabilità finanziaria. In realtà un livello molto basso, o addirittura l’assenza di debito, potrebbe rivelare solo una completa mancanza di fiducia, tale da escludere tutti gli agenti economici nazionali dai mercati internazionali del credito. Questo fu, per esempio, il caso dell’Argentina nei cinque anni successivi al drammatico default del 2002.

 

In una prospettiva adeguata, un'equa valutazione dovrebbe tenere conto della dimensione del debito totale in rapporto al PIL (si veda la figura sotto).

 



 

Da questo punto di vista, usando una misura opportuna, la classifica globale appare rovesciata: il Lussemburgo balza al primo posto con un debito totale pari al 434% del PIL, composto quasi esclusivamente da debiti societari. Ad una certa distanza troviamo il Giappone, con un debito totale che si aggira sul 373 percento del PIL, caratterizzato da una componente preponderante di debito pubblico, il 216%. L’elevata incidenza del debito sia pubblico che privato pone la Francia, la Spagna e il Regno Unito nei primi otto posti della classifica, mentre l’Italia fa la sua comparsa solo al nono posto, con un rapporto di debito totale ben bilanciato, al 265% del PIL, e con bassi livelli di debito delle famiglie e delle imprese, che compensano il più elevato livello del debito pubblico.

 

I paradossi abbondano

 

Ma anche un basso rapporto tra debito totale e PIL non può essere considerato segno di virtù o salute economica. Al fondo della classifica stanno i casi paradossali dell’Argentina e della Turchia. Sebbene entrambi i paesi abbiano debiti totali sotto controllo (il debito privato è praticamente inesistente in Argentina, mentre il debito pubblico in Turchia è appena il 28% del PIL), entrambi i paesi corrono il rischio di perdere l’accesso ai mercati a causa delle loro crisi valutarie e della bilancia dei pagamenti. Per un apparente paradosso, i tassi di interesse a breve termine dell’Argentina, che ha ambiente finanziario a basso indebitamento, sono al 70%, mentre quelli del Giappone, che ha un debito mostruoso, sono stabilmente negativi.

 

Preoccuparsi solo del debito pubblico quando si vuole valutare lo stato di un’economia, magari facendo riferimento a delle soglie arbitrarie, è sempre una cattiva pratica, che porta a conclusioni errate. I criteri usati dai mercati per valutare la solvibilità del debito sono molteplici: la percentuale del debito detenuto da investitori esteri rispetto a quelli interni, il fatto che il debito sia emesso sotto legge nazionale oppure legge estera, la crescita dell’economia, la ricchezza finanziaria dei cittadini, l’efficienza del gettito fiscale, la sovranità monetaria eccetera. Nel caso del Giappone, per esempio, il 90% del debito è nelle mani della sua stessa banca centrale, dei suoi fondi pensione e delle banche giapponesi, ed è quasi perfettamente bilanciato dalla buona salute finanziaria delle istituzioni pubbliche. È quasi impossibile immaginare una crisi di fiducia che semini dubbi sulla solvibilità del governo giapponese.

 

Allo stesso modo, il fatto che i paesi dell'eurozona non possano gestire la propria politica monetaria in modo autonomo fa sì che tutti i debiti pubblici appaiano, di fatto, come soggetti a legge estera, e questa è una condizione che rende il problema enormemente più complesso da gestire. Inoltre, questo debito è in media detenuto per più del 70% da investitori stranieri, una categoria che per definizione è più reattiva sui mercati secondari, e alimenta facilmente il panico in caso di vendita generalizzata.

 

Guai nel cassetto

 

E c’è di più. Le statistiche ufficiali non considerano il problema del “debito implicito”, ovvero il peso legato agli impegni finanziari che i governi si sono assunti rispetto alle pensioni e alla spesa sanitaria. In generale, questi debiti futuri non appaiono nelle cifre dei conti nazionali per fondate ragioni, legate alle difficoltà di stimare l’aumento dei costi su orizzonti temporali così lontani. Se questi debiti impliciti dovessero essere messi nel conto, il debito USA sarebbe, per esempio, quintuplicato, raggiungendo i 100.000 miliardi di dollari. Ma la Spagna, il Lussemburgo e l’Irlanda sarebbero messi ancora peggio, dato che le loro passività aumenterebbero di oltre 10 volte, superando il 1.000% del PIL nel caso irlandese. L’Italia, invece, dal punto di vista del debito implicito, sotto la legislazione attuale, risulterebbe il paese europeo più virtuoso.

 

A livello globale, il debito delle impres è la variabile che i mercati temono maggiormente. Un settore privato pesantemente indebitato è vulnerabile all'aumento dei tassi di interesse, dopo anni in cui i tassi di interesse sono stati mantenuti artificialmente bassi favorendo l’espansione del credito e la riduzione del capitale societario attraverso il massiccio riacquisto di azioni proprie. L’instabilità intrinseca dell'indebitamento rispetto all'apporto di capitale proprio suggerisce che il prossimo rallentamento della crescita potrebbe portare a un congelamento insolitamente forte degli investimenti aziendali. Questo in Italia è già successo durante la Grande Recessione del 2008-2009: per ogni punto percentuale di riduzione della crescita del credito, c’è stata una contrazione di quattro punti negli investimenti nelle imprese più dipendenti dal credito bancario, e due punti di contrazione in quelle finanziariamente più indipendenti. Questo è un disastro economico che non si deve ripetere.

 

28/11/18

Forbes - Tutto quello che sapete sull’Ucraina è sbagliato

Riprendiamo un intervento del 2014 di Vladimir Golstein, professore di studi slavi alla Brown University, nato a Mosca ed emigrato negli Stati Uniti nel 1979. L’articolo descrive con lucidità e lungimiranza la situazione dell’Ucraina, restituendo un quadro più equilibrato delle forze che determinano la presente situazione sociale e politica. Il primo ostacolo verso una riappacificazione e un compromesso tra le due identità del paese è proprio l’attuale regime filo-occidentale, legato a doppio filo con il violento nazionalismo di stampo fascista.

 

 

Di Vladimir Golstein, 19 maggio 2014

 

 

I media americani mainstream hanno adottato una visione miope della crisi ucraina, che segue il copione scritto dal Dipartimento di Stato. La maggior parte dei rapporti o hanno ignorato la verità o l'hanno distorta in maniera da dare una visione solo parziale dei fatti. Ecco qui di seguito sette cose che dovreste sapere sull’Ucraina.

 

A discapito di quanto sostengono alcuni commentatori, come Greg Sattell di Forbes, le divisioni in Ucraina esistono davvero, e la violenza scatenata dal regime di Kiev sta ulteriormente polarizzando il paese. Anche se le differenze tra l’Ucraina occidentale e il resto del paese, che si rivolge più alla Russia, sono ampiamente riconosciute, quello che in genere viene sottovalutato è la cultura, il linguaggio e l’ideologia politica che l’Ucraina occidentale ha imposto al resto del paese. Ufficialmente questo viene fatto per “unificare il paese”, ma il vero obiettivo è quello di reprimere e umiliare la popolazione ucraina di lingua russa. Gli estremisti nazionalisti dell’Ucraina occidentale, per i quali il rifiuto della Russia e della sua cultura è un atto di fede, intendono costringere il resto del paese ad adeguarsi alla loro visione parziale. L’Ucraina dell’Est e dell’Ovest non capiscono le rispettive preoccupazioni, così come i cubani che vivono a Miami e quelli che vivono a l’Havana non si capirebbero tra loro. Il conflitto ucraino non è tra “separatisti filo-russi” e “pro-ucraini”, ma piuttosto tra due gruppi di ucraini che non condividono la rispettiva visione di un’Ucraina indipendente.

 

L’Ucraina dell’Ovest fu annessa alla Russia solo durante l’era di Stalin. Per secoli era stata sotto il controllo culturale, religioso e/o politico dell’Impero Austro-Ungarico e della Polonia. Odiando l’occupazione sovietica, i nazionalisti dell’Ucraina dell’Ovest vedevano Stalin come un cattivo molto peggiore di Hitler, al punto che l’Organizzazione degli Ucraini Nazionalisti si allineò con  i nazisti e, guidati dal loro leader estremista Stepan Bandera, si spinse fino a liberare la loro terra da altri gruppi etnici, compresi Polacchi ed Ebrei.

 

L’Ucraina occidentale è unita dall’ostilità nei confronti dei Russi, che vengono visti come invasori e occupanti. Durante gli ultimi venti anni, mentre l’Ucraina cercava di prendere le distanze dal proprio passato sovietico e dalla sua ideologia, essa scelse il nazionalismo dell’Ucraina occidentale come alternativa. Un passaggio necessario forse, ma che ha generato i propri miti pericolosi. Gli orientali non accettano che poster pro-Bandera siano spuntati in tutta l’Ucraina e che si tenti di riscrivere l'intera storia, con i violenti nazionalisti che combatterono al fianco dei nazisti trattati come eroi, mentre i Russi, che soffrirono sotto Stalin non meno degli stessi Ucraini, vengono denigrati. Dopo l’esilio del Presidente Victor Yanukovich e l'annessione russa della Crimea, la retorica nazionalista ucraina è diventata esplicitamente offensiva e isterica, ostracizzando ulteriormente il popolo dell’Est. Il crescendo di violenza continuerà a radicalizzare entrambe le parti, che invece di trovare una soluzione democraticamente accettabile si rivolgeranno a mazze da baseball e fucili AK47.

 

La stampa occidentale non ha raccontato la verità sul massacro dei cittadini ucraini a Odessa il 2 maggio 2014, quando circa 100 (dai dati ufficialmente accertati 42) persone disarmate furono bruciate vive in un edificio di Odessa. Nel raccontare la storia, la stampa occidentale fece riferimento a scontri tra hooligan del calcio pro-Ucraina e manifestanti pro-Russia, senza spiegare minimamente perché il risultato di questi scontri fu così a senso unico.

 

Quel che avvenne a Odessa è qualcosa di tristemente familiare per l’Est Europa: un pogrom organizzato. Quantomeno la BBC raccontò correttamente parte della storia: “Diverse migliaia di tifosi di calcio iniziarono ad attaccare 300 pro-Russia”. E come in tutti i pogrom, i carnefici diedero la colpa alle loro vittime indifese per averli provocati. In realtà, teppisti pro-Kiev armati con sbarre di ferro e molotov attaccarono il campo dei manifestanti, gli diedero fuoco, e li costrinsero a rifugiarsi in un edificio, che fu dato alle fiamme. Si trattò di uno spudorato atto di violenza e intimidazione. Gli attuali leader dell’Ucraina promisero un’indagine, ma al momento l’unica risposta è stata dare la colpa alla passività delle forze dell’ordine. La verità è che le vittime semplicemente si sono rifiutate di condividere l’agenda radicale nazionalista di Kiev. Dovremmo chiamarli civili “separatisti” o “terroristi” solo perché il loro rifiuto del nazionalismo radicale è sfociato in una protesta tipo “Occupy”? Perché non chiamarli Ucraini moderati? Il governo Ucraino, incompetente se va bene, violento e brutale nel peggiore dei casi, ignorando l’intimidazione e quindi permettendo ulteriori radicalizzazioni, sta tradendo il proprio popolo. Questa era una notizia importante, un possibile spartiacque nel dramma in atto della guerra civile ucraina, eppure la stampa occidentale si è rapidamente dimenticata della questione.

 

Le elezioni Ucraine previste per il 25 maggio non risolveranno certo i problemi economici dell’Ucraina, dato che c’è una palese assenza di candidati validi. Gli attuali rivali politici alle elezioni sono o oligarchi in stile Sovietico come Petro Poroshenko, o politici corrotti come l’ex Primo Ministro Iulia Timoshenko, oppure l’ex membro del governo Timoshenko, Arseny Iatseniuk. Per quanto corrotto si fosse dimostrato il presidente esautorato Viktor Yanukovich, egli aveva conquistato davvero il suo ruolo tramite le ultime elezioni, mentre il paese era traumatizzato dalla stessa corruzione di Timoshenko. È un’amara caratteristica della scena politica ucraina che il suo politico più indipendente e dinamico sia Oleh Tyahnibok dell’Ucraina dell’Ovest, il controverso leader del partito nazionalista di estrema destra,  Svoboda. Il suo partito è stato accusato di essere coinvolto nel movimento nazi-Bandera, mentre la Russia lo ha dichiarato “fascista” e ha aperto contro di lui un procedimento penale per aver organizzato l'assalto ai civili dell’Ucraina orientale.

 

I politici non contano veramente in Ucraina, perché l’Ucraina è la terra degli oligarchi. Bene o male, Putin ha messo fine al regno degli oligarchi in Russia. I membri del “circolo interno” di Putin saranno anche ricchissimi, ma sanno a chi devono il loro benessere. Imprigionando Mikhail Khodorkovsky, Putin ha lanciato un chiaro messaggio a tutti i potenti oligarchi che controllavano la Russia durante il periodo dell’ex presidente Boris Yeltsin: rimanete fuori dalla politica. In Ucraina niente di questo è avvenuto, e i politici sembrano lavorare in unisono, se non sotto diretto controllo degli oligarchi. Ci sono spesso tensioni tra di loro o tra loro e i politici; per esempio, l’Ucraino più ricco, Rinat Akhmetov, ha lavorato a stretto contatto con Yanukovich, mentre altri hanno preferito Timoshenko o Victor Iushenko. Gli interessi di Akhmetov sono legati alle industrie metallurgiche dell’Est ed egli ha fatto in modo che i suoi 300.000 dipendenti lo aiutassero a prendere il controllo dell’Ucraina dell’Est e respingere gli attacchi militari ai civili, attacchi che venivano incoraggiati da un altro oligarca, Igor Kolomoisky.

 

La stampa occidentale, inclusa Forbes, ha sottostimato l’influenza dell’oligarca Igor Kolomoisky. Kolomoisky ha utilizzato il concetto di “corporate raiding” alla lettera, utilizzando unità paramilitari a sua disposizione per tutta una serie di acquisizioni ostili. Senza dubbio astuto uomo d’affari, è riuscito a sottrarre diversi affari a potenti concorrenti come l’attuale presidente del Tartastan e, se dobbiamo credere a Putin, come l'oligarca russo Roman Abramovich. La recente incursione nella politica di Kolomoisky è avvenuta sulla stessa imponente scala. Nonostante abbia la residenza in Svizzera, è stato eletto governatore della regione di Dnepropetrovsk. Ha offerto una taglia di 10.000 dollari per ogni “Separatista Russo”, ha dotato l’esercito ucraino dei mezzi necessari  e ha armato i volontari nazionalisti. Mentre l’esercito ucraino regolare è riluttante a sparare alla sua stessa popolazione, le unità di Kolomoisky hanno partecipato a vari attacchi militari nell’est, incluso l’assalto del 9 maggio a Mariupol, dove sono stati uccisi molti civili. Fonti russe lo collegano al massacro di Odessa. Membri del nuovo governatorato di Odessa, nominato dopo il massacro, sono suoi stretti collaboratori.

 

Anche le attività “pro-ebrei” di Kolomoisky sono molto controverse. Egli fa donazioni in denaro a vari progetti di ristrutturazione o costruzione, da Gerusalemme alla sua nativa Dnepropetrovsk, riveste la carica di presidente della comunità ebrea ucraina, e nel 2010 è diventato il presidente del Consiglio Europeo delle comunità ebree, a seguito della sua promessa di donare 14 milioni di dollari per vari progetti. Altri membri del Consiglio hanno descritto la sua nomina come un “atto ostile in stile Est Europeo”. Dopo che molti tra loro hanno dato le dimissioni per protesta, Kolomoisky ha lasciato il Consiglio, ma solo dopo aver impostato un comitato “alternativo” chiamato Unione degli Ebrei Europei. I leader ebrei fedeli a Kolomoisky sostengono che l’Ucraina ora è una società aperta e pluralista, ma alla luce della tradizione ucraina di anti-Semitismo e pogrom, c’è poco da essere ottimisti.

 

La stampa occidentale si lamenta dei media controllati da Putin, ma Kolomoisky controlla almeno altrettanta informazione. Le sue proprietà includono il più grande gruppo mediatico ucraino, “1+1 Media”, l’agenzia di stampa “Unian”, così come vari siti internet, che gli permettono di tenere l’opinione pubblica in una frenesia anti-Putin. Andrew Higgins del New York Times ha pubblicato una storia dal titolo “Tra gli ebrei ucraini, la maggiore preoccupazione è Putin, non i Pogrom” che fa l’elogio di Kolomoisky per aver donato a Dnepropetrovsk il “più grande centro comunitario ebreo del mondo” insieme a un “museo dell’Olocausto ad alta tecnologia”. Higgins, tuttavia, nota che il museo “evita la delicata questione di come alcuni nazionalisti ucraini collaborarono coi nazisti… spiegando invece come gli ebrei sostennero gli sforzi dell’Ucraina di diventare una nazione indipendente”. In altre parole, questo museo hi-tech non è altro che un progetto di propaganda, che si focalizza su questioni che non riguardano l’Olocausto, e che non onora le vittime né documenta il ruolo dei collaborazionisti ucraini.

 

La Russia è debole. Il paese sta calando come popolazione, geograficamente ed economicamente. La Russia ha un territorio chiaramente troppo vasto. Guardiamo il confine russo-cinese, dove la densità di popolazione rivela un’immagine preoccupante per la Russia: ci sono circa 100.000 cinesi per chilometro quadrato a sud del confine, contro dieci russi dall’altra parte. Solo un fanatico russofobico potrebbe immaginare che la Russia voglia espandersi. Le repubbliche baltiche, la Moldavia, la Georgia e la Polonia, continuano a dare retta ai media occidentali e alle loro storielle di espansione russa, perché la NATO, la UE e gli USA sono più che felici di “fronteggiare la Russia” e fornire aiuti finanziari.

 

Il presidente Putin è stato accomodante nei confronti degli interessi occidentali. A discapito di quel che si legge sulla stampa occidentale, non ha protestato per l’espansione della NATO, ha abbandonato una serie di importanti basi militari russe, e ha agito aggressivamente solo quando ha capito che il “cortile” russo era in pericolo. L’annessione della Crimea, mentre rispondeva a una forte richiesta popolare sia in Russia che in Crimea, è stata un’operazione limitata, che ha consentito a Putin di salvare la faccia dopo aver “perso” l’Ucraina. Da quel momento ha dato parecchi segnali che è pronto a capitolare. I suoi limitati obiettivi sono riconosciuti negli scritti e nelle interviste di persone come l’ex ambasciatore in Russia Jack Matlock, o dell’ex Segretario di Stato Henry Kissinger. Ma quello che occorre sottolineare è che il prossimo leader russo potrebbe non essere altrettanto accomodante, specialmente alla luce delle continue e inutili provocazioni da parte degli Stati Uniti. Dmitry Rogozin, il rappresentante NATO della Russia e importante figura politica della destra, ha già dichiarato che la prossima volta che volerà in Ucraina e Moldavia, lo farà su un aereo bombardiere, dopo che questi paesi non hanno concesso al suo aereo civile di usare il loro spazio aereo. Quello che ha permesso l’ascesa di Hitler è stata la continua umiliazione della Germania dopo la Prima Guerra Mondiale. La politica di umiliazione pubblica di Putin, i discorsi di “punire” lui o la Russia per il loro cattivo comportamento, sono un insulto al leader russo e ai suoi concittadini. Al contrario della Germania nel 1939, la Russia ha un sacco di armi nucleari. Se la Russia intendesse asservire gli USA o i suoi alleati con la minaccia di un attacco nucleare, sarei più che felice di ripetere il motto del New Hampshire: “Vivere liberi o morire”. Ma vale davvero la pena di insultare e minacciare una potenza nucleare già infuriata e frustrata per il gusto di consegnare l’Ucraina a gente come Kolomoisky e la sua combriccola di oligarchi, nazionalisti e politici asserviti? Quei politici e giornalisti occidentali che confondono la questione di difesa della libertà con i giochi di potere dell’attuale élite ucraina, dovrebbero essere consapevoli che non stanno servendo, ma tradendo, gli amati principi americani.

 

 

27/11/18

Il franco CFA in Africa: neocolonialismo e dipendenza

Per chi avesse dubbi su quanto un'unione monetaria possa attivare meccanismi di tipo neocoloniale, un articolo di Economic Questions, che illustra il dispiegarsi di questo fenomeno nelle aree del franco CFA: 14 stati africani, la maggior parte ex colonie francesi, legati da una moneta comune ancorata all'euro e le cui riserve sono depositate in Francia. Qui la dipendenza esplicita dalla potenza coloniale è stata sostituita subdolamente da una finta indipendenza, fortemente limitata dalla mancanza di sovranità monetaria, che impedisce alle ex colonie di svilupparsi economicamente e di riguadagnare la propria vera autonomia. Chi si arricchisce, invece, è la Francia, per ammissione dei suoi stessi presidenti. Con la complicità delle élite governative locali filofrancesi, difese dalla Francia perché della Francia difendono gli interessi. Vi ricorda qualcosa?   

 

 

 

di Mariamawit Tadesse, 10 agosto 2018

 

La geopolitica francese in Africa è determinata dalle risorse naturali. Inizialmente l’area del franco era stata impostata come un sistema monetario coloniale, attraverso l'emissione di valuta nelle colonie, per evitare alla Francia di dover spostare materialmente denaro contante. Ma anche dopo l’indipendenza di questi paesi, il sistema monetario ha continuato a funzionare fino ad includere altri due stati che non erano ex colonie francesi. Al momento, le due aree del franco CFA comprendono 14 stati. Il fatto che ancora oggi la moneta di queste regioni sia ancorata all'euro (ex franco francese) e che le riserve siano depositate in Francia mostra il sottile neocolonialismo che la Francia sta perseguendo, senza alcun controllo. È un'unione monetaria di cui la Francia è il fulcro e su cui ha potere di veto. In questo è supportata dalle élite governative africane, che si affidano al sostegno economico, politico, tecnico e talvolta militare fornito dalla Francia. Non c'è da meravigliarsi quindi che queste ex colonie non abbiano sviluppato il loro pieno potenziale, dal momento che hanno barattato lo sviluppo consentito dalla sovranità con la dipendenza dalla Francia. Questo articolo indaga l'istituzione delle aree del franco CFA, i suoi legami con il neocolonialismo francese e la sua capacità di accrescere ulteriormente la dipendenza delle ex colonie dell'Africa occidentale e centrale.

 

Le aree del franco CFA

 

La prima area del franco fu istituita nel 1939 come area monetaria con il franco francese come valuta principale. Nel 1945 furono creati il ​​franco delle colonie francesi d'Africa (franco CFA) e il franco delle colonie francesi del Pacifico (franco CFP). Dopo l'indipendenza, Marocco, Tunisia, Algeria e Guinea abbandonarono il sistema. La Comunità economica e monetaria dell'Africa centrale (CEMAC) e l'Unione economica e monetaria dell'Africa occidentale (UEMOA) sono le due aree del franco CFA. L’UEMOA comprende otto stati: Benin, Burkina Faso, Costa d'Avorio, Guinea-Bissau (ex colonia portoghese entrata nel 1997), Mali, Niger, Senegal e Togo. La loro moneta comune è il "Franco della Comunità Finanziaria dell'Africa" ​​(franco CFA), emesso dalla Banca Centrale degli Stati dell'Africa Occidentale (BCEAO) con sede a Dakar, in Senegal. Il CEMAC comprende sei stati: Camerun, Repubblica centrafricana, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea equatoriale (ex colonia spagnola entrata nel 1985) e Gabon. La loro moneta comune è il "Franco della Cooperazione Finanziaria dell'Africa" ​​(franco CFA), emesso dalla Banca Centrale degli Stati dell'Africa Centrale (BEAC) con sede a Yaounde, Cameroon. Si noti che fino alla fine degli anni '70 sia la BCEAO che la BEAC avevano sede a Parigi.

 

Nel 1948 il cambio dei due franchi CFA fu fissato a 50 franchi CFA per franco francese. Nel 1994 i franchi CFA hanno subito una svalutazione, per l'esattezza del 50 per cento. Al momento il sistema istituito dalla Francia con le due aree comprende un cambio fisso rispetto all'euro, una garanzia di convertibilità da parte del Tesoro francese e infine un insieme di requisiti legali, istituzionali e politici. La zona franco CFA collega tre valute: le due aree e l'euro. Il franco CFA è fissato a 655,957 per 1 euro. UEMOA e CEMAC hanno ciascuna le proprie banche centrali, indipendenti l'una dall'altra. I franchi CFA possono essere convertiti in euro, ma non possono essere convertiti direttamente l'uno con l'altro. Il denaro viene inviato in Francia come conto operativo presso il Tesoro francese dalle due banche centrali. Inoltre, "almeno il 20 per cento delle passività a vista di ciascuna banca centrale deve essere coperto da riserve valutarie, almeno il 50 per cento delle riserve in valuta estera deve essere depositato nel conto operativo e si applicano sanzioni in caso di insolvenza. La Francia è anche rappresentata nel consiglio di entrambe le istituzioni." In "Colonial Hangover: the Case of the CFA", Pierre Canac e Rogelio Garcia-Contreras spiegano:

 

"Il funzionamento dei conti operativi è fondamentale per mantenere la convertibilità dei franchi CFA al tasso di cambio ufficiale, mentre, allo stesso tempo, consente alle banche centrali regionali di mantenere una certa autonomia monetaria. I conti operativi sono accreditati con le riserve estere di BCEAO e BEAC, ma possono essere in passivo quando la bilancia dei pagamenti dei membri della zona CFA è negativa. In questi casi il Tesoro francese presta riserve estere alle due banche centrali. Questa speciale relazione con il Tesoro francese consente alle due banche centrali africane di mantenere la fissità del tasso di cambio pur consentendo loro di avere un controllo limitato sulla loro politica monetaria. L'ammontare del prestito concesso è illimitato, sebbene soggetto a diversi vincoli al fine di limitare l’espansione del debito. In primo luogo, le banche centrali ricevono interessi sul loro credito nel conto operativo, ma devono pagare un tasso di interesse progressivamente crescente sul loro debito nel conto. In secondo luogo, le riserve estere diverse dai franchi francesi o dagli euro potrebbero dover essere restituite - una pratica chiamata "ratissage", o ulteriori riserve potrebbero dover essere prese in prestito dal FMI. In terzo luogo,il Tesoro francese nomina i membri dei consigli di amministrazione di BCEAO e BEAC per influenzare le rispettive politiche monetarie e assicurare la loro coerenza con la parità fissa. L'autonomia delle due banche centrali africane è dunque limitata dalle autorità francesi, prolungando così il rapporto coloniale tra la Francia e le sue ex colonie".

 

A quanto pare, delegati francesi ricoprono posizioni importanti negli uffici di presidenza, nel ministero della Difesa, alla Banca centrale, al Tesoro, negli uffici della Contabilità e del bilancio e al ministero delle Finanze, il che consente loro di supervisionare e influenzare le decisioni politiche. Uno studioso francese ha osservato che in media i diversi ministri degli stati africani francofoni totalizzano in un anno duemila soggiorni a Parigi. Adom dimostra che il denaro custodito presso il tesoro francese frutta un interesse nullo o molto basso per le nazioni dell’area del franco. Nel 2007 l'ex presidente senegales Abdoulaye Wade aveva affermato che questi fondi avrebbero potuto essere utilizzati per stimolare gli investimenti, la crescita economica e alleviare la povertà nei paesi membri se non fossero bloccati in Francia.

 

Dopo la svalutazione del 1994 il cambio dei due franchi CFA fu fissato al nuovo tasso di 100 franchi CFA per franco francese. La causa di questa svalutazione è stata attribuita alla bassa competitività, in quanto il franco francese si era apprezzato rispetto alla valuta dei suoi principali partner commerciali. La competitività di queste zone si riferiva al mercato francese, ma non ai mercati mondiali. Negli anni '80 c’era stato un calo del prezzo delle materie prime e una svalutazione del dollaro. Questo di conseguenza ebbe un impatto sulla crescita e sulle esportazioni di queste nazioni. I governi di queste aree si trovarono a fronteggiare disavanzi di bilancio, che finanziarono con prestiti richiesti all'estero fino a quando il FMI li sospese, nel 1993. Gli scambi tra le due unioni non sono significativi, a causa di un dazio esterno. I flussi di capitale tra le due aree sono fortemente limitati. La prospettiva che un'unione monetaria aumentasse gli scambi tra le aree del franco CFA non si è mai materializzata.

 

 

La Francia e il neocolonialismo

 

 

Come afferma Kwame Nkrumah: "...gli imperialisti... sostengono di voler “concedere” l'indipendenza alle ex-colonie, ma solo per farla seguire dai cosiddetti “aiuti” per lo sviluppo. Sotto la copertura di queste parole, tuttavia, escogitano innumerevoli modi per raggiungere gli stessi obiettivi precedentemente raggiunti dal colonialismo esplicito. L’insieme di questi moderni tentativi di perpetuare il colonialismo sotto la retorica della "libertà" è diventato noto come neocolonialismo".

 

In “Government accounting reform in an ex-French African colony: The political economy of neocolonialism”, P.J.C. Lassou e T. Hopper affermano che "Il colonialismo non cessa con la dichiarazione di indipendenza politica o con l'ammainare l'ultima bandiera europea. La decolonizzazione è solo di formale facciata se alle ex colonie viene impedito di acquisire la base socio-economica e le istituzioni politiche per gestirsi come paesi sovrani indipendenti. La moderna manifestazione dei tratti coloniali e imperialisti è comunemente denominata neocolonialismo, ed è a volte associato al concetto di "dipendenza". Il neocolonialismo si manifesta quando l'ex potere coloniale controlla ancora le istituzioni politiche ed economiche delle ex colonie".

 

La Francia sta realizzando il ​​neocolonialismo, camuffando questo meccanismo come unione monetaria. Queste nazioni hanno abdicato alla loro sovranità in favore della Francia. Il neocolonialismo è un ostacolo allo sviluppo per le nazioni africane. L'intervento della Francia si è manifestato in termini economici, politici e militari. Gli "Accordi di cooperazione" furono firmati da leader africani che salirono al potere con l'aiuto della Francia al momento dell'indipendenza. D'altra parte, gli "Accordi speciali di difesa" fornivano alla Francia il potere di intervenire militarmente per proteggere i leader africani che tutelavano gli interessi della Francia. Infine, gli accordi economici impongono alle ex colonie di esportare in Francia materie prime come petrolio, uranio, fosfato, cacao, caffè, gomma, cotone ecc..., mentre importano beni e servizi industriali dalla Francia. Inoltre, queste nazioni sono tenute a ridurre o cessare le loro esportazioni di materie prime quando la difesa dell'interesse francese lo richiede.

 

Lassou e Hopper sottolineano che la parte di amministrazione economica è una parte trascurata delle politiche di sviluppo, specialmente nell'Africa francofona. Aggiungono inoltre che "Riforme basate sul mercato quando applicate nel Sud in generale e in Africa specificamente... promuovono il neocolonialismo, consentendo alle ex potenze coloniali di mantenere il controllo sulle istituzioni politiche ed economiche delle ex colonie a vantaggio delle multinazionali e del commercio con cui i paesi "del Sud” esportano materie prime a buon mercato verso i paesi "del Nord" e a loro volta importano beni e servizi ad alto valore aggiunto".

 

Secondo l'Indice di sviluppo umano, su 187 paesi gli ultimi tre e sette dei peggiori dieci paesi si trovano nell'Africa francofona. L'approccio neocolonialista francese è estremamente sottile e paternalistico. L'ex presidente francese, Jacques Chirac, ha dichiarato: "Ci dimentichiamo di una cosa: cioè, gran parte del denaro che è nel nostro portafoglio [cioè dei francesi] proviene proprio dallo sfruttamento dell'Africa [per lo più dell'Africa francofona] per secoli”. Nel 2008 ha proseguito, "Senza l'Africa la Francia scivolerebbe al rango di una potenza del [terzo] mondo".

 

Teoria della dipendenza nell’Africa francofona

 

L'Africa, l'Asia e l'America Latina hanno perseguito uno sviluppo sostenibile dopo aver ottenuto l'indipendenza. Tuttavia alcuni paesi sono riusciti a sviluppare efficacemente le loro economie. Negli anni Cinquanta Raul Prebisch e altri economisti elaborarono la teoria della dipendenza, che spiega perché "la crescita economica nei paesi avanzati industrializzati non ha necessariamente portato alla crescita nei paesi più poveri". Prebisch riteneva che ciò fosse perché i paesi poveri (paesi periferici) esportano materie prime verso i paesi sviluppati (nazioni centrali) e importano i prodotti finiti. Esiste anche una relazione dinamica tra stati dominanti e dipendenti. Andre Gunder Frank teorizzò che il sistema capitalista mondiale fosse diviso in due sfere concentriche: centro e periferia. I paesi del centro avanzato hanno bisogno di materie prime a basso costo provenienti dalla periferia sottosviluppata e di un mercato di sbocco per i loro prodotti finiti.

 

Sono passati decenni da quando i paesi africani hanno ottenuto l'indipendenza. Tuttavia, questa indipendenza è stata sostituita da una relazione di dipendenza dai paesi dominanti, nota come post-colonialismo. Si ha dipendenza dai paesi dominanti "quando un paese è in grado di partecipare in modo definitivo o determinante al processo decisionale di un altro paese mentre il secondo paese non è in grado di avere la stessa influenza nel processo decisionale del primo paese". Le politiche estere e interne delle nazioni africane indipendenti continuano ad essere influenzate da potenze esterne, in particolare i loro ex colonizzatori. La relazione post-coloniale nel caso delle ex colonie francesi è data dal ruolo dominante della Francia.

 

Il colonialismo francese è stato un colonialismo di stato. Era un governo diretto, in cui i capi locali assistevano gli amministratori francesi, il che portò alla nascita di élite locali che furono educate nel sistema francese. Le ex colonie furono indottrinate con la cultura, la lingua e la legge francesi. All'epoca dell'indipendenza, le colonie subsahariane si decolonizzarono in modo non violento, mentre le ex colonie britanniche ottennero la loro indipendenza attraverso la guerra, un modo violento che allentò le relazioni con la Gran Bretagna. Poiché la libertà dalla Francia è stata raggiunta attraverso la non violenza, fu naturale per le élite locali prendere il potere e mantenere i loro forti legami con la Francia.

 

Attraverso l’area del franco CFA, la Francia è in grado di controllare l'offerta di moneta, la regolamentazione monetaria e finanziaria, le attività bancarie, l'allocazione del credito e le politiche economiche e di bilancio di queste nazioni. Inoltre genera corruzione e diversione illegale di aiuti pubblici tra la Francia e le sue ex colonie. Ad esempio, gli aiuti pubblici francesi condizionali hanno costretto questi Stati africani a spendere gli "aiuti" in attrezzature, beni o contratti con imprese francesi, in particolare imprese di costruzione e di lavori pubblici.

 

S.K.B. Asante sottolinea che gli approcci di integrazione regionale non eliminano il neocolonialismo né la dipendenza dal continente africano. Afferma che "nessuno dei piani regionali permette di attaccare adeguatamente la questione onnicomprensiva della riduzione della dipendenza, né gli sforzi compiuti verso questo obiettivo hanno avuto un impatto significativo... il problema della dipendenza pone difficoltà ai paesi africani che tentano una strategia di integrazione regionale. La dipendenza funge da ostacolo allo sviluppo oltre a limitare gli effetti benefici dell'integrazione nell'economia nazionale e regionale".

 

Performance economica delle aree del franco CFA

 

La Francia è il principale partner commerciale delle aree del franco CFA. Le aree del franco CFA, a differenza di altre nazioni africane, hanno evitato forti inflazioni grazie alla Francia. Tra il 1989 e il 1999 il 33% delle importazioni e il 40% degli investimenti esteri diretti in queste aree proveniva dalla Francia. Sono regioni che dipendono fortemente dalla Francia. Nonostante i loro legami con la Francia, queste aree del franco CFA rimangono estremamente povere. Le due regioni avevano una popolazione di 132 milioni nel 2008, il 70% si trova in UEMOA e il 30% in CEMAC. Il loro PIL totale è pari al 4% del PIL francese. Queste regioni sono "produttori ed esportatori di materie prime, tra cui petrolio, minerali, legname e prodotti agricoli e materie prime agricole, sono estremamente sensibili alle fluttuazioni dei prezzi mondiali e alle politiche commerciali dei loro partner commerciali, principalmente l'UE e gli Stati Uniti. I loro settori industriali sono piuttosto sottosviluppati”. Le nazioni non produttrici di petrolio all'interno delle aree del franco CFA hanno un PIL pro capite molto basso.

 

Secondo Assande Des'Adom, anche dopo che la moneta è stata svalutata, le aree del franco CFA soffrono ancora di disallineamenti valutari. Adom sottolinea che "gli attuali accordi monetari tra le ex colonie e la Francia sono stati progettati essenzialmente sulla base dell'interesse economico di quest'ultima. Un eminente economista ivoriano si spinge ancora oltre per spiegare come i paesi membri dell’area del franco finanziano indirettamente l'economia francese attraverso questi peculiari accordi monetari”.

 

L’area del franco CFA è messa sotto attacco dalla globalizzazione, dalla volatilità dei prezzi del petrolio e delle materie prime, oltre ai problemi di sicurezza regionale. Si può sostenere che la "dipendenza e le pratiche neocoloniali che caratterizzano la relazione tra la Francia e gli antichi possedimenti coloniali in Africa è l'impossibilità per i paesi CFA di accumulare riserve monetarie". Nel mondo di oggi, il controllo di un paese viene effettuato attraverso modalità economiche e monetarie. Nkrumah aveva avvertito:

 

"Lo stato neocoloniale potrebbe essere obbligato a preferire i prodotti fabbricati dalla potenza imperialista escludendo i prodotti concorrenti altrove. Il controllo sulla politica governativa nello stato neo-coloniale può essere assicurato tramite il pagamento per il costo della gestione dello Stato, piazzando funzionari pubblici in posizioni in cui possono dettare la politica e con il controllo monetario sui cambi attraverso l'imposizione di un sistema bancario sistema controllato dal potere imperialista".

 

In conclusione, le aree del franco CFA continuano a essere dominate dalla volontà politica, dall'interesse economico e dalla strategia geopolitica perseguita dalla Repubblica francese. Sembra che alcuni leader dell'élite non si sottraggano all'influenza della Francia. Il presidente Omar Bongo del Gabon ha dichiarato: "La Francia senza il Gabon è come un'auto senza benzina, il Gabon senza la Francia è un'auto senza autista". La citazione può essere applicata a quasi tutte le nazioni dell’area del franco. L'istituzione delle unioni monetarie avvantaggia la Francia più dei suoi membri. Il colonialismo francese sta impedendo lo sviluppo di queste nazioni e provocandone la dipendenza.

26/11/18

Una lettera di Jean-Claude Michéa sul movimento dei gilet gialli

Il filosofo francese Jean Claude Michéa  scrive una lettera aperta sul movimento dei gilet gialli, da lui apprezzato e sostenuto come un autentico movimento popolare che spontaneamente parte dal basso contro le politiche liberiste degli ultimi quarant'anni. Nonostante l'ottusa ostilità degli intellettuali di sinistra ecologisti e libertari e dei cani da guarda mediatici, e nonostante la cinica determinazione del governo, questo movimento, avverte Michéa, non è che l'inizio. 

 

 

 

di Jean Claude Michéa, 21 novembre 2018

 

Cari amici,

 

Solo poche parole molto concise e lapidarie - perché qui siamo presi dai preparativi per l'inverno (tagliare la legna, piante e alberi da pacciamare ecc). Io sono ovviamente d'accordo con tutti i vostri commenti, come con la maggior parte delle tesi espresse su Luoghi comuni (solo l'ultima affermazione mi sembra un po' debole a causa del suo "occidentalismo": una vera cultura di emancipazione popolare esiste anche, naturalmente, in Asia, Africa o America Latina!).

 

Il movimento dei "gilet gialli" (un buon esempio, a proposito, di quella creatività popolare di cui parlavo nei Misteri della sinistra) è, in un certo senso, l'esatto opposto di "Nuit Debout". Questo movimento, semplificando, è stato infatti il primo tentativo - incoraggiato da gran parte della stampa borghese e dal "10%" (vale a dire, quelli che sono deputati ad essere, o si preparano a diventare, la leadership tecnica, politica e "culturale" del capitalismo moderno) - di disinnescare la critica radicale al sistema, concentrando tutta l'attenzione politica su quell'unico potere (seppur decisivo) rappresentato da Wall Street e dal famoso "1%". Una rivolta quindi di quei metropolitani ipermobili e ultraqualificati (anche se una piccola parte delle nuove classi medie comincia a conoscere, qua e là, una certa "precarizzazione") che costituiscono, dall'era Mitterrand, il principale vivaio per la classe dirigente di sinistra ed estrema sinistra liberale (e in particolare dei suoi settori più apertamente contro-rivoluzionari e anti-popolari: Regards, Politis, NP“A”, Université Paris VIII, ecc). Qui, al contrario, sono quelli che vengono dal basso a ribellarsi (come analizzato da Christophe Guilluy - tra l'altro stranamente assente, fino ad ora, da tutti i talk show televisivi, a vantaggio, tra gli altri comici, del riformista sub keynesiano Besancenot), i quali hanno già una coscienza rivoluzionaria sufficiente a rifiutarsi di dover ancora scegliere tra sfruttatori di sinistra e sfruttatori di destra (d'altronde è così che Podemos ha avuto inizio nel 2011, prima che i Clémentine Autain e i Benoît Hamon riuscissero a seppellire questo promettente movimento allontanandolo gradualmente dalla sua base popolare).

 

Per quanto riguarda l'argomento degli "ambientalisti" di corte - coloro che preparano questa "transizione energetica" che consiste principalmente, come ha mostrato Guillaume Pitron in La guerre des métaux rares: La face cachée de la transition énergétique et numérique, nel delocalizzare l'inquinamento dei paesi occidentali nei paesi del Sud - argomento secondo cui questo movimento spontaneo sarebbe portato avanti da quelli che hanno l'"ideologia della automobile" e da "tizi che fumano sigarette e viaggiano a diesel", è tanto assurdo quanto disgustoso e immondo: è chiaro, infatti, che la maggior parte dei gilet gialli non prova nessun piacere a dover prendere ogni giorno l’auto per andare a lavorare a 50 km da casa, per andare a fare la spesa nell'unico centro commerciale esistente nella sua regione e in genere situato in piena campagna a 20 km di distanza, o per fare una visita dall'unico medico che non è ancora in pensione e il cui studio si trova a 10 km dalla sua abitazione. (Prendo questi esempi dalla mia esperienza nelle Landes! Ho anche un vicino di casa che vive con 600 euro al mese e deve calcolare sino a quale giorno del mese può ancora andare a fare la spesa a Mont-de-Marsan, senza fermarsi in mezzo alla strada, a seconda della quantità di diesel - il carburante dei poveri - che può ancora comprare). Scommettiamo invece che sono i primi a capire che il vero problema sta precisamente nell'attuazione sistematica, per 40 anni,da parte dei successivi governi di destra e di sinistra, del programma liberale che ha a poco a poco trasformato il loro villaggio o il loro quartiere in un deserto sanitario, privo di qualsiasi centro di rifornimento di generi di prima necessità, e dove la prima azienda ancora in grado di offrire qualche posto di lavoro mal retribuito si trova a decine di chilometri di distanza (se ci sono dei "progetti per le periferie" - e questo è un bene - non c'è ovviamente mai stato nulla di simile per questi villaggi e cittadine - dove vive la maggior parte della popolazione francese - ufficialmente destinati all'estinzione dal "senso della storia" e dalla "costruzione europea"!).

 

Ovviamente non è l'auto in quanto tale - quale "segno" della loro presunta integrazione nel mondo del consumo (non sono né lionesi né parigini!) - che i gilet gialli oggi difendono. È semplicemente che la loro auto diesel usata di seconda mano (che la Commissione europea sta già cercando di togliergli inventando continuamente nuovi "standard tecnici di qualità") rappresenta la loro ultima possibilità di sopravvivenza, vale a dire di avere una casa, un lavoro e di che sfamare se stessi e le loro famiglie nel sistema capitalista di oggi, che avvantaggia sempre di più i vincitori della globalizzazione. E dire che è innanzitutto questa  "sinistra  al cherosene" - quella che naviga di aeroporto in aeroporto a portare nelle università di tutto il mondo (e in tutti i "Festival di Cannes") la buona parola "ecologista" e "associativa", che osa dar loro lezioni! Decisamente, quelli che non conoscono altro che i loro poveri palazzi metropolitani non avranno mai un centesimo della decenza che oggi si può ancora trovare nei casolari poveri (e di nuovo, è la mia esperienza nelle Landes che parla!).

 

L'unica domanda che mi pongo è fino a che punto può arrivare un simile movimento rivoluzionario (movimento che non è estraneo, nella sua nascita, nel suo programma unificante e nella modalità della sua evoluzione, alla grande rivolta del Sud del 1907) nelle tristi condizioni politiche quali sono oggi le nostre. Perché non dobbiamo dimenticare che ha davanti a sé un governo thatcheriano di sinistra (il consigliere principale di Macron è Mathieu Laine - un uomo d'affari della City di Londra che ha curato la prefazione alle opere della strega Maggie tradotte in francese), vale a dire un governo cinico e senza paura, che è chiaramente pronto - ed è questa la grande differenza con tutti i suoi predecessori - ad arrivare ai peggiori estremi pinochettiani (come Maggie con i minatori gallesi o gli scioperi della fame irlandesi) per imporre la sua "società dello sviluppo" e questo potere antidemocratico dei giudici, ora trionfante, che ne è il necessario corollario. E, naturalmente, senza avere nulla da temere, su questo piano, dai servili media francesi. Dobbiamo ricordare, infatti, che ci sono già tre morti e centinaia di feriti, alcuni dei quali in condizioni molto critiche. Se la memoria non mi tradisce, bisogna risalire al maggio del '68 per trovare un costo umano paragonabile a quello di queste manifestazioni popolari, almeno sul terreno metropolitano. Eppure, la copertura mediatica data a questo fatto sconvolgente è, almeno per il momento, adeguata a un dramma di questa portata? E cosa avrebbero detto i cani da guardia di France Info se questo bilancio (provvisorio) fosse stato causato, ad esempio, da un Vladimir Putin o da un Donald Trump?

 

Infine, ultimo ma non meno importante, soprattutto non dobbiamo dimenticare che se il movimento dei gilet gialli guadagnasse ancora terreno (o se mantenesse, come adesso, il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione), lo Stato Benalla-Macroniano non esiterà un momento a inviare i suoi Black Bloc e tutta la sua "Antifa" (come le famose "Brigate rosse" dei vecchi tempi) per screditarlo con qualsiasi mezzo, o orientarlo verso un'impasse politica suicida (abbiamo già visto, per esempio, come lo stato macroniano è riuscito in poco tempo a privare l'esperienza Zadista di Notre-Dame-des-Landes del suo sostegno popolare originale). Ma anche se questo movimento coraggioso dovesse temporaneamente venire interrotto dal PMA (Parti des médias et de l’argent), nel peggiore dei casi significherà che si è trattato solo di una prova generale e dell'inizio di una lunga battaglia. Perché l'ira che viene dal basso (sostenuta, devo ripeterlo ancora una volta, dal 75% della popolazione - e quindi logicamente stigmatizzata dal 95% dei cani da guardia mediatici) non ripiegherà, semplicemente perché la gente non ne può più e non ne vuole più sapere. Il popolo è decisamente in movimento! E a meno che non se ne elegga un altro (secondo il desiderio di Eric Fassin, questo agente d'influenza particolarmente attivo della famosissima French American Foundation), non è pronto a rientrare nei ranghi. Che le Versailles di sinistra e di destra (per usare le parole dei proscritti della Comune rifugiati a Londra) lo tengano per certo!

 

Con grande amicizia,

 

 

JC

 

 

25/11/18

Italia, fai attenzione: a Bruxelles non importa nulla di te

Su Strategic Culture, Tom Luongo sposa la strategia di Salvini nei confronti della UE: secondo l'analista, il vice presidente del Consiglio leghista sta cercando di creare in Italia un vasto fronte popolare contro i tecnocrati di Bruxelles, mostrandoli come i "cattivi" che vogliono intimidire il paese e forzarlo in politiche fallimentari. E creando appositamente il casus belli a questo fine, come nel recente caso del bilancio respinto dalla Commissione. È questo approccio coraggioso, che parte dalla consapevolezza della pericolosità dell'euro per l'Italia e dei punti di forza del paese all'interno degli equilibri europei, che si sta dimostrando vincente, a differenza delle sfide lanciate a loro tempo da Grecia e Regno Unito. Su quest'ultimo punto, Luongo non dispensa feroci critiche alla May per la gestione della Brexit.

 

 

di Tom Luongo, 22 novembre 2018

 

 

Il totale tradimento della Brexit da parte del Primo Ministro britannico Theresa "La Signora di Gesso" May sta funzionando da campanello d'allarme per gli Italiani. Gli ultimi sondaggi in Italia mostrano che anche se la coalizione populista in Italia è sgradita a Bruxelles, è ancora molto popolare tra gli italiani.

 

E questa è una buona cosa perché quando si osservano attentamente i negoziati sulla Brexit è chiaro che tutto ciò che conta è la conservazione del potere della UE sul Regno Unito e non il miglior interesse di tutte le parti coinvolte, britannici o no.

 

I partner della coalizione italiana hanno ancora il sostegno di quasi il 60% degli italiani, sono cambiate soltanto le preferenze. La Lega adesso sorpassa nei sondaggi il Movimento Cinque Stelle (M5S) col 33% a fronte del 26%, mentre il partito di centro destra, vale a dire Forza Italia di Silvio "Uomo di Paglia" Berlusconi, è collassato (dal 14% delle elezioni di marzo ad appena il 7%).

 

E grosso modo questa stessa parte dei cittadini ora pensa che la UE stia angariando l'Italia. Questi numeri non potranno che peggiorare se l'Unione europea va fino in fondo a comminare multe all'Italia per un bilancio che non piace a Bruxelles.

 

Soprattutto, stiamo assistendo anche ad una crescita del sostegno all'uscITA. Un recente sondaggio del Politico Magazine ripreso da Zerohedge mostra una maggioranza di italiani sotto i 45 anni pronta a farlo: lasciare l'Unione europea.

 

La gente con più di 45 anni è ancora innamorata dell'ideale di un'Unione europea che riesce a tenere insieme un'Europa altrimenti in guerra, piuttosto che confrontarsi con la realtà di quello che è davvero: una distante e tirannica oligarchia guidata da tecnocrati non eletti con forti legami con i ceti altolocati al potere.

 

La fonte di questo sostegno al governo viene, credo, dal forte contrasto tra l'arrendevolezza della May di fronte alla leadership della UE, irritata per la temerarietà del popolo britannico nel voler uscire dalla loro squallida unione, e il modo in cui il vice primo ministro Matteo Salvini sta attaccando l'ipocrisia di Bruxelles sui vincoli fiscali.

 

Salvini sta facendo esattamente quello che deve fare per rinforzare i consensi e allontanare l'elettorato italiano da Bruxelles. Presentare un bilancio che soddisfa entrambe le parti della coalizione - tagli fiscali e una minore regolamentazione assieme ad un reddito universale di base - nel contempo ostentando il rispetto dei vincoli di bilancio della UE, è stato un vero colpo di genio politico.

 

Salvini e Luigi Di Maio, il suo socio nell'insurrezione, hanno creato una perfetta polpetta avvelenata da far ingoiare alla UE. Non c'è nulla di realmente eccepibile nella proposta di bilancio. Non risolverà nessuno dei problemi italiani né sostanzialmente li peggiorerà.

 

Il bilancio è stato proposto allo scopo di irritare la leadership dell'UE, ormai grassa e pigra per aver sbilanciato tutto a suo favore. E Bruxelles ha reagito in modo eccessivo, nel modo più prevedibile.

 

Pensate a quel che sta facendo la UE con questo bilancio. Stanno minacciando miliardi di multe ad un governo italiano che è indebitato fino agli occhi.

 

Questa è la definizione stessa di "dare un'impressione negativa".

 

Considerate il modo in cui hanno gestito la Brexit. Hanno richiesto al Regno Unito il pagamento di una cifra enorme per uscire. Questo in aggiunta ai soldi che il Regno Unito già paga ogni anno al bilancio della UE.

 

E, gente, non dimentichiamo che l'unica ragione per cui la questione del debito sovrano italiano non è nei titoli di testa di tutti i giornali è che la Banca centrale europea è l'unica acquirente marginale del debito italiano. E il Presidente della BCE Mario Draghi non lo fa per la bontà del suo cuore addestrato alla Goldman Sachs.

 

Lo sta facendo perché, se non lo facesse, l'intero sistema bancario europeo collasserebbe.

 

Quindi tutta questa faccenda non è niente più che teatro Kabuki. E Salvini lo sa.

 

Comprende che l'euro è una trappola mortale per l'Italia. Sa anche di avere il coltello dalla parte del manico a causa dell'ammontare del debito.

 

E tuttavia, la UE oggi si comporta esattamente come quando gestiva i colloqui sul debito greco nel 2015.

 

Hanno rifiutato di negoziare. Hanno fatto richieste irragionevoli. Nel caso della Grecia c'era un elettorato greco inconsapevole che non avrebbe sostenuto la Grexit e non avrebbe dato al parimenti inconsapevole Primo Ministro Alexis Tsipras il sostengo di cui necessitava per portare la Grecia fuori dall'euro.

 

Allora la strategia ha funzionato.

 

La stessa cosa sta avvenendo con la Brexit. L'aristocrazia britannica non vuole lasciare la UE. Theresa May è una Remainer e quindi ovviamente a libro paga, e la cosa non è nemmeno divertente a questo punto. Fin dall'inizio ha avuto il coltello dalla parte del manico e tuttavia si comporta come se non fosse così.

 

Così adesso la May ha messo insieme l'accordo esatto che Bruxelles voleva fin dall'inizio: il controllo sulle politiche fiscali e commerciali della Gran Bretagna che resta senza più voce al Parlamento europeo. Onestamente, lo status della Gran Bretagna una volta che questo accordo sarà stato firmato sarà quello di poter solo guardare al futuro di tutti i paesi che rimangono nella UE.

 

Tassazione senza rappresentanza politica.

 

Quindi, non dovrebbe essere uno shock per nessuno il fatto che l'Unione europea gestisca Salvini e il suo governo con lo stesso disprezzo e la stessa derisione. Ed è esattamente ciò che vuole Salvini. Deve manovrare Bruxelles facendoli apparire come i cattivi.

 

Perché se vuole liberare l'Italia da Bruxelles, non può essere solo una sua idea. Deve essere un'ondata popolare.

 

Fortunatamente per lui e gli italiani in generale, gli idioti nelle alte sfere di Bruxelles sono fin troppo felici di accontentarlo. Credo che a loro piaccia essere cretini odiosi, francamente.

 

Pensano realmente di poter decidere tutto per vie legali. Ma la verità è che non possono.

 

Perché pensate che il Presidente francese Emmanuel Macron e l'Anatra Zoppa, la Cancelliera Tedesca Angela Merkel, vogliano così tanto il Grande Esercito della UE? Per invadere e occupare gli stati membri ribelli, non per proteggersi dalla Russia.

 

Più la UE tenta di intimidire e forzare l'Italia a fare quello che vuole la UE, più saranno gli italiani, anche i più anziani, che sosterranno la crociata di Salvini. Il populismo è popolare in tutta Europa.

 

E le elezioni del Parlamento europeo a maggio probabilmente si dimostreranno un importante punto di svolta nel percorso della UE. Tutti i partiti euroscettici sono largamente sotto-rappresentati rispetto ai numeri odierni dei sondaggi. A maggio, centinaia di seggi sono destinati a passare di mano.

 

E molti dei nuovi arrivati non saranno a libro paga del Gruppo di Davos.

 

Allora forse la Ue capirà quanto sia fragile l'intero progetto.

 

H.W. Sinn: che abbia inizio il prossimo atto della tragedia italiana

 

Riprendiamo dall'ottimo Vocidallagermania la seconda parte dell'importante contributo di Hans Werner Sinn, pubblicato sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, in cui il noto economista tedesco, ora in pensione, commenta in maniera molto realistica l'ultimo atto della crisi dell'eurozona: la  "tragedia italiana". Gli scenari che si potrebbero aprire sono quattro, nessuno dei quali può essere considerato come una facile soluzione a questo dramma (ottimamente rappresentato in sintesi nel grafico di copertina, riportato nella prima parte dell'articolo di Werner Sinn). E tuttavia lo scenario dell'Italexit è visto come un percorso che, pur nelle difficoltà,  porterebbe dei vantaggi al nostro paese. Certo, tutti quei partiti e mezzi di comunicazione di massa che in Italia e non solo hanno continuato a sostenere oltre ogni ragionevole logica l'adesione all'euro dovrebbero ammettere i propri errori. Un ostacolo politico di non poco conto.  (qui su Vocidallagermania la prima parte)

 

 

di Hans Werner Sinn, 19 novembre 2018 

 

Ci sono solo quattro opzioni per contrastare l'eccessivo aumento dei prezzi in Italia. La prima strada è quella di avviare di nascosto un'unione di trasferimento. In primo luogo si mettono in comune i debiti che poi vengono garantiti congiuntamente. Poi i creditori privati ​​vengono sostituiti da quelli pubblici, e il debito allungato ed eroso dalla riduzione degli interessi. Alla fine i contribuenti degli altri paesi dell'eurozona danno dei soldi ai debitori affinché questi possano ripagare i loro debiti verso gli investitori finanziari, possano continuare ad acquistare i beni dalle imprese esportatrici e, non da ultimo, per impedirgli di lasciare l'euro.

 

Ciò renderebbe l'Italia intera ciò che già oggi è il Mezzogiorno italiano: un percettore di trasferimenti dal nord, troppo caro, che non diventerà mai competitivo e che dovrà essere costantemente finanziato dall'esterno. I trasferimenti sarebbero sostanzialmente delle tangenti pagate ai gruppi politici per dare loro qualche altro anno di tranquillità. In realtà l'Europa non può permetterselo perché in una competizione globale sempre più difficile dovrà impegnarsi per diventare economicamente sempre più forte, e non più debole. Nella realtà questo percorso è già stato avviato da molto tempo. E il governo francese infatti insiste affinché si proceda creando un'assicurazione comune sui depositi bancari, un'assicurazione congiunta contro la disoccupazione e un bilancio della zona euro. Si parla sempre di presunti "shock asimmetrici" esogeni da cui bisogna proteggersi - come se la crisi nel Sud Europa avesse a che fare con degli eventi casuali, ingestibili e transitori.

 

La seconda opzione consiste in una riduzione dei prezzi per correggere l'eccesso di inflazione dei primi anni dell'euro. Ciò implica dei tagli ai salari oppure degli incrementi di produttività senza la partecipazione dei dipendenti. E' una forma di chemioterapia per l'economia che potrebbe spingere il paziente verso la disperazione. Affittuari e debitori andrebbero in bancarotta perché i loro obblighi di pagamento resterebbero invariati, mentre i salari diminuiscono. Questa modalità inoltre, non solo richiede un miracolo in termini di produttività, ma anche una visione che i sindacati italiani non hanno ancora mostrato di avere. Durante l'eurocrisi la Grecia è diventata piu' economica rispetto ai suoi concorrenti del 12% e la Spagna dell'8%, l'Italia invece non ha fatto nulla. Dal 2007 il livello dei prezzi dei beni auto-prodotti è cresciuto alla stessa velocità di quello dei suoi concorrenti nell'area dell'euro.

 

La terza opzione possibile consiste in una lunga fase inflattiva nei paesi dell'Europa settentrionale, in particolare in Germania. L'apprezzamento italiano nei confronti della Germania rispetto al 1995 è stato del 39%. Per compensarlo la Germania dovrebbe avere per 16 anni un'inflazione del 2 % piu' alta di quella italiana. Per gli italiani sarebbe insopportabile, mentre i risparmiatori tedeschi salirebbero sulle barricate.

 

La quarta via consiste in un'uscita temporanea dell'Italia dall'euro secondo il piano dell'estate 2015, pensato da Wolfgang Schäuble per la Grecia, e all'epoca approvato informalmente dai 15 ministri delle finanze dell'Ecofin. Il problema sarebbe la probabile fuga dei risparmi che l'Italia dovrebbe affrontare con dei controlli sui movimenti di capitale, almeno fino a quando l'uscita non sarà completata. Dal punto di vista italiano questo percorso avrebbe alcuni vantaggi. L'economia grazie alla svalutazione tornerebbe a crescere molto rapidamente mentre i rapporti di credito interni tornerebbero in equilibrio, in quanto sarebbero convertiti in lire e svalutati, e anche una parte del debito estero potrebbe essere convertito e svalutato. Le banche francesi tuttavia verrebbero colpite duramente, dato che sono esposte verso l'Italia circa tre volte e mezzo in più rispetto a quelle tedesche. Dal punto di vista politico questo passo per i principali politici europei equivarrebbe ad ammettere il loro fallimento. E il mercato dei capitali si verrebbe a trovare in una situazione di notevole turbolenza.

 

Ovviamente nessuna di queste strade offre una facile soluzione per i problemi italiani; la prima meno di tutte le altre, che invece molto probabilmente sarà quella scelta sotto l'influenza delle lobby della finanza e dell'export. L'Eurozona è finita in un vicolo cieco. Il nuovo governo italiano lo sa molto bene. Esclude categoricamente il secondo percorso (riduzione dei prezzi), e realisticamente nel prossimo futuro non può aspettarsi alcun successo dal terzo percorso (inflazione del Nord). Si concentra pertanto sulla prima opzione (unione di trasferimento) e si tiene la quarta via, l'uscita temporanea dall'euro, in maniera piu' o meno chiara, come una potenziale minaccia da agitare.

 

ll portavoce della Lega, l'economista finanziario Claudio Borghi, ha dichiarato che il suo partito vorrebbe introdurre una moneta parallela per risolvere i problemi finanziari italiani, i cosiddetti mini-bot. Secondo le sue parole si tratterebbe di titoli di stato di piccole dimensioni, trasferibili, denominati in euro e destinati a circolare come moneta cartacea. Dato che con i mini-bot si potranno pagare le tasse per un importo pari a quello stampato sul titolo, probabilmente sarebbero scambiati solo con un piccolo sconto rispetto agli euro reali. L'Italia spera così di poter estinguere una parte del suo debito nazionale ricorrendo ai mini-bot.

 

Paolo Savona, il ministro per l'Europa del nuovo governo, si spinge oltre. Nel 2015 aveva già formulato fin nel dettaglio una exit-strategy sotto forma di uscita dalla moneta unica. Il piano di Savona, tuttavia, non sapeva come risolvere il problema della stampa delle banconote fisiche senza che il mercato dei capitali se ne accorgesse.

 

I mini-bot risolverebbero questo problema. Dal momento che verrebbero introdotti prima dell'uscita, sarebbero già a disposizione se improvvisamente in un fine settimana si dovesse perfezionare la conversione valutaria. Tutti i conti bancari, tutti i contratti di lavoro, quelli di affitto e tutti i contratti interni di credito verrebbero mantenuti, solo che il simbolo dell'euro sarebbe sostituito con il segno della lira. Savona vorrebbe trasformare in lire anche il debito pubblico emesso prima del 2012. Si tratta ancora dei tre quarti di tutti i titoli in circolazione. Ci sarebbero quindi altri tagli al debito in modo da ridurre ulteriormente il peso del debito pubblico. I debiti Target di Banca d'Italia nei confronti dell'Eurosistema verrebbero annullati. Potrebbe anche funzionare visto che dopo l'uscita dall'euro non esiste una base legale per il loro rimborso e anche perché molti politici tedeschi di spicco li hanno definiti come degli "irrilevanti saldi di compensazione". Naturalmente tutto dovrebbe essere tenuto segreto fino all'ultimo secondo al fine di evitare una fuga di capitali.

 

L'Europa dovrà dare all'Italia ancora molto denaro per scongiurare che tutto ciò accada.In ogni caso, che abbia inizio il prossimo atto della tragedia italiana.

23/11/18

Guardian – I “gilet gialli” fanno sbiancare Macron

Il giornale britannico progressista The Guardian sembra simpatizzare, in questo articolo, coi manifestanti dei “gilet gialli” che durante tutta la settimana hanno bloccato caselli, strade e depositi di carburante in Francia, e si stanno accingendo a una nuova grande manifestazione a Parigi. L’articolo ascolta le ragioni di alcuni di loro, che si estendono ben oltre la rivolta contro una tassa e diventano protesta generale contro le politiche di disuguaglianza imposte dalla classe dirigente e legittimate dai media. Intanto, ben il 77% dei francesi solidarizza con le proteste.

 

 

di Angelique Chrisafis, 23 novembre 2018

 

I dimostranti antigovernativi che questa settimana hanno alzato barricate per le strade e nei depositi di carburante di tutta la Francia si preparano per una nuova manifestazione a Parigi questo sabato, mentre Emmanuel Macron fatica a reprimere il sentimento nazionale di ribellione.

 

Il movimento popolare dei “gilet gialli” – che prende il nome dalle giubbe gialle ad alta visibilità indossate dai manifestanti – ha colto impreparato il presidente francese. Il movimento non ha leader, e le barricate erette ai caselli, alle rotonde e ai depositi di carburante sono state organizzate tramite i social media.

 

Il movimento, iniziato come protesta contro l’aumento delle tasse sui carburanti, è cresciuto fino a diventare un ampio sfogo contro la disuguaglianza, contro una classe politica percepita come disconnessa dalla realtà, e contro il governo Macron percepito in modo sempre più negativo come un “presidente dei ricchi”.

 

Un sondaggio di Le Figaro condotto questo venerdì (23 novembre, NdT) suggerisce che il 77% dei francesi riterrebbe legittime le proteste organizzate a Parigi e dintorni, e che dunque anche coloro che non hanno preso direttamente parte ai blocchi stradali, giorno e notte, nelle città di provincia, nei paesi e nelle aree suburbane, si identificherebbero comunque col sentimento di lontananza dalla classe dirigente.

 

Marie, 31 anni, babysitter nella regione di Var nel sud della Francia, ha protestato per tutta la settimana a una casello. “La gente è esasperata, c’è molta rabbia. Le tasse stanno crescendo ma i nostri salari no, e quando tu lavori duramente ti sembra ingiusto”, ha detto.

 

I miei genitori in pensione non arrivano alla fine del mese, e hanno dovuto trovarsi un nuovo lavoro distribuendo volantini pubblicitari. Il governo non ci sta ascoltando. Per me Macron è il presidente dei ricchi, che taglia le tasse ha chi ha i soldi e si dimentica del resto di noi. I politici sono completamente disconnessi dalla nostra vita”.

 

Quelli al potere sono un’unica grande oligarchia. Dei media non ci si può fidare. Ho pensato di votare Marine Le Pen, ma è l’intera classe politica a essere deludente. Mi sto chiedendo cosa voto a fare. Sono preoccupata che il futuro dei miei tre figli possa essere peggiore del mio”.

 

Due persone sono morte in altrettanti incidenti, e più di 530 ferite, di cui 17 in modo grave, durante una settimana di proteste e blocchi stradali. Un operaio di 30 anni, che ha manifestato ai posti di blocco nella Francia meridionale, l’ha definita: “Una società fallita dove ci troviamo a contare anche i centesimi per arrivare alla fine del mese, una società stanca dei politici, che non si preoccupano minimamente se rubano ai poveri per dare ai ricchi”.

 

Macron, che ha costruito la propria identità politica sul rifiuto di fare passi indietro di fronte alla pressione pubblica e alle proteste di piazza, questa settimana ha invocato un “dialogo” per spiegare meglio le sue politiche.

 

Il presidente centrista ha insistito che la sua “trasformazione” della Francia, che passa dall'indebolimento delle leggi sul lavoro e dalla revisione del funzionamento dello stato sociale, andrebbe a vantaggio della gente comune che per decenni ha sofferto una disoccupazione di massa.

 

Ma Macron ha anche promesso che le autorità sarebbero state “intransigenti” se le proteste fossero degenerate nel disordine. Questa settimana il governo ha ordinato alla polizia di rompere tutti i blocchi stradali rimasti, specialmente quelli attorno ai depositi di carburante e ai siti di importanza strategica.

 

L’isola francese di Réunion, al largo della costa sud-est del continente africano, ha 850.000 cittadini, e ha assistito alla più grave ondata di violenza da quasi 30 anni, dopo le sommosse sorte a fianco delle recenti proteste. L’isola ha un tasso di disoccupazione del 28%, il triplo rispetto a quello della Francia continentale, e quasi il 40% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.

 

Parlando di ciò che è avvenuto sull’isola, dove in alcune aree è stato imposto il coprifuoco per disperdere le proteste, Macron ha detto: “Saremo intransigenti perché non possiamo accettare ciò a cui stiamo assistendo”.

 

Dominique, 50 anni, un tecnico disoccupato che ha manifestato a un blocco stradale nella città di Martigues, vicino a Marsiglia, ha detto: “C’è molto più che il semplice carburante. Il governo ci ha lasciati senza nulla”.

 

Macron, il cui tasso di popolarità ha raggiunto un nuovo minimo sotto il 30%, ha provato a presentarsi come “umile”. In una intervista televisiva della scorsa settimana ha ammesso di “non riuscire a riconciliare la Francia coi suoi leader politici”, e ha promesso di dare maggiori poteri alle province.

 

“Ci sono delle rimostranze legittime che devono essere ascoltate”, ha detto mercoledì al suo Consiglio dei Ministri.

22/11/18

Moneyweek - L’Italia non si inchina alla UE

La prestigiosa rivista anglosassone MoneyWeek rende conto dell’attuale conflitto tra governo italiano e UE sul deficit di bilancio. Le richieste italiane sembrano assolutamente ragionevoli data la congiuntura economica e la situazione del paese, ma l’UE non vuole transigere dalla sua consueta richiesta di austerità. Le autorità europee contano solitamente sul fatto che “i mercati” costringano i paesi ribelli a piegarsi ai voleri di Bruxelles, ma stavolta le condizioni sono diverse, e le sanzioni UE non possono spaventare nessuno.

 

Di Matthew Lynn, 18 novembre 2018

 

 

L’Italia sta sfidando la UE sulla spesa pubblica. Ma, questa volta, i mercati non vengono in aiuto di Bruxelles. E questo sarà un bel problema per l’UE.

 

Gli interessi sul debito pubblico esploderebbero. Le banche sarebbero in pericolo. Le aziende rimarrebbero senza liquidità e i capitali abbandonerebbero il Paese. In breve tempo, si instaurerebbe una spirale negativa. Mentre il sistema finanziario si avvierebbe verso il collasso, il governo “populista” italiano sarebbe costretto ad abbandonare le sue stravaganti promesse elettorali, abbassare i toni, e obbedire agli ordini della UE.

 

O quantomeno, questo era il copione scritto da Bruxelles quando la Lega e il Movimento Cinque Stelle hanno preso il potere nella prima metà dell’anno. Ciò nonostante, l’Italia ha deciso di aumentare la spesa, sfidando le regole che la tengono soggiogata nell’euro. Il Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker ha scritto al governo lettere di richiamo. “Le uniche lettere che accetto sono quelle di Babbo Natale” ha risposto Matteo Salvini, il Ministro degli Interni italiano e leader della Lega.

 

Un problema di copione

 

Nemmeno i “bond vigilantes” stanno seguendo il copione. I mercati finanziari non possono o non vogliono fare il lavoro di Bruxelles. Forse non dovremmo stupirci. Secondo lo standard dello scorso decennio, il bilancio presentato dal governo italiano non si può certo definire estremo. Qualche riduzione della tassazione e un po’ di spesa pubblica aggiuntiva spingerebbero il deficit al 2,4% del PIL. Solo qualche anno fa paesi come il Regno Unito facevano deficit del 10% del PIL. Quindi il 2,4% non sembra proprio la fine del mondo. Tuttavia, le regole della moneta unica richiedono ai membri di non fare deficit eccessivi. E la commissione insiste che l’Italia debba rivedere il suo bilancio.

 

Comprensibilmente, il governo ha rifiutato, e viene ora minacciato di sanzioni se non obbedisce. La verità è che una multa in più o in meno non sarebbe molto rilevante. Ma la bancarotta nazionale fa paura a qualsiasi governo, e dovrebbe imporre un cambio di politica. L'Italia ha un debito di 2.100 miliardi di euro, o 131% del PIL. Per alimentarlo, deve pagare miliardi di interessi ogni anno, e rinnovarlo quando arriva a scadenza. Un significativo aumento nel costo del prestito, o la minaccia di tagliarla fuori dai mercati dei capitali, la metterebbero velocemente in ginocchio. È quanto accadde quando la Grecia sfidò la UE, e nel 2011 quando Silvio Berlusconi fu rimpiazzato dal tecnocrate pro-UE Mario Monti. Prima o poi i populisti vengono docilmente costretti all'obbedienza e la crisi è finita.

 

Solo che stavolta non sta andando proprio così. Gli interessi sui bond italiani sono saliti e le azioni delle banche sono scese. Ma neanche lontanamente in modo catastrofico. Non esiste alcuna vera pressione sul governo perché ceda. Come mai?

 

La prima ragione è che un bilancio moderatamente espansivo è una politica perfettamente sensata per l’Italia. Si tratta di un paese che non è praticamente cresciuto nei due decenni da quando si è unito all’euro. Nell’ultimo trimestre, è riscivolato nella crescita zero e si trova a un passo dalla recessione. Ha un alto livello di disoccupazione, e un sacco di risorse economiche inutilizzate. Non c’è bisogno di essere John Maynard Keynes per concludere che un po’ di spese pubbliche aggiuntive potrebbero essere appropriate quest’anno. È l’insistenza dell’UE nell’imporre altra austerità ad apparire estremista.

 

“Too big to fail”

 

Inoltre, le regole del gioco sono cambiate. Nell’ultima euro-crisi, non si sapeva se la Banca centrale europea sarebbe intervenuta. Gli investitori correvano un rischio concreto di default sui titoli greci e italiani. Quindi non stupiva che gli interessi andassero alle stelle. Ma con la Banca Centrale che attualmente sta stampando migliaia di miliardi di euro, oggi questo scenario sembra molto meno probabile.

 

Infine, l’Italia è troppo grande perché possa fallire. Il suo debito potrebbe distruggere il sistema bancario di tutta Europa e potenzialmente innescare il collasso della moneta unica. I mercati lo sanno e quindi non faranno il lavoro al posto della UE così come  lo fecero nel 2011 e nel 2012.

 

Nelle prossime settimane il governo italiano potrebbe subire una sanzione tra i 3 e i 4 miliardi di euro. Ma non verrà escluso dai mercati e le sue banche non collasseranno. Proseguirà come se nulla fosse successo. Questo rappresenterà un grosso problema per Bruxelles. Non ci vorrà molto prima che i greci, gli spagnoli e in verità anche i francesi prendano atto che si può sfidare Bruxelles a piacimento, e non c’è molto che Bruxelles possa fare a riguardo.

 

 

21/11/18

German Foreign Policy - I "nemici interni" della UE

Su German Foreign Policy, sito specializzato sulla politica estera tedesca, si riportano le posizioni espresse su importanti quotidiani tedeschi sulla necessità di una posizione di difesa molto dura da parte della Germania contro i suoi "nemici interni": il paese si sente attaccato su molti fronti, dalla Gran Bretagna  ai paesi Visegrad,  ma nella maniera più devastante dall'Italia, il cui governo, a quanto da loro sostenuto, "non merita" di mettere a rischio il proprio paese e con esso l'Unione, mandando così a monte tutti i vantaggi di cui la Germania ha goduto e che ora teme di perdere. In queste posizioni non c'è ombra di una volontà di collaborazione e condivisione sugli evidenti problemi di funzionamento della UE, bensì un atteggiamento chiuso ed arroccato nella difesa estrema dei propri vantaggi, secondo la logica perdente di "mors tua vita mea".  

 

 

 

25 ottobre 2018

 

 

Traduzione per Vocidallestero di Luca Scarcali


 

BERLINO - Per quanto riguarda il conflitto tra Bruxelles e Roma sul bilancio dello Stato italiano, nell'establishment tedesco c'è una chiamata ad una decisa battaglia contro i "nemici interni" dell'UE. Si deve difendere l'Unione europea "con tutta la forza", dice un importante giornale tedesco; "la coalizione del governo italiano non è degna di mettere a rischio il destino del Paese". Il motivo per cui il governo italiano ha aperto lo scontro è il suo rifiuto di continuare a seguire i dettami dell'austerità tedesca. Il predominio di Berlino nell'UE genera crescenti proteste anche in altri stati membri, che si aggiungono ai conflitti con Polonia ed Ungheria. Anche in Francia cresce il malumore per Berlino. Nel frattempo il fondatore del movimento politico "La France insoumise", Jean-Luc Mélenchon, che nelle elezioni presidenziali del 2017, con il 20 per cento ha mancato di poco la partecipazione al ballottaggio, chiama la Francia all'uscita da tutti i trattati europei. Le élite tedesche reagiscono con ancora maggior durezza.

 

 

 

 

Sì al razzismo, no alla promozione dei consumi

 

A seguito della bocciatura del bilancio italiano da parte della Commissione europea, c'è un'ulteriore escalation del conflitto tra Bruxelles e Roma. Per la prima volta in assoluto, martedì, la Commissione ha respinto un bilancio democraticamente approvato, già nella fase della presentazione, ed ha chiesto fondamentali “correzioni”. Il governo italiano ha annunciato che non cederà e si atterrà al deficit previsto del 2,4% del prodotto interno lordo (PIL). [1] Se dovesse mantenere le sue posizioni, fra poche settimane potrebbe scattare una multa. Il conflitto è particolarmente acuto in quanto, secondo una recente indagine, il 59% della popolazione italiana sostiene un chiaro aumento dell'indebitamento, e quindi il governo può contare su un ampio sostegno.[2] Allo stesso tempo, l'UE in Italia ha perso popolarità in misura enorme: solo il 42% della popolazione è a favore dell'adesione all'Unione - meno che nel Regno Unito.[3] Va notato che Bruxelles non interviene contro le misure razziste della Lega, che incontrano forti critiche internazionali. Il motivo dell'intervento dell'UE è piuttosto quello di opporsi al tentativo di uscire dalla politica di austerità tedesca, che si è dimostrata incapace di condurre l'Italia fuori dalla crisi. Roma vuole provare a generare crescita promuovendo i consumi. Berlino si oppone.



 

 

L'Europa della guerra

 

 

Il conflitto con l'Italia e la disputa sulle modalità di uscita della Gran Bretagna dall'UE [4] stanno portando a crescenti tensioni con sempre più paesi. Anche in Francia le proteste contro il dominio di Berlino nell'UE di recente sono diventate più forti. In un discorso all'Assemblea Nazionale di lunedì, il fondatore de La France insoumise, Jean-Luc Mélenchon, non solo ha parlato contro la politica di austerità imposta da Berlino, in quanto distrugge il modello sociale francese[5], ma ha anche criticato la militarizzazione dell'UE spinta da Berlino [6]: si dovrebbe effettivamente costruire una "Europa per la pace", ma ora si scopre che su iniziativa della Repubblica federale tedesca è in costruzione "un'Europa della guerra". Fin dalla fine di settembre, Mélenchon ha manifestato in un articolo la sua protesta contro i piani tedeschi di diventare di fatto una potenza nucleare, attraverso la partecipazione alle armi nucleari francesi. Inoltre - ancora una volta - ha sottolineato la posizione dominante del personale tedesco negli organismi decisivi e nell'apparato burocratico della UE.[7] In definitiva, la supremazia tedesca nell'UE si basa sullo schiacciante  potere economico del paese, che consente al governo di Berlino di agire in maniera autoritaria.[8] Mélenchon, che nelle elezioni presidenziali del 2017, con il 19,6 per cento dei voti, ha mancato di poco la partecipazione al ballottaggio, chiama nel frattempo la Francia, paese in cui nessun miglioramento immediato è in vista, "all'uscita da tutti i trattati europei".[9]


 


Vassalli


 

 

Allo stesso tempo stanno aumentando le divergenze con i paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia). Martedì, durante una discussione al Ministero degli Affari Esteri, si è avuto uno scambio di opinioni tra il Presidente federale Frank-Walter Steinmeier e la sua controparte polacca Andrzej Duda. L'argomento non era solo la riforma giudiziaria, con la quale Varsavia vuole sottoporre i tribunali del paese, e in particolare i loro gradi superiori, a un controllo politico.[10] Riferendosi ad ulteriori questioni, Duda ha parlato contro il "consesso delle principali potenze" all'interno dell'Unione, in cui i paesi più popolosi dominano apertamente, e ha dichiarato: "Non vogliamo essere vassalli."[11] Riguardo all'obiezione del Presidente federale che tutti gli Stati membri hanno aderito all'Unione su base volontaria, Duda ha sottolineato che nel frattempo il Regno Unito è stato il primo paese a lasciare l'UE.[12] In effetti, finora, Bruxelles non ha evitato alcuno sforzo per rendere l'uscita britannica un esempio scoraggiante, in modo da impedire ad altri membri di lasciare l'Unione (Rapporto german-foreign-policy.com [13]). Lasciare l'Unione è un problema per i piccoli Stati membri, solo teoricamente liberi - basta dare uno sguardo alle tattiche negoziali dell'UE per la Brexit, effettivamente intimidatorie.

 

 

 

Divorare o essere divorati

 

 

Nel tentativo di consolidare l'UE - da cui le élite tedesche continuano a beneficiare al massimo grado, sia economicamente che politicamente - ora l'establishment tedesco individua chiaramente il nemico e ne parla apertamente. I "nemici" dell'Unione "si trovano al suo interno e vogliono distruggerla", è stato detto pochi giorni fa, a proposito del conflitto sul bilancio italiano, da un quotidiano tedesco un tempo liberale [14]. Attualmente, sono in corso "almeno tre attacchi simultanei" nei confronti dell'UE: il primo fronte è rappresentato dalla Gran Bretagna, che è uscita dall'Unione europea, un secondo dalla Polonia ed Ungheria ed un terzo dall'Italia. Roma potrebbe ora "provocare una crisi finanziaria e monetaria", che costringebbe gli Stati membri a decidere se piegarsi al "ricatto" italiano o "accettare l'uscita di un socio fondatore". La maggioranza dell'UE deve "resistere agli attacchi se non vuole essere divorata", ha proseguito il giornale. La lotta con la Polonia e l'Ungheria potrebbe essere tenuta "in sospeso" per un po', fino a quando "si verificherà un cambiamento di orientamento politico" in questi paesi. "La causa italiana", tuttavia, non lo consente, a causa delle dinamiche della crisi; potrebbe diventare "un banco di prova" su come affrontare i "nemici" dell'UE. L'autore dell'articolo, che è molto addentro all'establishment della politica estera tedesca, mette il governo italiano nel mirino: "Questa coalizione non è degna di mettere a rischio il destino del Paese". E' giunto il momento di agire: "Chi vede un valore in questa Unione, ora deve difenderlo con tutte le forze." L'era glaciale dell'Europa è appena iniziata.

 

 

Il potere centrale nell'Europa

 

 

Gli sforzi della Repubblica Federale tedesca di tenere insieme l'UE, che domina e da cui trae grandi benefici, è stata recentemente commentata dallo storico britannico Perry Anderson. Nel suo libro più recente dal titolo "Egemonia", Anderson cita il consigliere del governo di Berlino Herfried Münkler, che già nel 2015 affermava che spetta alla "potenza centrale europea" – quindi alla Germania - "domare il recente drammatico aumento delle forze centrifughe nell'Unione": "Se la Germania fallisce nei suoi compiti di potere centrale europeo, allora fallisce l'Europa"[15]. Anderson è critico nei confronti dell'UE da molto tempo; nell'estate del 2015, a seguito dell'aggiramento del "No greco" al referendum sulla politica di austerità imposta ad Atene, ha giudicato l'Unione "una struttura oligarchica basata sulla negazione di ogni tipo di sovranità popolare", impostando un "amaro" regime economico che "genera privilegi per pochi e disagi per molti ".[16] Considerando le affermazioni di Münkler, Anderson constata che Berlino deve "gestire i compiti del potere centrale europeo in modo responsabile". In Germania si parla sempre di "responsabilità verso l'Europa", senza menzionare minimamente i profitti che la Repubblica Federale tedesca sta facendo da anni grazie alle sue eccedenze di esportazioni [17], a detrimento degli altri stati membri. Nel suo libro "Egemonia", Anderson ironizza sui numeri autoreferenziali del contributore netto e guardiano d'Europa, al servizio della propria auto-glorificazione. Il potere usa sempre il pathos, per autocommiserarsi o per compiacersi di sé."[18]

 

 

 

[1] Manovra, governo tira dritto: 'Non cambia'. ansa.it 24.10.2018.

 

[2] Die Märkte blicken auf Italien. wiwo.de 22.10.2018.

 

[3] Briten sind nicht die größten EU-Skeptiker. n-tv.de 17.10.2018.

 

[4] S. dazu Das Feiglingsspiel der EU.

 

[5] Michaela Wiegel: Schluss mit dem Basar. Frankfurter Allgemeine Zeitung 24.10.2018.

 

[6] S. dazu Die Koalition der Kriegswilligen und Die deutsche Bombe.

 

[7] S. dazu Eine nie dagewesene Machtkonzentration und Der Blitzaufstieg des Generalsekretärs.

 

[8] Jean-Luc Mélenchon, Bastien Lachaud: L'Allemagne vise-t-elle une hégémonie en Europe? Le Monde 23.09.2018.

 

[9] Michaela Wiegel: Schluss mit dem Basar. Frankfurter Allgemeine Zeitung 24.10.2018.

 

[10] Reinhard Lauterbach: Der nächste Exit? junge Welt 24.10.2018.

 

[11] "Wir wollen nicht Vasallen sein". spiegel.de 23.10.2018.

 

[12] Eckart Lohse: Stunde der Wahrheit. Frankfurter Allgemeine Zeitung 24.10.2018.

 

[13] S. dazu Brüsseler Provokationen und Die Arroganz der EU.

 

[14] Stefan Kornelius: Eiszeit in Europa. Süddeutsche Zeitung 19.10.2018.

 

[15] Herfried Münkler: Wir sind der Hegemon. faz.net 21.08.2015.

 

[16] Perry Anderson: The Greek Debacle. jacobinmag.com 23.07.2015.

 

[17] S. dazu Ein Transmissionsriemen deutscher Dominanz.

 

[18] Jürgen Kaube: Kommen Sie uns bitte nicht mit der Moral des Stärkeren. faz.net 14.09.2018.