29/09/17
La Tribune - L'ordoliberalismo al cuore del programma di Alternative für Deutschland
di Romaric Godin, 2 maggio 2016
Nel programma adottato questo week-end il partito di estrema destra tedesco Alternative für Deutschland (AfD) ha riaffermato di voler difendere l'autentica eredità dell'"economia sociale di mercato". Una posizione che spiega in parte anche le altre sue prese di posizione e che lo distingue dagli altri partiti di estrema destra, rendendolo così ancor più temibile per i partiti tradizionali.
Domenica, nel suo congresso di Stoccarda, Alternative für Deutschland (AfD) si è dato un programma. La maggior parte degli osservatori, non senza ragione, ha sottolineato la forte critica all'Islam da parte del partito, che si definisce un partito "anti-Islamico" e che sfrutta il rifiuto dell'arrivo dei rifugiati da parte della popolazione tedesca. Se AfD probabilmente nella prossima campagna per le elezioni federali del settembre 2017 punterà principalmente sulla questione immigrati, non bisognerebbe dimenticare il resto del suo programma e in particolare i suoi obiettivi per quanto riguarda l'Europa e l'economia. Perché una parte dell'elettorato di AfD si basa proprio su questi elementi.
Un discorso incentrato sulla nostalgia
Il centro del discorso di AfD è la nostalgia, il ritorno a una Germania precedente al maggio 1968. Da questo punto di vista, il partito di destra radicale tedesco si basa sullo stesso mito di molti altri partiti o movimenti conservatori europei: quello della società precedente alle contestazioni studentesche, idealizzata come una società di ordine, sicurezza e prosperità economica. In Germania, questa società idealizzata è incarnata in una formula: "economia sociale di mercato". Una formula che da allora è stata ripresa in tanti modi diversi, ma che non deve essere fraintesa: è il cuore del pensiero ordoliberale tedesco. Non sta a significare però la coesistenza di uno stato sociale con un'economia di mercato, bensì la creazione di un benessere materiale ben distribuito grazie all'economia di mercato. Il termine, del resto, è stato coniato dal ministro conservatore tedesco dell'Economia (1947-1963) Ludwig Erhard, in opposizione ai progetti keynesiani allora in voga in Europa.
L'Eredità dell'Ordoliberalismo
Non è una sorpresa che al punto 10 del suo programma AfD si proclami il vero erede del pensiero ordo-liberale - che onora i fondatori Walter Eucken, Alfred Müller-Armack e Wilhelm Röpke - e Ludwig Erhard, allora membro della CDU. I titoli degli articoli 10.1 e 10.2 del programma, "la libera concorrenza garantisce il nostro benessere" e "economia sociale di mercato, non economia pianificata", evocano direttamente Ludwig Erhard e il suo libro Wohlstand für Alle ( "Benessere per tutti ") in cui il capitolo 5 è intitolato "L'economia sociale di mercato supera l'economia pianificata" e in cui il ministro cerca di dimostrare che l'economia di mercato sotto la supervisione di uno Stato che assicuri la libera concorrenza e la stabilità della moneta sono garanzia di benessere sociale. Le posizioni di AfD vanno in questa direzione. "L'economia pianificata alla fine porta a una cattiva allocazione delle risorse e alla corruzione", recita il programma del partito, secondo il quale se lo Stato fa una politica di concorrenza e di lotta contro i monopoli, la politica potrà essere basata sulla "proprietà, la responsabilità personale e la libera formazione dei prezzi."
Un concetto di ordine di stampo liberale
AfD si presenta dunque come il vero difensore dell'ordoliberalismo tedesco, il cui altro nome ufficiale è "economia sociale di mercato", un elemento chiave dell'identità della Germania dopo la guerra. AfD è un partito estremamente liberale in economia, favorevole a una minore tassazione progressiva (punto 11.1), a limitare la spesa pubblica e la pressione fiscale (punto 11.2), ad abolire tutte le imposte sulle società, la ricchezza e le successioni ereditarie (punto 11.3), alla "reintroduzione del segreto bancario" (punto 11.7) e alla concorrenza all'interno dei sistemi fiscali europei (punto 11.6). Il pensiero ordoliberale per sua natura è un pensiero nazionale, perché è un pensiero basato sull'ordine: la concorrenza è libera, ma questa libertà del mercato per essere reale deve essere controllata e garantita dallo Stato, è una politica di ordine ("Ordnungspolitik"). Per i pensatori di AfD il quadro di protezione della stabilità e della libera concorrenza è stabilito a livello nazionale. "In termini economici, le istituzioni sovranazionali non sono realmente in grado di apportare qualcosa di decisivo", ha scritto Ludwig Erhard, che era scettico sull'integrazione europea in materia economica.
La stessa "radice comune" degli altri grandi partiti
Gli osservatori hanno sbagliato a ignorare queste posizioni di AfD, che rappresentano il cuore del suo pensiero. Infatti, a differenza dell'estrema destra tradizionale tedesca , come NPD o DVU, per esempio, o i Republikaner, AfD invoca la stessa "radice comune" dei maggiori partiti tedeschi dal dopoguerra. Ma afferma di esserne il vero erede. Tuttavia, e questo è l'elemento chiave, per questo partito non esiste contraddizione tra le sue convinzioni liberali - che, ricordiamo, sono all'origine della sua costituzione, nella primavera del 2014, da parte di un gruppo di economisti desiderosi di "tornare alle origini", e che da allora sono stati esclusi dalla direzione del partito - e l'elemento nazionalista e sovranista del suo discorso. Elemento cruciale dell'identità tedesca contemporanea, l'"economia sociale di mercato" è dunque un concetto sia culturale sia economico. Secondo AfD, non ci si può mischiare con elementi "estranei" a questa cultura, come l'Islam o l'Europa. Da qui il loro rifiuto.
Prendere atto del fallimento dell'espansione europea della "cultura della stabilità"
Per quanto riguarda l'Europa, AfD prende atto di ciò che considera il fallimento dell'imposizione agli altri partner della Germania della "cultura della stabilità". Gli altri paesi hanno rifiutato i principi dell'economia sociale di mercato, restando attaccati a elementi diversi, come il ruolo dello Stato. Rimanendo in un'unione monetaria con questi paesi, alla fine la Germania dovrà abbandonare la propria cultura ordoliberale. La lotta contro il "salvataggio dell'euro" o la politica monetaria della BCE assume quindi il carattere di una battaglia culturale nazionale. Si tratta di difendere la nazione tedesca in ciò che ha di più specifico dal 1945: l'economia sociale di mercato. Di conseguenza, al punto 10.2 del suo programma, AfD proclama che "l'ipoteca più grande per un'economia di mercato sociale che funzioni sta nell'attuale politica di salvataggio degli Stati dell'area dell'euro e nella manipolazione della politica monetaria della BCE."
Nazionalista perché liberale
È dunque in nome del liberalismo tedesco del dopoguerra che AfD ritiene urgente abbandonare la zona euro. Nel punto 2 del suo programma propone una "uscita negoziata" dalla zona euro, come il Fronte Nazionale in Francia, o un'uscita unilaterale tramite referendum. Ma il programma ribadisce chiaramente la necessità dell'uscita della Germania dall'unione monetaria. Questa riaffermazione non è solo una strategia elettorale, è l'affermazione che la politica europea di Angela Merkel sta portando la Germania alla perdita dei suoi valori fondamentali. Il discorso sull'euro è dunque dello stesso ordine di quello sull'Islam.
Questa volontà di apparire come l'autentico partito dell'economia sociale di mercato mette l'AfD in una posizione centrale sulla scacchiera politica tedesca. In primo luogo, è una sfida alla CDU, al CSU e al FDP, i tre partiti che hanno rivendicato questa stessa eredità. Con questo discorso, AfD ribadisce chiaramente diversi punti che sono apertamente difesi dall'ala conservatrice della CDU e dalla maggioranza del partito bavarese CSU. Quando quest'ultimo - sostenuto da diversi esponenti della CDU - difende l'idea della necessità di nominare un tedesco - perché tedesco - alla testa della BCE, difende una posizione vicina all'AfD.
Come l'AfD ha eluso la trappola dell'estrema destra tedesca
Difendendo l'identità tedesca del dopoguerra, AfD sta anche facendo piazza pulita di tutte le accuse di nostalgia nazista di cui possono essere accusati gli altri partiti di estrema destra dall'altra parte del Reno. Nell'AfD non c'è alcuna pretesa sui confini del 1937 né rivendicazioni nazionaliste. Questo è importante, perché gli altri partiti di questo movimento avevano fallito a causa del rifiuto legittimo e profondamente radicato del nazismo in Germania. Qui, questo rifiuto non è necessario: il cuore del discorso di AfD è un nazionalismo economico e liberale che, lungi dallo spaventare, è al contrario considerato da molti come un elemento chiave della Germania democratica. Ad Est questo discorso può solo aver successo, perché pretende di imporre i valori di una Germania occidentale che i vecchi cittadini del DDR hanno sognato e sui quali sono stati spesso delusi dopo la riunificazione.
Un partito che si radica
Alternative für Deutschland è dunque soprattutto un partito liberale. Il suo aspetto sovranista e nazionalistico deriva in gran parte da questo fatto. L'emergere della questione dei rifugiati ha certamente svolto un ruolo fondamentale nella recente crescita di consenso di questo partito, dato a quasi il 13% nei sondaggi nazionali (20% a est), ma non si può capire questa emergenza senza capire questo aspetto. Per molti elettori AfD non appare come un nemico della Germania democratica, a differenza di altri partiti nazionalisti, ed è per questo che è riuscito a imporsi, a differenza dei neo-nazisti di NDP, ad esempio, che non hanno beneficiato del problema della migrazione. AfD gioca sulla nostalgia del "miracolo economico" degli anni '50 e '60 e si considera il difensore dei valori fondanti della Germania del dopoguerra. Ecco perché è riuscito, nelle ultime elezioni regionali, a localizzarsi fortemente ad est, in Sassonia-Anhalt, come ad Ovest, a Baden-Württemberg, fatto unico per un partito nuovo. E questo è anche il motivo per cui potrebbe non essere quel fuoco di paglia che alcuni prevedono.
27/09/17
Flassbeck - È ora di alzare gli stipendi
Di Will Denayer, 25 settembre 2017
Inizialmente, non intendevo commentare le elezioni tedesche, dato che abbiamo fior di esperti (tedeschi) a disposizione. Ma lasciatemi dire la mia.
Chi è rimasto sorpreso dal risultato di queste elezioni doveva essere molto distratto. Il partito di estrema destra AfD aveva già conquistato seggi nel parlamento di 13 dei 16 stati federali tedeschi, con una percentuale di consensi del 24,3% nella regione della Sassonia, nell’Est della Germania, lo scorso anno. Era inevitabile che la destra estrema entrasse nel Bundestag (il parlamento Tedesco NdVdE). Il 13% degli elettori tedeschi che hanno votato ha scelto AfD. E guardando ai risultati disaggregati per regione, la situazione è ancora peggiore. L’AfD ha conquistato il 21,5% dei voti nella vecchia Germania Est (inclusa Berlino Est) (i numeri consolidati potrebbero un po’ variare, ma non di molto). L’AfD ha conquistato tanti voti nell’Est quanti ne ha conquistati la SPD a livello nazionale. Certo Die Linke (partito di sinistra NdVdE) ha ottenuto il 16,5% dei voti nell’ex Germania Est, ma molti meno nell’Ovest, e complessivamente ottiene un deludente 10%. È trimste, perché il partito meritava ben di più.
Figura 1: proiezioni di ZDF e paragoni con l’elezione del 2013 (Fonte: ZDF).
Figura 2: proiezioni della composizione del nuovo Bundestag (Fonte: Bloomberg).
Figura 3: proiezioni che evidenziano la differenza tra Ovest ed Est (Fonte: Bundestagwahl 2017).
La SPD non è l’unico grande perdente. Si tratta del peggiore risultato per i principali partiti dal 1949. Abbiamo un minimo storico per la CDU, un minimo storico per l’SPD, un massimo storico a partire dal dopoguerra per la destra estrema. Per capire le proporzioni del risultato, le due coalizioni principali, questa volta la CDU/CSU e la SPD complessivamente hanno ottenuto il 53% dei voti. Nel 1972, avevano ottenuto complessivamente il 91,2%
Quello che succederà ora è che, qualsiasi sarà la composizione del nuovo governo, esso dovrà confrontarsi con 88 (o 92, al momento ancora non è chiaro) parlamentari di estrema destra all’interno del Bundestag. L’estrema destra guadagna consensi ovunque – aspettate poi a vedere l’anno prossimo quando ci saranno le elezioni in Svezia: sarà anche peggio! – ma la Germania è differente. Non si tratta di un paese di dieci milioni di persone. In Germania, c’è una profonda etica del “Mai più fascismo”. AfD è un partito neo-nazista? Possiamo assumere che alcune parti di esso siano fasciste e neo-naziste, senza dubbio.
Si possono trovare diverse ragioni per spiegare questo risultato, ma non confondiamo l’analisi con la comprensione o l’empatia. Certo, le condizioni di vita di alcuni si sono deteriorate e ora sono veramente misere, in maniera inumana. Certo, il mainstream politico non ha ascoltato queste persone. Queste persone avevano le spalle al muro, non avevano rappresentanza politica (o perlomeno non avevano la sensazione di essere rappresentate). Il mainstream ha attuato politiche che hanno massicciamente aumentato la disuguaglianza di reddito e ricchezza in Germania. La Hartz IV non è un welfare sociale, è uno scandalo per un paese civilizzato, si tratta più di pulizia sociale punitiva che di inclusione e sostegno. Naturalmente, il mainstream è il responsabile della crescita della povertà in Germania. Questi sono i risultati della moderazione salariale tedesca, chiamata anche mercantilismo tedesco. Mentre alcuni hanno tratto da essa grandi profitti, la popolazione ne ha pagato il prezzo, per più di dieci anni. Nessuno ha pagato un prezzo più salato dei poveri, degli anziani e degli ammalati. È tutto vero. Ma c’è anche della responsabilità personale e ci sono altri modi per combattere tutta questa miseria oltre che votare per un partito che, se dovesse avere un’influenza sulla politica, renderebbe tutto PEGGIORE, mentre per il resto non ha niente altro da dire che delle spregevoli, marce sciocchezze su rifugiati, immigrati, musulmani e poveri, tra cui ovviamente i poveri tedeschi.
“Ovviamente non siamo riusciti a mantenere ed espandere la nostra base elettorale tradizionale, nonostante i molti risultati sociali ottenuti negli ultimi quattro anni” ha detto Martin Schulz.
A quali risultati si riferiva Schulz? Si riferiva forse all’aumento del salario minimo di 34 centesimi di quest’anno? Ecco qual è il problema nella sua essenza. Non cercare di risolvere i problemi, ma appiccicare ogni tanto un cerotto sulla ferita, mentre intanto lasci che l’infezione si diffonda. Non capisci che la gente si è stufata di te? Quando mai i socialdemocratici lo capiranno? C’è un solo partito socialdemocratico in tutta Europa che oggi guadagna rappresentanti e voti ed è il Labour del Regno Unito. Anche lì le cose non vanno affatto bene, ma il nodo è che il Labour sta convincendo la base elettorale appoggiandosi al manifesto più di sinistra che abbia mai avuto dal 1980. Tutti gli altri partiti socialdemocratici non stanno semplicemente perdendo, stanno venendo amaramente umiliati e completamente sconfitti. Quando lo capirete?
Quello che ora succederà non lo sa nessuno, ma la mia opinione è che non succederà niente di particolare. Ci saranno verosimilmente lunghe negoziazioni prima della formazione di un nuovo governo. Secondo Henrik Enderlein, professore della Hertie School of Governance, non ci sarà una nuova coalizione prima del 15 di ottobre – giorno delle elezioni regionali nella Bassa Sassonia. Ci sono solo due opzioni, o forse tre – esiste l’opzione teorica di un governo di minoranza tollerato dalla SPD all’opposizione, ma la Germania non ha mai sperimentato governi di minoranza, che comunque causano solo problemi. Le due vere opzioni sono una continuazione della Grande Coalizione – CDU/CSU e SPD – o una coalizione tra la CDU/CSU, il partito conservatore liberale FDP e i Verdi. Manuela Schwesig, il primo ministro della SPD dello stato Mecklenburg- Pomerania, ha detto a ZDF che i leader del partito sono uniti nella determinazione di andare all’opposizione. Altri politici dell’SPD non sono stati così espliciti.
Una cosa è certa: le negoziazioni per formare una coalizione non saranno semplici. I Verdi hanno promesso durante la campagna che non entreranno in nessun governo che non appoggi la proibizione dell’uso di autovetture a combustibile entro il 2030. La Merkel è in aperta opposizione a questa misura. Ma non c’è nulla di chiaro. I Verdi vogliono battere il populismo anti-europeo, combattere i cambiamenti climatici e lavorare per una società più giusta. Tutte belle parole. La Merkel è uno dei difensori più agguerriti degli Accordi di Parigi, quindi potrebbe esserci spazio per un compromesso.
I veri cambiamenti di politica saranno probabilmente minimi. Alcuni dicono che il mandato della Merkel quando inizierà i negoziati su una più profonda integrazione europea sarà indebolito. Potrebbe essere vero, come potrebbe essere vero il contrario. La reazione potrebbe essere: meglio andare avanti prima che l’”onda bruna” ottenga ancor più potere.
Per quanto riguarda AfD, Bershidsky di Bloomberg ha detto una cosa importante. Gli elementi di estrema destra non cadono dal cielo, né arrivano improvvisamente dalla crisi dei rifugiati, anche se la crisi ne è stata certamente un catalizzatore. Questi elementi di estrema destra esistevano ben prima di essa, ma erano interni alla CDU e alla CSU. Queste persone non sono molto cambiate. Negli ultimi due anni hanno a mala pena formato un’entità separata, che ora si oppone alla leadership della Merkel apertamente, anziché agire dietro le quinte.
Quindi dobbiamo arrivare a questo: crisi dei rifugiati, immigrati, musulmani. Cosa sta succedendo davvero? Una settimana fa circa, Flassbeck l’ha spiegato perfettamente nella sua ultima intervista con Real News Network (qui). La Merkel ha promosso la sua “cultura dell’accoglienza” ha detto Flassbeck, ma non ha fatto nient’altro. Avrebbe potuto – e avrebbe dovuto, perché sarebbe stato bene per tutto il Paese e per l’Europa in generale – alzare i salari e avrebbe potuto investire in alloggi e altri servizi per i rifugiati e gli immigrati. Questo avrebbe creato occupazione e quindi redditi e quindi domanda. Non che il Governo tedesco non avesse i soldi per fare una politica del genere. Ma la Merkel non ha fatto niente del genere.
Ora sentirete giorno e notte come la crisi dei rifugiati e l’immigrazione in generale abbiano contribuito all’ascesa di AfD. È vero: sono fattori che hanno contribuito. Gli immigrati saranno incolpati delle politiche del governo. Molti commentatori eviteranno la patata bollente, il vero colpevole, la cosa che non viene menzionata: i salari. Circa un quarto della forza lavoro tedesca riceve ora un “salario di basso livello”, ossia un salario inferiore ai due terzi della mediana. Si tratta di una percentuale maggiore rispetto a tutti gli altri Paesi europei, a eccezione della Lituania! Il numero di lavoratori precari in Germania è quasi triplicato negli ultimi dieci anni (ora sono 822.000).
Figura 4: Non l’immigrazione, ma la paura e il pregiudizio, I salari bassi e la precarietà hanno spinto AfD (Fonte: Financial Times).
È chiaro, come ha detto Flassbeck nell’intervista con il Real News Network, che l’aumentato tasso di occupazione è stato ottenuto a spese dei redditi reali di coloro che lavorano (vedere qui). I lavoratori tedeschi sono stati costretti ad accettare incrementi salariali molto bassi, mentre i capitalisti tedeschi hanno ottenuto grandi profitti. I salari reali sono ora inferiori al livello che avevano nel 1999, nonostante il PIL reale tedesco per abitante sia cresciuto di quasi il 30 per cento. Questa è la disfunzione, l’ingiustizia e la follia, in poche parole.
Se ci sarà la possibilità di una svolta fiscale non si può sapere. Molti si aspettano che la CDU si sposti ulteriormente a destra. Non è da escludere che la SPD si muova ancor più a destra. Attenti amici miei, la differenza tra voi e AfD è ora soltanto del 7%. Per il resto, e per quel che vale, i sondaggi di ZDF dicono che i populisti AfD avevano il sostegno del 16% degli uomini e solo del 9% delle donne. Nell’ex Germania Est, l’AfD è stato il partito più votato dagli uomini con il 27% contro il 24% della CDU.
L’affluenza è salita al 77% dal 71,5% di quattro anni fa. Secondo il sondaggio, l’AfD è riuscita a ottenere il voto di 1,2 milioni di cittadini che in precedenza non votavano. Mi chiedo quanti elettori disillusi della SPD ritornerebbero a votare, se solo ciò portasse loro qualcosa di buono.
26/09/17
Perché l'indipendenza dei curdi e dei catalani va bene, ma quella dei britannici no?
- Daniel Hannan, uno dei più noti promotori della Brexit, si chiede in un articolo caustico su ibtimes perché mai quegli stessi "progressisti" che oggi sono così favorevoli all'indipendenza dei curdi, dei catalani, degli scozzesi o dei tibetani, l'anno scorso fossero così ferocemente contrari all'indipendenza dei britannici. Ci possono essere ragioni emotive (i curdi sono visti come vittime, i britannici ovviamente no), e certamente c'è l'attaccamento alla UE. Ma se è progressista credere all'indipendenza dei popoli, dev'essere l'indipendenza di tutti i popoli, e di certo è antistorico e antiprogressista aggrapparsi a un conglomerato mostruosamente grande e disunito come la UE (cosa che già sostenne giustamente Alesina negli anni '90, come ci ha ricordato Goofynomics).
di Daniel Hannan, 25 settembre 2017
Gli scozzesi votano per rendersi indipendenti dal Regno Unito? È un esercizio di democrazia. I curdi votano per rendersi indipendenti dall'Iraq? È un esercizio di democrazia. I catalani votano per rendersi indipendenti dalla Spagna? È un esercizio di democrazia. I britannici votano per rendersi indipendenti dalla UE? Bigottismo, xenofobia, razzismo!
È strano, davvero. La tendenza globale è quella ad andare verso un numero sempre maggiore di piccole nazioni. Negli anni '50 c'erano 80 stati nel mondo. Oggi ce ne sono circa 200. Trenta di questi si sono formati dopo il 1990. Più recentemente è stata la volta del Montenegro, del Kosovo e del Sud Sudan. Nel loro insieme, questi sviluppi sono sia progressisti che liberali: implicano che le decisioni vengano prese sempre più vicino alle persone che ne sono riguardate, e implica anche che la fedeltà alla nazione sia più vicina ai vincoli elettorali, rendendo così più efficace la democrazia.
Eppure, per qualche ragione, le stesse persone che inneggiano all'indipendenza del popolo tibetano o di quello timorese sono quelle che reagiscono in modo del tutto opposto all'idea dell'indipendenza britannica. Sospetto che questo abbia qualcosa a che fare con la tendenza a classificare il mondo per gerarchie di privilegi, e a generare le proprie simpatie non sulla base criteri oggettivi, ma sulla base del sostegno a chi si percepisce essere il più debole. I catalani, ad esempio, e ancora di più i curdi, si presentano, in modo sicuramente plausibile, come vittime. Anche i separatisti scozzesi hanno cercato di presentarsi sotto questa luce – sebbene con minori giustificazioni storiche, e questa è una delle ragioni per le quali hanno perso.
Il Regno Unito, ad ogni modo, non riceverà mai molti voti di simpatia. Essendo stata la prima nazione industrializzata, tende ad avere un vantaggio tecnologico sui suoi rivali. Anche quando è stata manifestamente dalla parte della ragione, difficilmente poteva essere vista come debole o vittima. La sua dimensione geografica e la sua storia implicano che il suo euroscetticismo venga accolto con uno sdegno che non è mai toccato, per esempio, alla Norvegia o alla Svizzera. Quando i norvegesi o gli svizzeri hanno votato contro l'appartenenza alla UE la loro decisione è stata vista per quello che era: una democratica preferenza per l'autogoverno. Quando i britannici hanno votato allo stesso modo, però, una schiera di editorialisti diversamente intelligenti ha sciorinato ogni genere di cliché sull'impero britannico.
Nonostante ciò, la UE sta nuotando contro la corrente della Storia. La sua ossessione per le dimensioni è segno della sua età, sono i postumi di quella sua infanzia, negli anni '50. A quei tempi ciò che era grande era bello, sia nel business che nella politica, e le persone ragionevoli concordavano sul fatto che il futuro dovesse risiedere negli immensi conglomerati.
Ma le cose non sono andate in quel modo. Hong Kong ha finito col superare la Cina, Singapore ha sopravanzato l'Indonesia – la Svizzera, per quanto ci riguarda, ha superato la UE. I paesi con il più alto reddito pro capite del pianeta, secondo il factbook globale della CIA, sono il Liechtenstein, il Qatar e Monaco. A dire il vero il Qatar è l'unico paese nella top ten ad avere una popolazione che supera i 350.000 cittadini.
La UE non rinuncerà all'integrazione politica. Ha rifiutato di concedere a David Cameron di mantenere anche una sola competenza, e in questo modo si è assicurata di perdere il referendum sulla Brexit. In un mondo in cui i poteri diventano sempre più decentralizzati e diffusi, Bruxelles resta dogmaticamente attaccata a quel federalismo che Jean-Claude Juncker la scorsa settimana non ha mancato di predicare.
Questa differenza di visione spiega perché è nell'interesse di tutti che la Gran Bretagna sostituisca la sua condizione attuale [nei confronti della UE, NdT] con un accordo più libero e amichevole. Dopo la Brexit, secondo lo stesso principio, dovremo essere noi stessi a concedere quel potere che abbiamo ripreso da Bruxelles verso il basso e verso l'esterno, cioè verso le autorità locali o, meglio ancora, verso i singoli cittadini. Questa, però, è un'altra storia.
24/09/17
L’entrata in vigore del CETA è uno scandalo per la democrazia
Di Jacques Sapir, 22 settembre 2017
Il CETA, trattato di libero scambio con il Canada, è infine entrato in vigore giovedì 21 settembre, ad eclatante dimostrazione di come gli Stati abbiano rinunciato alla loro sovranità, lasciando spazio ad un nuovo diritto, indipendente dal diritto degli stessi Stati e non soggetto ad alcun controllo democratico.
Il CETA sarebbe, sulla carta, un “trattato di libero scambio”. In realtà però prende di mira le normative non-tariffarie che alcuni Stati potrebbero adottare, in particolare in materia di protezione ambientale. A questo riguardo, c’è da temere che il CETA possa dare l’avvio a una corsa a smantellare le norme di protezione. A ciò si aggiungono i pericoli che scaturiscono dal meccanismo di protezione degli investimenti contenuto nel trattato. Il CETA crea infatti un sistema di protezione per gli investitori tra l’Unione Europea e il Canada che, grazie all’istituzione di un tribunale arbitrale, permetterà loro di citare in giudizio uno Stato (o a una decisione dell’Unione Europea) nel caso in cui un provvedimento pubblico adottato da tale Stato possa compromettere “le legittime aspettative di guadagno dall’investimento”. In altre parole, la cosiddetta clausola ISDS (o RDIE) è in pratica un meccanismo di protezione dei guadagni futuri. E si tratta di un meccanismo unilaterale: nel quadro di questa disciplina, nessuno Stato può, da parte sua, citare in giudizio un’impresa privata. È chiaro quindi che il CETA metterà gli investitori in condizione di opporsi ai provvedimenti politici ritenuti contrari ai loro interessi. Questa procedura, che rischia di essere molto dispendiosa per gli Stati, avrà certamente effetti dissuasivi già con una semplice minaccia di processo. Al riguardo, non dimentichiamo che, a seguito della dichiarazione della Dow Chemical di voler portare la causa in tribunale, il Québec fu costretto a fare marcia indietro sul divieto di una sostanza, sospettata di essere cancerogena, contenuta in un diserbante commercializzato da questa impresa.
Vi sono inoltre dubbi in merito alla reciprocità: si fa presto a dire che il trattato apre i mercati canadesi alle imprese europee, tanto più che il mercato dell’Unione Europea è già adesso aperto alle imprese canadesi. Ma basta solo guardare alla sproporzione tra le popolazioni per capire chi ci guadagnerà. Al di là di questo, c’è il problema più ampio del libero scambio, in particolare dell’interpretazione del libero scambio che si evince dal trattato. Al centro si trovano gli interessi delle multinazionali, che di certo non coincidono con quelli dei consumatori né dei lavoratori.
I rischi rappresentati dal CETA riguardano quindi la salute pubblica e, senz’ombra di dubbio, la sovranità. Ma ancora più grave è anche la minaccia posta dal trattato alla democrazia. Al momento della sua votazione finale nel Parlamento Europeo, tra i rappresentanti francesi sono stati quattro i gruppi a votare contro: il Fronte di Sinistra, gli ambientalisti dell’EELV, il Partito Socialista e il Front National. Un’alleanza forse meno anomala di quanto sembri, se si prendono in considerazione i problemi sollevati dal trattato. È indicativo il fatto che sia stato rigettato dalle delegazioni di tre dei cinque paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e dalle seconda e terza maggiori economie dell’Eurozona. Ciononostante è stato ratificato dal Parlamento Europeo il 15 febbraio 2017, e deve adesso passare la ratifica dei singoli parlamenti nazionali. Nondimeno, è già considerato parzialmente in vigore prima della ratifica da parte degli organi rappresentativi nazionali. Il CETA è quindi entrato in vigore provvisoriamente e parzialmente il 21 settembre 2017 per gli aspetti riguardanti le competenze esclusive dell’UE, ad esclusione, per il momento, di certi aspetti di competenza concorrente che necessitano di votazione da parte dei paesi membri dell’UE, in particolare le parti riguardanti i tribunali arbitrali e la proprietà intellettuale. Ma anche così, circa il 90% delle disposizioni dell’accordo vengono già applicate. Ciò rappresenta un grave problema politico di democrazia. Come se non bastasse, anche nel caso in cui un paese dovesse rigettare la ratifica del CETA, quest’ultimo resterebbe comunque in vigore per tre anni. È evidente che è stato fatto di tutto perché il trattato fosse formulato ed applicato al di fuori del controllo della volontà popolare.
In effetti questo non è affatto ciò che normalmente si definirebbe un trattato di “libero scambio”. Si tratta di un trattato il cui scopo è essenzialmente imporre norme decise dalle multinazionali ai singoli parlamenti degli Stati membri dell’Unione Europea. Se ciò che si voleva dare era una dimostrazione della natura profondamente anti-democratica dall’UE, non si poteva certamente fare di meglio.
Ciò pone un problema sia democratico che di legittimità di chi si è fatto fautore del trattato. In Francia uno solo dei candidati alle elezioni presidenziali, Emmanuel Macron, si era dichiarato apertamente a favore del CETA. Anche uno dei suoi principali sostenitori, Jean-Marie Cavada, aveva votato al Parlamento europeo per l’adozione del trattato. Si profila quindi nelle elezioni presidenziali, e non per la prima volta nella nostra storia, il famigerato “partito dall’esterno” che a suo tempo (per l’esattezza il 6 dicembre 1978) era stato denunciato da Jacques Chirac dall’ospedale di Cochin…[1]
Prima della sua nomina a ministro del governo di Edouard Philippe, Nicolas Hulot aveva preso nettamente posizione contro il CETA. La sua permanenza al governo, a queste condizioni, ha il valore di un voltafaccia. Come ministro della Transizione Ambientale (sic), non ha sicuramente finto un certo rammarico lo scorso venerdì mattina su Europe 1. Ha riconosciuto che la commissione di valutazione nominata da Edouard Philippe lo sorso luglio aveva identificato diversi potenziali pericoli contenuti nel trattato. Ma ha anche aggiunto: “...i negoziati erano ormai arrivati a un punto tale che, a meno di non rischiare un incidente diplomatico con il Canada, che certamente vorremmo evitare a tutti i costi, sarebbe stato difficile bloccarne la ratifica”. Questa è una perfetta descrizione dei meccanismi di irreversibilità deliberatamente incorporati nel trattato. Non dimentichiamo inoltre che, prima di essere nominato ministro della Transizione Ambientale, l’ex-presentatore televisivo aveva più volte dichiarato che il CETA non era “compatibile con il clima”. Si può qui immaginare quanto fosse grande la spada che ha dovuto ingoiare: praticamente una sciabola.
Da parte sua, fin dalla sua elezione Emmanuel Macron si è presentato come difensore allo stesso tempo dell’ecologia e del pianeta riprendendo, capovolgendolo, lo slogan di Donald Trump “Make the Planet Great Again”. Ha spesso ribadito questo concetto, sia alle Nazioni Unite che in occasione del suo viaggio alle Antille dopo l’uragano “Irma”. Ma non si può ignorare che il suo impegno a favore del CETA e la sua sottomissione alle regole dell’Unione Europea, che ha comunque registrato un terribile ritardo sulla questione degli interferenti endocrini, dimostrino come non sia decisamente l’ecologia a motivarlo, e che al massimo questa non sia che un pretesto per una comunicazione di pessimo gusto e di bassa lega.
È dunque necessario avere ben chiare le conseguenze dell’applicazione del CETA, oltre alla minaccia che esso rappresenta per la sovranità nazionale, la democrazia e la sicurezza del paese.
[1] Haegel F., « Mémoire, héritage, filiation : Dire le gaullisme et se dire gaulliste au RPR », Revue française de science politique, vol. 40, no 6, 1990, p. 875
21/09/17
Sapir - Sulla scissione al Front National e la costruzione di un Fronte di Liberazione Nazionale
Di Jacques Sapir, 21 settembre 2017
Le dimissioni di Florian Philippot e di altri del Front National non sono un episodio secondario. È una vera e propria spaccatura, un punto di svolta importante nella politica francese.
Florian Philippot, come era noto a tutti, aveva cercato di portare un'altra linea politica nel Front National. E in una certa misura ci era riuscito, portando ad un cambiamento significativo che aveva permesso al partito di passare dal 12-15% dei voti che il partito aveva precedentemente, fino ai risultati registrati nelle ultime elezioni (il 33,9% del secondo turno delle elezioni presidenziali, pari a 10,638 milioni di voti). Si tratta di percentuali di portata storica. Oltre a ciò, di fronte alla crescente tirannia dell'Unione europea e dei suoi referenti in Francia, ciò aveva reso possibile pensare di realizzare un fronte comune con le correnti sovraniste della sinistra.
1. Questo fronte comune o "fronte di liberazione nazionale", perché è di questo che si tratta, comportava o che il Front National portasse avanti la sua trasformazione per diventare un vero partito populista, oppure che sarebbe nato un nuovo partito liberato dalle scorie razziste e di estrema destra. All'epoca l'avevo espresso chiaramente [1]:
"A lungo termine si porrà la questione dei rapporti con il Front National, o con il partito che ne deriva. Bisogna capire con chiarezza che non è più il tempo del settarismo e dei divieti incrociati degli uni e degli altri. (...) Dobbiamo invece essere consapevoli che la costituzione di un Fronte di Liberazione Nazionale pone dei problemi formidabili. Dovrà comprendere un vero programma di "salute pubblica" che i governi di questo "Fronte" dovranno implementare, non solo per smantellare l'Euro, ma anche per organizzare l'economia del "giorno dopo". Questo programma comporta uno sforzo particolare nell'ambito degli investimenti, ma anche una nuova regola per la gestione della moneta, nonché nuove regole per l'intervento statale nell'economia. (...) L'idea di un Fronte di Liberazione Nazionale è dunque certamente un'idea molto potente, sia in Francia che in Italia. Ma implica che, almeno a sinistra, ci si riappropri della logica dei "fronti" e si comprenda che in questo tipo di "fronte" possono esserci ampie divergenze, ma che sono – temporaneamente – messe in secondo piano a vantaggio di un obiettivo comune. Il vero problema è l'autonomia di espressione e di esistenza delle forze politiche di sinistra all'interno di questi fronti. Sarà quindi necessario garantire che le forme istituzionali che questi fronti si daranno non siano contraddittorie con l'autonomia politica."
Queste parole conservano oggi tutta la loro rilevanza e tutto il loro significato. Al di là della Grecia, possiamo vedere come l'euro e l'Unione europea stiano portando a limitare ogni giorno di più la democrazia e la sovranità del nostro paese, e che c'è un un legame logico tra la crisi delle istituzioni democratiche e la negazione della sovranità. La logica (e non la semplice riedizione) del CLN è chiaramente necessaria per affrontare i problemi che il nostro Paese si trova davanti. Il problema era, e rimane ancora, che alcuni non riescono a concepire questa logica del "fronte", o forse semplicemente non la comprendono [2].
2. Le dimissioni di Florian Philippot sono perciò l'inizio di una vera e propria scissione, che si verifichi immediatamente o che si realizzi nel tempo, con un'emorragia di aderenti e l'uscita dei migliori militanti. Essa misura l'incapacità della leadership del Front National di essere all'altezza delle sfide della storia e l'incapacità più particolare di Marine le Pen, rivelata nella campagna presidenziale e in particolare durante il dibattito del mercoledì precedente al secondo turno. Ne ho già parlato ampiamente nell'intervista al CIRCLE des PATRIOTES DISPARUS [3].
Al di là del comportamento personale della candidata, questo episodio ha mostrato una incoerenza di fondo della sua campagna. Il fatto che non sia riuscita a correggere rapidamente questa incoerenza è stato altrettanto significativo. Ancora una volta, riporto le parole che ho usato:
"È quindi in una posizione indebolita che Marine le Pen è arrivata al dibattito di mercoledì, prima del secondo turno. Ha commesso due errori: quello di sottovalutare il suo avversario, perché qualunque cosa si possa pensare della politica di Emmanuel Macron, non è certo il primo venuto, e quello di pensare di poter giocare la carta del populismo demagogico, un po' come Donald Trump. Ma la cultura politica francese è molto diversa dalla cultura politica degli Stati Uniti, almeno su questo punto. Il risultato è stato quello che abbiamo visto: un'agitazione sterile, e a volte patetica, che ha mancato di cogliere le questioni reali che avrebbero potuto mettere Emmanuel Macron in difficoltà. La perdita di credibilità che, voglio ricordare, si era già cominciata a manifestare la domenica precedente il dibattito, è diventata catastrofica. E ha portato a "ri-demonizzare" Marine Le Pen, ridando quindi credibilità alle "barricate" [4].
Vediamo bene cosa c'era in gioco. Incapace di superare questo fallimento, il Front National e la sua presidente si sono impantanati in atteggiamenti suicidi. Limitando il loro discorso al solo problema dell'immigrazione, hanno completamente perso di vista il fatto centrale: il fallimento dei meccanismi di integrazione, un fallimento che può giustificare una certa posizione immediata sull'immigrazione, ma al quale non si dà seguito.
3. Che ne sarà del Front National? Può solo sperare lo stesso destino del Partito Comunista Francese dopo il fallimento storico della candidatura di George Marchais nel 1981. Si trasformerà in un "partito zombie", un morto vivente della politica. Questa è stata la traiettoria del PCF dal 1981 in poi, una traiettoria che l'ha portato, dopo che aveva ottenuto più del 20% dei voti alla fine del gollismo, a scendere al di sotto del 5%.
Tuttavia, questa traiettoria dovrebbe essere più veloce. Anche se il FN non dovrà subire uno shock come quello della dissoluzione dell'URSS, nella misura in cui si ripiegherà su se stesso verranno fuori le sue caratteristiche più ripugnanti. Perderà la sua base elettorale nazionale, ma conserverà per qualche anno un radicamento locale, specialmente in Provenza e nella Costa Azzurra. Certamente per alcune delle persone più vicine a Marine Le Pen c'è una garanzia di carriera. Potranno sempre contare, nelle loro roccaforti, su accordi non di principio con i repubblicani. Si imporrà una pura logica di vantaggi personali, ben diversa da quella dei loro discorsi in cui affermano di voler "servire la Nazione". Faranno come i membri del RPF degli anni 48-52 che, secondo l'espressione stessa del generale de Gaulle, si erano "seduti a tavola". Gli elettori che si erano rivolti al FN, da parte loro, capiranno che ormai è inutile e si allontaneranno. Se ne allontaneranno tanto più rapidamente se le altre forze sovraniste saranno in grado di aprirsi alle questioni sollevate da questi elettori e cesseranno, soprattutto alcuni, di chiudere gli occhi sui reali problemi dell'islamismo.
4. Quanto al destino personale di Florian Philippot e delle persone che lo seguono, è ancora troppo presto per pronunciarsi. Se una spaccatura è sempre un fenomeno significativo, non compromette necessariamente la carriera politica delle persone coinvolte. L'unica cosa che si può dire è che è di fondamentale importanza non tradire i propri principi e avere una posizione coerente. Vedremo, nelle prossime settimane, se la posizione gollista di Philippot era solo un atteggiamento, o l'espressione di un profondo impegno. Potrà sviluppare il suo discorso in un modo che non sarà più vincolato dal quadro del FN.
Questo punto di svolta è una prova che il processo di decostruzione-ricostruzione della vita politica in Francia sta ancora avvenendo, un processo che in parte spiega l'elezione di Emmanuel Macron.
[1] Sapir J., « Réflexion sur la Grèce et l’Europe », pubblicato il 21 agosto 2015 su Russeurope, https://russeurope.hypotheses.org/4225
[2] Cfr. Sapir J., "Sur la logique des fronts", pubblicato il 23 agosto 2015 su Russeurope, https://russeurope.hypotheses.org/4232
[3] Vedi Sapir J., "Le souverainisme inaudible? ", pubblicato il 16 settembre 2017 su Russeurope, https://russeurope.hypotheses.org/6287
[4] https://russeurope.hypotheses.org/6287
La vera ragione per cui i salari ristagnano: la nostra economia è ottimizzata per la finanziarizzazione
Di Charles Hugh Smith, 8 settembre 2017
Il rapporto tra il monte salari e il PIL è in caduta libera, come diretta conseguenza dell’ottimizzazione della finanziarizzazione.
Il tallone d’Achille del nostro sistema socio-economico è la stagnazione secolare dei redditi da lavoro, vale a dire di stipendi e salari. Salari stagnanti rovinano tutti i settori della nostra economia: il consumo, il credito, le tasse e, forse ancor più importante, il tacito contratto sociale secondo cui i benefici degli aumenti di produttività e dell’aumentare della ricchezza dovrebbero essere distribuiti largamente, se non proprio equamente.
Questo grafico mostra che il declino della quota salari del PIL non è un problema recente, ma un trend che dura da 45 anni: nonostante qualche sparuto recupero, i lavoratori (ossia coloro che guadagnano attraverso un lavoro/impiego) hanno visto la loro fetta di PIL decrescere, a prescindere dalla situazione economica o politica.
Stipendi e salari come percentuale del PIL
La quota legata a stipendi e salari in percentuale sul PIL è declinata indipendentemente dalle condizioni macro, la domanda di lavoro è cresciuta solo durante il boom delle dot.com.
Data la gravità delle conseguenze di questa tendenza, gli economisti mainstream hanno sudato in ogni modo per spiegarla, nel tentativo di riuscire a invertirla. Le spiegazioni includono a volte l’automatizzazione, la globalizzazione/delocalizzazione, il prezzo alto degli immobili, il declino della competizione tra multinazionali (vale a dire il dominio di cartelli e di semi-monopoli), il sistema di istruzione inadeguato ai tempi, i bassi aumenti di produttività e via dicendo.
Ognuna di queste dinamiche potrebbe avere accentuato questa tendenza, ma nessuna rivaleggia con la forza dominante che ha fatto ristagnare i salari e aumentare l’iniquità di reddito e ricchezza: la nostra economia è ottimizzata per la finanziarizzazione, non per i lavoratori.
Ma che cosa significa che la nostra economia è ottimizzata per la finanziarizzazione? Significa che il capitale e i profitti finiscono nelle tasche di pochi grazie ai meccanismi creati dall’accesso asimmetrico alle informazioni, ai vantaggi e al credito a buon mercato – i motori della finanziarizzazione.
L’ottimizzazione consiste in una complessa sovrapposizione di sistemi collegati dinamicamente tra di loro: la banca centrale ottimizza il flusso di credito a buon mercato verso il settore bancario/finanziario, lo Stato centrale approva tacitamente il consolidamento di cartelli e semi-monopoli, e concede sconti fiscali mostruosi alle multinazionali, proprio mentre porta a livelli intollerabili le tasse e le imposte sui lavoratori e sui piccoli imprenditori.
La finanziarizzazione convoglia i benefici dell’economia verso coloro che hanno accesso agli opachi processi finanziari e ai flussi di informazioni, al credito a basso costo delle banche centrali e alle leve delle banche private. Insieme, questi elementi permettono ai finanzieri e alle multinazionali di ottenere a prestito il capitale necessario per acquisire e consolidare gli asset produttivi dell’economia, e di “commoditizzarli”, ossia trasformarli in strumenti finanziari che possono essere venduti e comprati sul mercato globale.
Questi asset “commoditizzati” includono i mutui, i prestiti agli studenti, e forze di lavoro specializzate che vengono “vendute” con i loro datori di lavoro oppure trasformate in oggetto di speculazione nel mercato globale. Una volta che un asset ha fatto questa fine, il flusso dei profitti va nella direzione di chi processa le transazioni, impacchetta e commercia questi asset globalmente.
Prendiamo per esempio i finanziamenti per comprare un'auto: i veri soldi non si fanno nell’incamerare gli interessi dei prestiti; il grosso guadagno si realizza lavorando e assemblando i prestiti in tranche che possono essere poi rivendute agli investitori sul mercato globale.
Per capire la finanziarizzazione possiamo chiederci: nella nostra economia, qual è la maniera più veloce, più semplice per guadagnare 10 milioni di dollari? È mettere in piedi un business basato sul lavoro di dipendenti per dieci o vent’anni?
Non prendiamoci in giro. La maniera più semplice per guadagnare 10 milioni di dollari è fare parte del team di una banca di investimenti che supervisiona un’acquisizione o una fusione aziendale da 10 miliardi di dollari, oppure investire denaro in una società di tecnologia che successivamente si quota in borsa.
E cosa ne dite della maniera migliore per guadagnare in fretta 100 milioni di dollari? La risposta è la stessa: sfruttare la vena aurifera di ricchezza finanziaria basata su asset “commoditizzati”, leva e credito.
La quota salari del PIL è in caduta libera come diretta conseguenza dell’ottimizzazione della finanziarizzazione. I soldi scorrono verso coloro che hanno capitale, credito ed esperienza nell’ottimizzare gli schemi finanziari. E quanto al vendere il proprio lavoro in un’economia ottimizzata per il capitale e le asimmetrie della finanza: non c’è spazio per il lavoro in un’economia come questa, salvo per le abilità tecniche/manageriali richieste dalla finanza per sfruttare i mercati.
Ecco quale è la spinta che porta all’aumento dell’iniquità nella distribuzione della ricchezza, come emerge dal grafico qui in basso.
Storia di due paesi
Quota di reddito lordo distribuita al 50% delle persone che guadagnano di meno (azzurro) e all'1% di quelle che guadagnano di più (rosso) negli Stati Uniti, 1962-2014.
19/09/17
The Economist - Eurozona, il quadro reale
17 febbraio 2005
L'eurozona avrà anche una moneta unica, ma continua ad avere diversi tassi di cambio reale
I tassi di cambio tra i 12 membri dell'area dell'euro sono stati stabiliti definitivamente? Chi lo pensa, si sbaglia. Anche se i tassi di cambio nominali sono stati scolpiti nella pietra, il tasso di cambio reale - vale a dire, calcolato tenendo conto delle differenze nell'andamento dell'inflazione nei diversi Paesi - si è disallineato in modo significativo. Dal 1999, quando è stata lanciata la moneta unica, il tasso di cambio reale dell'Italia si è apprezzato di oltre il 20% rispetto alla Germania.
Il tasso di cambio reale misura la competitività internazionale: in termini di impatto economico è quindi più importante del tasso nominale. Facciamo un esempio: se il dollaro si svaluta del 10% rispetto all'euro, ma al tempo stesso i prezzi in America aumentano del 5% rispetto a quelli europei, il prezzo dei prodotti americani in confronto a quelli europei, misurato in una valuta comune - ovvero il tasso di cambio reale del dollaro - diminuisce solo del 5%. Allo stesso modo, nell'ambito dell'eurozona, se i prezzi in Italia, ad esempio, crescono più rapidamente di quelli degli altri Stati membri, il tasso di cambio reale dell'Italia nei confronti degli altri Paesi aumenterà, anche se il tasso di cambio nominale è fisso.
La Commissione europea calcola su base trimestrale i tassi di cambio reali effettivi (cioè ponderati per il volume degli scambi) per le economie dell'area euro nei confronti degli altri Paesi membri, nonché in confronto a un paniere di valute estere come il dollaro, lo yen e la sterlina. Questo richiede per ogni paese un indice di inflazione rispetto a quello estero. La difficoltà sta nello stabilire esattamente quale deflatore dei prezzi o dei costi utilizzare. La Commissione europea pubblica non meno di cinque diversi indici, basati sui prezzi al consumo, sul deflatore del PIL, sui prezzi delle esportazioni, sui costi salariali per unità di produzione nel settore industriale e sul costo unitario del lavoro nell'economia in generale. Ognuna di queste misure ha i suoi vantaggi e svantaggi. Per esempio, un tasso di cambio reale calcolato sui prezzi relativi delle esportazioni potrebbe sembrare il modo più diretto per misurare la competitività internazionale. Ma potrebbe anche raccontare solo metà della storia, se le imprese all'inizio assorbono un aumento dei costi riducendo i margini di profitto; alla fine, infatti, i prezzi delle esportazioni aumenteranno. Un tasso di cambio reale basato sui prezzi al consumo offre i dati più tempestivi, dato che i prezzi sono disponibili mensilmente, ma può essere distorto dall'inclusione di imposte indirette nonché di beni e servizi che non sono oggetto di commercio internazionale. La maggior parte degli economisti ritiene che la misura migliore della competitività internazionale sottostante sia il costo relativo unitario del lavoro.
Quando è nata la moneta unica, il costo unitario del lavoro in Germania era il più alto dell'area euro; ma dal 1999 è diminuito del 10% rispetto alla media. Per dirla in un altro modo, il tasso di cambio reale della Germania all'interno dell'eurozona è diminuito del 10%. Al contrario, il costo unitario del lavoro è aumentato del 9% in Italia, Spagna e Paesi Bassi, comportando una enorme perdita di competitività rispetto alla Germania (si veda il grafico in basso, a sinistra).
Gli economisti di ABN Amro stimano che il costo del lavoro in Germania attualmente sia inferiore a quello dell'Italia. Anche Irlanda e Portogallo hanno perso competitività.
Il costo del lavoro in Germania è aumentato nei primi anni '90, quando il boom legato alla riunificazione diede un forte impulso ai salari, le imposte sul lavoro crebbero e il marco si apprezzò rispetto alle altre valute europee. Ma in tempi più recenti le imprese tedesche hanno combattuto per riconquistare competitività, riducendo i salari e aumentando la produttività. Negli ultimi cinque anni la Germania ha potuto vantare una crescita più rapida della produttività del lavoro rispetto alla media dell'area euro, combinata con la crescita dei salari più lenta dell'eurozona. Sotto la minaccia della delocalizzazione delle fabbriche nell'Europa centrale e orientale, i lavoratori di diverse grandi aziende sono stati costretti ad accettare orari di lavoro più lunghi senza guadagni extra o a subire tagli in busta paga. Le riforme del governo inoltre contribuiranno a ridurre le rigidità del mercato del lavoro, facilitando i licenziamenti e costringendo i lavoratori disoccupati a cercare un posto.
Sul lungo periodo questo aiuterà le imprese a diventare più competitive e redditizie e quindi a creare più posti di lavoro. Tuttavia, nel breve periodo la disoccupazione è aumentata, e redditi e spese dei consumatori sono stati compressi. Il PIL della Germania è diminuito dello 0,2% nel quarto trimestre, poiché la crescita delle esportazioni è stata più che compensata da un calo della domanda interna.
La dozzina divergente
C'è stata anche una grande variabilità nell'andamento dei tassi di cambio effettivi delle singole economie dell'area euro rispetto al resto del mondo. Questo riflette le differenze non solo nell'inflazione dei costi di produzione, ma anche nella distribuzione geografica degli scambi commerciali. Se, ad esempio, una quota più grande delle esportazioni di un Paese va in America, il dollaro avrà un peso maggiore nel paniere delle valute di quel Paese.
Dall'inizio del 2002, quando il dollaro ha incominciato a scendere, il tasso di cambio ponderato per il volume degli scambi commerciali dell'euro è cresciuto del 18% (basato sul costo unitario relativo del lavoro), leggermente meno dell'aumento del 21% del suo valore nominale ponderato per il volume degli scambi e molto meno rispetto al salto del 50% dell'euro rispetto al dollaro. Nonostante questo, il tasso di cambio effettivo reale della Germania è aumentato solo del 4% a partire dall'inizio del 2002, l'aumento più basso tra tutti i Paesi dell'area euro. Il tasso di cambio reale della Francia è salito del 9% e quello dell'Italia e dell'Irlanda del 17%.
Si noti che i tassi di cambio reali dei singoli Paesi dell'eurozona sono aumentati meno rispetto all'incremento del 18% dell'euro stesso. Questo potrebbe sembrare strano. La spiegazione è che i volumi commerciali utilizzati per calcolare l'indice complessivo dell'euro rispetto ad altre valute escludono gli scambi all'interno dell'area dell'euro, che rappresentano circa la metà degli scambi commerciali della maggior parte degli Stati membri. Nel calcolare i tassi di cambio effettivi nazionali, questo scambio deve giustamente essere incluso, il che dà un peso molto più piccolo al dollaro in calo.
Molti economisti si preoccupano che un dollaro basso schiacci l'economia europea. Ma il modesto aumento del tasso di cambio reale ponderato sui volumi di scambio in Germania spiega perché, nonostante l'aumento dell'euro contro il dollaro, le esportazioni tedesche si siano mantenute così forti (vedi grafico in alto, a destra). La Germania è infatti l'unica economia del G7 ad avere aumentato la propria quota di esportazioni mondiali negli ultimi cinque anni. L'idea diffusa che i costi salariali elevati rendano la Germania non competitiva non sembra più essere vera. Purtroppo, potrebbe volerci un po' di tempo prima che i guadagni passino ai redditi e alla spesa delle famiglie e spingano l'economia tedesca a crescere di nuovo.
18/09/17
FT - In Gran Bretagna disoccupazione ai minimi da 42 anni
di Chris Giles e Gavin Jackson, 13 settembre 2017
La disoccupazione in Gran Bretagna ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 42 anni, intensificando così il dilemma che la Banca d'Inghilterra si troverà ad affrontare nel suo meeting di giovedì [intende giovedì 14 settembre, NdT], dove dovrà valutare se alzare i tassi di interesse nonostante la stagnazione dei salari e l'incertezza legata alla Brexit.
Nel trimestre terminato a luglio il tasso di disoccupazione è sceso al 4,3 percento, due decimi di punto percentuale sotto il livello stimato dalla banca centrale come sostenibile nel lungo termine.
Insieme al dato sull'inflazione, che ad agosto è salita al 2,9 percento, questo suggerisce che ci possa essere bisogno di tassi di interesse più alti per raffreddare l'economia e interrompere l'aumento dell'inflazione.
Ma il dilemma della Banca d'Inghilterra è che la bassa disoccupazione non ha ancora costretto gli imprenditori ad aumentare i salari, e l'aumento dei prezzi è probabilmente destinato a fermarsi da solo dopo che le aziende avranno adattato i prezzi in conseguenza della svalutazione della sterlina avvenuta dopo il referendum, svalutazione che ha aumentato i costi di importazione.
I salari medi, sia includendo che escludendo i bonus, non sono aumentati più del pigro tasso annuale del 2,1 percento, confondendo le aspettative e suggerendo che la disoccupazione potrebbe scendere ulteriormente prima che ci siano pressioni al rialzo sui salari.
La sfida alla quale la Banca d'Inghilterra si trova di fronte è il principale dilemma post-crisi delle maggiori banche centrali del pianeta, visto che anche la Federal Reserve americana e la Banca Centrale Europea hanno assistito a diminuzioni della disoccupazione senza che questo innescasse una crescita dei salari o dell'inflazione.
"La teoria economica fondamentale e il buon senso suggeriscono che l'offerta di paghe maggiori sia stimolata dalla scarsità di offerta di lavoro", ha detto Philip Shaw, economista a Investec. "Ma una crescita salariale modesta è una caratteristica esclusiva dell'economia britannica? ... [in realtà] le autorità monetarie di USA, eurozona e Giappone si trovano alle prese con sviluppi simili".
I mercati finanziari e gli economisti si aspettano che la Commissione per la Politica Monetaria della Banca d'Inghilterra voti 7 contro 2 per impedire un aumento immediato dei tassi d'interesse, ma si aspettano anche, sempre di più, che la commissione mandi un chiaro messaggio che suggerisca di abbandonare la politica finora perseguita.
I prezzi degli indici del mercato dei cambi, che seguono i tassi di interesse ufficiali, suggeriscono che a febbraio dell'anno prossimo la Banca d'Inghilterra aumenterà il tasso di interesse allo 0,50 percento rispetto all'attuale minimo di 0,25 percento. Già alla fine della scorsa settimana gli speculatori scommettevano su un ritardo fino a novembre 2018.
Gli economisti sono sempre più in disaccordo col sentimento dei mercati, sostenendo che la probabilità di un aumento immediato dei tassi è molto bassa.
Alan Clarke, di Scotiabank, ha detto che i recenti dati contengono spunti per sostenere entrambe le tesi: "Alla fine i falchi punteranno sul fatto che il tasso di disoccupazione è inferiore alle aspettative, mentre le colombe insisteranno sulla mancanza di crescita dei salari".
Molti economisti si sono innervositi di fronte a queste previsioni, perché la Banca d'Inghilterra ha avvertito per mesi che non si possono mantenere tassi d'interesse ai minimi storici se contemporaneamente c'è la disoccupazione ai minimi e alta inflazione.
La Federal Reserve in simili condizioni ha iniziato ad aumentare i tassi d'interesse e ci si aspetta che entro la fine del mese termini il massiccio programma di stimolo tramite acquisto di titoli.
L'aumento dei tassi da parte della Federal Reserve è avvenuto nonostante il mercato del lavoro americano non fosse ancora forte come quello britannico, che ha stabilito un minimo record nel trimestre finito a luglio.
La crescita dei salari, però, non ha rispecchiato questo andamento. L'Ufficio Nazionale per le Statistiche (ONS) ha stimato che i salari reali fossero scesi dello 0,4 percento nel trimestre finito a luglio rispetto a un anno prima, dato che i prezzi al consumo sono cresciuti più dei salari.
L'economia britannica ha oggi 2,5 milioni di posti di lavoro in più rispetto al picco pre-crisi del 2008, ma i salari restano inferiori di 15 sterline a settimana, ovvero del 3,2 percento dopo aver corretto per l'inflazione, rispetto a prima della crisi.
I dati appena usciti sui salari seguono gli annunci fatti martedì dal governo britannico, sul fatto che avrebbe allentato il blocco dell'1 percento sulla crescita dei salari per i lavoratori nel settore pubblico.
Gli ufficiali di polizia penitenziaria riceveranno un aumento della paga dell'1,7 percento, e la polizia otterrà un bonus dell'1 percento. I sindacati del settore pubblico hanno obiettato che questa offerta non è sufficiente.
Rapporto ONU: la coalizione saudita è responsabile di uccisioni di massa di bambini in Yemen
Di Tyler Durden, 18 agosto 2017
Un rapporto trapelato dagli uffici delle Nazioni Unite rivela che l'Arabia Saudita ha massacrato migliaia di bambini in Yemen dall'inizio della sua campagna aerea contro il paese ridotto in miseria e che i sauditi stanno usando la loro enorme ricchezza e influenza per insabbiare i contenuti del documento, in modo da non essere inseriti nella Lista nera dell'ONU che identifica le nazioni che violano i diritti dei bambini.
Mercoledì scorso Foreign policy ha pubblicato un articolo bomba, basato su una bozza di documento di 41 pagine trapelato dagli uffici delle Nazioni Unite, che dimostra come l'Arabia Saudita e la sua coalizione alleata in Yemen (tra cui gli Stati Uniti) siano colpevoli di terribili crimini di guerra, tra cui il bombardamento di decine di scuole, ospedali e infrastrutture civili.
Scrive Foreign Policy :
"'L'uccisione e la mutilazione di bambini è rimasta la violazione più diffusa' dei diritti dei minori in Yemen, secondo una bozza di rapporto di 41 pagine ottenuta da Foreign Policy.
Secondo una fonte autorevole, l'autore principale del rapporto riservato, Virginia Gamba, rappresentante speciale dell'ONU per gli abusi contro i bambini durante le guerre, lunedì ha comunicato ai più alti funzionari delle Nazioni Unite che intende chiedere l'inserimento della coalizione a guida saudita nella lista dei paesi ed enti che uccidono e mutilano i bambini."
Il rapporto dell'ONU ha inoltre specificato che gli attacchi aerei "sono stati causa di oltre la metà di tutte le vittime tra i bambini, con almeno 349 bambini uccisi e 333 feriti" in un periodo di tempo tenuto recentemente sotto osservazione. Mentre non è chiaro a quale periodo di tempo esattamente facciano riferimento queste cifre, l' AP (venuta a sua volta in possesso del documento trapelato) riporta ulteriori conclusioni del rapporto riservato dell'ONU: "L'ONU ha verificato un totale di 1.953 minori uccisi e feriti in Yemen nel 2015", un aumento di sei volte rispetto al 2014" - morti per la maggioranza causate dagli attacchi aerei sauditi e della coalizione.
Inoltre secondo l'AP:
"[Il rapporto] riferisce che quasi tre quarti degli attacchi contro scuole e ospedali - 38 dei 52 - sono stati condotti anche dalla coalizione."
Il rappresentante dell'Arabia Saudita al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, Abdulaziz Alwasil, con il Direttore Generale dell'Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra.
Foto dell'ONU / Pierre Albouy. Fonte: UN Watch.
Nel frattempo, è riportato che l'Arabia Saudita sta esercitando pressioni enormi nei confronti dell'ONU e della commissione responsabile del rapporto, mentre anche gli Stati Uniti lavorano dietro le quinte per arginare l'imbarazzo pubblico e le sicure ricadute da attendersi se l'Arabia Saudita riceverà una censura formale nella prossima relazione annuale dell'ONU sui bambini nei conflitti armati. Come scrive Foreign Policy:
"L'attuale stallo ha le sue radici nell'adozione nel 2001 della risoluzione 1379 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che ha dato mandato a un funzionario senior dell'ONU di redigere ogni anno una relazione che documenta gli attacchi contro i bambini nei conflitti armati, incluso un allegato che contiene una lista nera di governi, terroristi e gruppi armati che uccidono e mutilano i bambini."
Negli ultimi anni l'Arabia Saudita è riuscita ad utilizzare le Nazioni Unite per difendere e migliorare la sua immagine dal punto di vista dei diritti umani e delle riforme. Paradossalmente, questo paese autocratico che ha l'islam wahabita come religione di Stato sta attualmente coprendo un mandato di tre anni nel Consiglio sui diritti dell'uomo delle Nazioni Unite. E finanzia in modo massiccio i programmi di aiuti umanitari delle Nazioni Unite.
L'anno scorso l'Arabia Saudita è stata brevemente inserita nella lista nera delle Nazioni Unite degli enti statali e non statali coinvolti nell'uccisione di massa di bambini, ma secondo Foreign Policy:
"In risposta, l'Arabia Saudita ha minacciato il ritiro dei paesi arabi dall'ONU e tagli di centinaia di milioni di aiuti ai programmi anti-povertà del corpo internazionale, a meno che la coalizione non venisse rimossa dall'elenco degli Stati canaglia delle Nazioni Unite. Il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon, riluttante, accettò di rimuovere temporaneamente la coalizione, adducendo le preoccupazioni che la perdita dei fondi provenienti dal Golfo Persico mettessero in pericolo la vita di milioni di bambini bisognosi dal Sud Sudan allo Yemen.
Ma insistette nel richiedere che la coalizione venisse nuovamente inserita nella lista, a meno che una inchiesta congiunta ONU-Arabia Saudita sul comportamento della coalizione non dimostrasse che le accuse erano infondate o che gli attacchi contro i bambini erano stati interrotti. Ma i Sauditi non sono mai stati reinseriti nella lista e gli attacchi non si sono mai fermati.
Secondo l'Unicef, circa 600 bambini sono stati uccisi e 1.150 feriti in Yemen tra il marzo 2016 e il marzo 2017."
L'Arabia Saudita e gli altri ricchi Stati del petrolio del Gulf Cooperation Council (GCC) sono da tempo riusciti a sfuggire ai giudizi dei media e degli organismi internazionali dei diritti umani grazie alle loro tasche ben fornite e alla relazione di sicurezza con l'Occidente. La loro interdipendenza collettiva con Gran Bretagna e Stati Uniti, legata agli investimenti nel petrolio, nelle armi e nelle infrastrutture, si è tradotta in governi, media e organizzazioni per i diritti umani occidentali che hanno adottato una linea di partito sugli sceiccati del golfo, felici (con sporadiche eccezioni) di dipingerli come una sorta di "monarchie benevole", in lotta contro il terrorismo, dotati di "mentalità riformista" e intente a coltivare gli interessi democratici e sostenere i diritti umani.
Gli stessi Stati Uniti sono stati parte integrante della coalizione (comprendente Bahrein, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Sudan e con il Regno Unito nel ruolo di grande fornitore di armi), che combatte i ribelli di Shia Houthi, dilagati nel Nord dello Yemen nel 2014. I raid aerei su un paese impoverito, che hanno ucciso migliaia di civili e costretto alla fuga decine di migliaia, hanno comportato l'assistenza dell'intelligence americana e l'uso di strumentazione militare americana. Il colera recentemente ha fatto ritorno nelle terribili condizioni provocate dalla guerra, e le infrastrutture civili come gli ospedali sono state bombardate dai Sauditi.
La guerra in Yemen è stata enormemente trascurata dai media statunitensi (e italiani, NdVdE), che tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sul rispetto dei diritti umani in Paesi come Russia o Siria, dove il presidente Bashar al-Assad è costantemente rappresentato come poco meglio di un maniaco omicida intento a massacrare il suo stesso popolo. All'inizio della guerra la prestigiosa Columbia Journalism Review ha pubblicato un breve studio che ha cercato di spiegare, come dice titolo, perché quasi nessuno parla della guerra in Yemen . Altri analisti da allora hanno criticato la tendenza dei media e dell'establishment politico a enfatizzare la presenza dell'Iran in Yemen insieme alla decisione di ignorare o sminuire gli evidenti crimini di guerra commessi dai regimi clienti degli Stati Uniti nel golfo: mentre gli stati e le milizie alleate con l'Iran sono rappresentati come il terrore della regione, gli intenti della coalizione alleata ai sauditi sono costantemente presentati come lodevoli e nobili .
L'Arabia Saudita e i suoi sostenitori temono quello che percepiscono come una crescente influenza iraniana nella regione e cercano di difendere ad ogni costo le forze yemenite fedeli al presidente Abd-Rabbu Mansour Hadi. Il presidente Hadi, come è noto, ha pronunciato davanti all'ONU un discorso tenuto nel mese di settembre del 2016, in cui si è impegnato a "strappare lo Yemen dagli artigli dell'Iran" - dopo il quale ha ricevuto il sostegno internazionale. Mentre le bombe saudite piovevano sulla popolazione civile dello Yemen, la "comunità internazionale" ha accusato l'Iran di ostacolare la pace.
Ma ora le evidenti e crescenti contraddizioni tra ciò che l'ONU afferma di rappresentare e gli abusi nel campo dei diritti umani di alcuni dei suoi Stati membri più influenti e più ricchi stanno diventando sempre più scoperte e impossibili da negare. L'ONU oggi sta violando le sue stesse risoluzioni, chiare e messe nero su bianco, sulla documentazione degli abusi dei diritti umani, mentre continua a emergere attraverso documenti inconfutabili quello che sembra essere un rapporto quid pro quo con l'Arabia Saudita e i suoi sostenitori occidentali.
16/09/17
Les Echos - Anche in Francia si diffonde la povertà
di Jean Michel Gradt, 14 Settembre 2017
L'undicesima edizione del Barometro Ipsos del Secours Populaire Français sulla povertà in Francia, rileva che un francese su due "ha già vissuto una situazione di povertà o teme di diventare povero".
Il rapporto non è rassicurante. "In un anno, le richieste di aiuto presso i nostri 1.256 centri di accoglienza sono esplose", ha detto Secours Populaire Français (SPF), che ha pubblicato giovedì l'undicesima edizione del Barometro Ipsos-SPF sulla povertà in Francia. I volontari dell'associazione registrano richieste che, a seconda dei dipartimenti, in un anno sono aumentate dal 15% al 50%.
Mentre l'INSEE conta quasi nove milioni di poveri - un milione in più di dieci anni fa - il Secours Populaire l'anno scorso ha aiutato più di 2,94 milioni di persone in difficoltà. Ancora una volta, "è circa un milione di persone in più rispetto al 2006".
La situazione si sta deteriorando per i lavoratori precari, per coloro che hanno esaurito l'indennità di disoccupazione, per i giovani, gli anziani, i richiedenti asilo ... E, mostra il Barometro 2017, la paura cresce. Un francese su due "ha già vissuto una situazione di povertà o teme di diventare povero" e più di otto su dieci intervistati ritengono che i loro figli siano a maggior rischio di povertà.
"Quest'anno, la percentuale di persone che hanno vissuto un periodo di povertà è aumentata. Più di un terzo del popolo francese (37%) ha ammesso di essersi già trovato in una situazione precaria. Ormai, quasi una persona su cinque ammette di essere obbligata a vivere coi conti in rosso", commenta Etienne Mercier, co-direttore di Ipsos.
Il tenore di vita dei giovani è in ristagno
Chi è più colpito? I giovani (dai bambini di meno di 10 anni ai "giovani adulti" fino a 29 anni) rappresentano poco più della metà della popolazione povera della Francia. Questa osservazione conferma quella sulla disuguaglianza dei redditi tra i gruppi di età elaborata da Louis Maurin, direttore dell'Osservatorio sulle disuguaglianze, in un articolo pubblicato questo giovedì sulla rivista Futuribles.
"Nel decennio 2003-2013 il tenore di vita della fascia di età 18-29 anni si è mantenuto fermo intorno ai 20.000 euro (1.700 euro al mese) al netto di imposte e contributi". Mentre il tenore di vita medio annuo della popolazione nel suo complesso è aumentato di più di 1.000 euro (+ 5%) e quello della fascia 60-69 anni è cresciuto di oltre 3.000 euro (+ 13%)."
Ma i giovani non sono le uniche vittime della povertà. "Quest'anno, lo studio indica anche delle preoccupazioni reali tra le persone di età superiore ai 60 anni. Nell'insieme della popolazione più anziana - continua Etienne Mercier - rispetto al 2016 si nota un preoccupante aumento delle difficoltà a pagare le cure mediche, a disporre di un'assicurazione sanitaria o anche a pagare le bollette dell'energia.
Certamente, l'indebolimento di questi protagonisti della solidarietà intergenerazionale potrebbe, attraverso un preoccupante effetto domino, avere delle ripercussioni anche sul resto della popolazione.
15/09/17
Ruffiani imperialisti del militarismo, protettori dell'oligarchia, fidati mediatori di guerra – Quarta parte
di Cory Morningstar 24 settembre 2012
PANEM ET CIRCENSES
Panem et circenses. Dal latino, metafora per uno strumento di pacificazione superficiale. Nell’antica Roma, era una componente fondamentale per il benessere della popolazione, e dunque in se stessa una strategia politica. Nel contesto politico, la frase viene usata per descrivere la costruzione del consenso non tramite servizi pubblici migliori o buone politiche, ma per mezzo di diversioni, distrazioni e/o la mera soddisfazione dei bisogni bassi e immediati del popolino. La frase sottintende inoltre l'eliminazione o l’ignoranza dei doveri civici dagli interessi dell’uomo comune (l’homme moyen sensuel). Nel suo uso moderno, la frase viene intesa per descrivere una popolazione che non apprezza più le virtù civiche e la vita pubblica. Il connotato prevalente nell’arco politico, da destra a sinistra, è quello della presunta banalità e frivolezza che avrebbe caratterizzato l’Impero Romano prima di declinare nella monarchia autarchica che avrebbe caratterizzato la transizione al tardo Impero, all’incirca nel 44 A.C. [Fonte: Wikipedia]
Avaaz: l'ape regina delle ONG
“La banalità del male si traduce nella banalità dei sentimenti. Il mondo non è altro che un problema da risolvere con l’entusiasmo.” — Teju Cole
Avaaz è il nome operativo di “Global Engagement and Organizing Fund”, un’organizzazione senza scopo di lucro costituita in persona giuridica nel 2006.
Avaaz è stato fondato da Res Publica, che si descrive come un gruppo di protesta civile globale, e Moveon.org, “comunità virtuale pioniera dell’attivismo su internet negli Stati Uniti.”
Varato nel 2007, Avaaz è il movimento online in più rapida espansione della storia. La scelta deliberata della parola Avaaz, che si traduce con “voce” in diverse lingue europee, mediorientali ed asiatiche, impone la domanda se l’obiettivo primario di Avaaz non fosse fin dall’inizio di esercitare influenza e “farsi amiche” le popolazioni mediorientali ed asiatiche.
9 dicembre 2009: Ricken Patel di Res Publica: “Ciascuna organizzazione [MoveOn e ResPublica] ha un numero di membri internazionali grosso modo equivalente, che saranno automaticamente invitati ad aderire ad Avaaz (Res Publica ha stilato una lista di circa 400,000 nomi su http://www.ceasefirecampaign.org/) … credo sia corretto [dire] che stiamo iniziando con il modello di MoveOn più SMS….” [SMS è l’acronimo di Short Message Service, o texting.]
Il sindacato internazionale degli impiegati nei servizi e GetUp.org.au sono anche stati riconosciuti come soci fondatori di Avaaz: “Avaaz.org beneficia inoltre della collaborazione e del supporto di importanti organizzazioni attiviste di tutto il mondo, tra le quali il sindacato internazionale degli impiegati nei servizi, socio fondatore di Avaaz, GetUp.org.au, e molte altre.”
La voce silenziosa di Avaaz, quella di Res Publica, è composta, pubblicamente, essenzialmente da 3 personaggi principali: Tom Perriello, un (ex) deputato americano a favore dell’interventismo militare che si auto-definisce un imprenditore sociale, Ricken Patel, consulente per numerosi soggetti tra i più potenti della Terra e socio di lunga data di Perriello, e Tom Pravda, membro del corpo diplomatico britannico e consulente del Dipartimento di Stato USA.
9 dicembre 2009, Tech President: “L’organizzazione persegue un ambizioso percorso di espansione.... Ha iniziato con 700,000 membri in 148 paese. Il suo comitato consultivo include politici, diplomatici, attivisti e VIP internazionali.... L’Open Society Institute ha effettivamente concesso un contributo annuale di $150,000 a Res Publica la scorsa estate per aiutarli a far decollare Avaaz.” (In questo articolo si trovano due apprezzamenti da parte di associati di Avaaz, uno dei quali da uno dei co-fondatori di Avaaz meno accreditati pubblicamente, Paul Hilder.) (Di Hilder ci occuperemo più tardi in quest’inchiesta)
Oltre ai $150,000 di capitale iniziale dall’Open Society Institute di George Soros, Res Publica ha donato ad Avaaz $225,000 nel 2006. (Modulo 990, pagina 18), $950,000 nel 2007 (Modulo 990, pagina 18), e $500,000 nel 2008 (Modulo 990, pagina 9). (Il Modulo 990 permette all’Ufficio Imposte americano e al pubblico di controllare i non-profit ed il loro operato.)
Avaaz sostiene di non ricevere ”assolutamente nessun contributo da governi o imprese private... Sebbene abbiamo ricevuto capitali iniziali da organizzazioni associate o filantropiche, quasi il 90% dei fondi di Avaaz proviene oggi da piccole donazioni online.” Eppure, il Modulo 990 del 2009 della fondazione di George Soros per la Promozione dell’Open Society riporta (a pagina 87) $300,000 in finanziamenti generali ad Avaaz ed altri $300,000 ad Avaaz per le campagne per il clima.
La squadra dei co-fondatori di Avaaz è composta da un gruppo di “imprenditori sociali globali” da sei paesi. Il Direttore Esecutivo Ricken Patel, Tom Perriello, Tom Pravda, Eli Pariser (Direttore Esecutivo di MoveOn), Andrea Woodhouse (consulente alla Banca Mondiale), Jeremy Heimans (co-fondatore di GetUp! e Purpose), e l’imprenditore australiano David Madden (co-fondatore di GetUp e Purpose). “Avaaz ha la fortuna di poter contare sulla partnership di fondatori ed il sostegno di importanti organizzazioni attiviste in tutto il mondo.” [1]
Il Modulo 990 di Avaaz per il 2010 dichiara: “La fondazione Avaaz è composta da due membri: Res Publica (U.S.) Inc. e MoveOn.org Civic Action.”
Sia Heimans che Madden sono stati determinati nella formazione della filosofia di Avaaz; la “comunità politica globale online inspirata dal successo di GetUp e del gruppo americano MoveOn.org.”
Nel 2002 il comitato di azione politica di MoveOn (PAC) ha raccolto e distribuito $3.5 milioni a oltre 36 candidati al congresso americano. Don Hazen (direttore esecutivo dell’istituto “independente” d’informazione (IMI), ed editore esecutivo di AlterNet, un programma dell’IMI) [2] avrebbe dichiarato che: “La lista dei membri di MoveOn è composta prevalentemente da borghesi occidentali altamente scolarizzati, informatizzati...e disposti a sganciare grano.”
Considerando il “successo” del co-fondatore di Avaaz, MoveOn, si può tranquillamente presumere che i “borghesi occidentali altamente scolarizzati, informatizzati...e disposti a sganciare grano” siano la fascia demografica di Avaaz e la sua rete.
Il 23 novembre 2003 il San Francisco Chronicle riferiva che “MoveOn.org aveva attirato un contributo corrispondente di $5 milioni dal miliardario speculatore in valute George Soros.” Si trattava della più sostanziosa donazione individuale mai ricevuta dall’organizzazione nei suoi cinque anni di esistenza. Il modello descritto da The Chronicle era “un’organizzazione con sei dipendenti a tempo pieno senza una sede,” replicata con successo da varie ONG all’interno del complesso industriale non-profit, come 350.org.
Nel 2010 Avaaz ha remunerato Ricken Patel con $183,264 come direttore esecutivo, e Ben Wikler (responsabile delle campagne di Avaaz) $111,384 oltre a $921,592 in “commissioni di militanza e consulenze” e $182,196 in rimborsi viaggio. Nel 2011 Avaaz non si è lasciata sfuggire l’occasione di organizzare uno streaming live delle proteste di Occupy Wall Street a New York, e dare così una voce al “99%.” Eh sì, i ricchi sono sempre più ricchi. E i poveri sempre più poveri.
Oltre a finanziare Avaaz, l’Open Society Institute viene anche pubblicamente elencato tra i soci fondatori. Questa conferma è data dal fondatore Ricken Patel e si trova sul sito www.soros.org. [Come discusso precedentemente, L'Open Society Institute (che nel 2011 ha cambiato nome per Open Society Foundations) è una fondazione privata a scopo operativo e di erogazione di aiuti, fondata e tuttora presieduta da George Soros. Soros è conosciuto come un multimiliardario speculatore in valute, e recentemente, anche come avido sostenitore di Occupy Wall Street. Soros è stato un membro del Consiglio di Amministrazione del Council on Foreign Relations (CFR). Il CFR è essenzialmente il braccio di promozione delle élite dominanti statunitensi. Buona parte della politica USA è decisa per iniziativa e disposizione dei componenti esclusivi del CFR.]
Avaaz faceva e fa tuttora uso delle sue relazioni per distribuire donazioni ai suoi membri tramite “Partner di Avaaz presso l’Open Society Institute.” [3]
Marzo 2008 – Il co-fondatore di Avaaz, Ricken Patel spiega: “Avaaz è un’organizzazione militante con poca esperienza in questo business. Per questo, abbiamo scelto un partner fondatore con una lunga esperienza.... Questo gruppo è l’Open Society Institute, una delle fondazioni più importanti ed autorevoli al mondo. OSI non incassa diritti sui fondi stanziati ai gruppi birmani, ed ha anche aumentato il suo contributo alla causa nel 2008.” [4] Nell’esempio della Birmania, tutte le donazioni alla campagna di Avaaz sono state direttamente incanalate attraverso il Soros Open Society Institute Burma Project (sito web). Nonostante non si trovi da nessuna parte sul sito di Avaaz un collegamento a George Soros, con questa dichiarazione Patel afferma chiaramente che The Open Society Institute è effettivamente partner di Avaaz. Perché Avaaz scelga di canalizzare i finanziamenti tramite la fondazione di Soros non è chiaro, ma si potrebbe presumere che sia Soros ad insistere, per poter così controllare quali gruppi in Birmania ricevono i finanziamenti. Oggi, il Myanmar (la Birmania) “si trova in ginocchio davanti all’assalto di investitori privati stranieri che puntano a saccheggiarla” (24 maggio 2012, Myanmar Learns the Lesson of Libya).
Tra i numerosi partner di Avaaz troviamo one.org [5] [che verrà trattato più avanti in questa inchiesta] ed il famigerato TckTckTck. La campagna Tcktcktck è stata lanciata il 26 giugno 2009 da Havas, una della maggiori aziende di pubblicità e comunicazione globali, insieme alle Nazioni Unite (Kofi Annan) e a Bob Geldof. L’obiettivo dichiarato di questa campagna pubblicitaria a trazione corporativa era di “trasformarla in un movimento che potesse essere usato e sfruttato da consumatori, pubblicitari ed i media.” È significativo che le “organizzazioni ambientali” elencate tra i partner in pratica non siano altri che 350.org e Avaaz.org, che non si fanno scrupolo ad allearsi con aziende come EDF Nuclear, Lloyds Bank, MTV ed altre multinazionali che nel frattempo sono impegnate a distruggere l’ambiente. Queste organizzazioni fioriscono sotto l’apparenza ed il marchio di “organizzazioni dal basso”, ma se così fosse non sarebbero collegate alle strutture globali dominanti in grado di assorbire, influenzare e dominare interi movimenti, com’è successo con Tcktcktck alla conferenza sui cambiamenti ambientali di Copenaghen.
Nonostante l’obiettivo iniziale di Avaaz, nelle parole del suo co-fondatore Madden, fosse quello di “una campagna online contro la politica estera del Presidente degli Stati Uniti,” la realtà è ben diversa.
La posizione di Avaaz prima riguardo la Libia (oggi distrutta) e adesso la Siria è in perfetta sintonia con le posizioni all’interno dell’amministrazione americana, come quelle espresse da criminali di guerra come Hillary Clinton (quella di “We came. We saw. He died.” Seguito da risate). L’orrendo pugno di ferro della guerra viene somministrato al pubblico a piccole cucchiaiate con un lurido guanto di velluto - quello di Avaaz.
Nel luglio 2011, Avaaz sosteneva di avere più di 9.65 milioni di "membri" in 193 paesi. Più di recente, la campagna di Avaaz, che propugnava l’intervento di stati imperialisti nello sforzo congiunto di destabilizzare la Siria, ha fatto sì che il numero dei membri di Avaaz balzasse oltre i 13 milioni. Secondo Avaaz, questo incremento di altri 3 milioni di membri circa si è registrato in meno di 30 giorni di campagna intensiva contro il governo sovrano siriano. Ciò cui si assiste in Siria al giorno d’oggi è una campagna di destabilizzazione nella quale il terrorismo scatenato contro la popolazione è finanziato da interessi stranieri.
Contemporaneamente alla campagna di destabilizzazione della Libia e della Siria, lanciata da Avaaz insieme ad altre ONG finanziate dagli Stati Uniti, è stata anche lanciata una campagna di destabilizzazione contro il governo di Morales in Bolivia nell’ottobre 2011. Il tentativo è però fallito. A differenza degli occidentali, i boliviani hanno oggi un grado di comprensione della politica internazionale molto elevato, e sanno riconoscere una propaganda ben orchestrata, dato che sono da sempre vittime designate del colonialismo imperialista e del sistema economico capitalista.
Sono stati i libici a chiedere l’intervento militare?
Domanda ridicola, eppure, secondo Avaaz, sarebbe proprio così.
“La richiesta di una no-fly zone è partita dai libici – inclusi il governo provvisorio di opposizione, l’ambasciatore della Libia presso l’ONU (che ha disertato il paese), i protestanti, e le organizzazioni giovanili.”
Oggi Avaaz dichiara di avere all’attivo 13,649,421 membri, 70,432,165 “campagne” (adottate dal gennaio 2007) e di essere presente in 194 paesi, in base alle informazioni rilevate il 2 marzo 2012. Durante il tempo necessario per scrivere questo paragrafo, si sono aggiunti altri 30 membri di Avaaz, arrivando a 13,649,451, e così via.
Questi membri sono prevalentemente cittadini di paesi imperialisti o comunque ricchi. Consideriamo gli esempi seguenti: (Statistiche tratte dalla mappa virtuale del bacino globale di soci di Avaaz.)
Soci di Avaaz negli Stati Uniti: 923,968
Soci di Avaaz in Canada: 667,592
Soci di Avaaz in Libia: 3,167
Il 10 marzo 2011 John Hilary mosse una critica ad Avaaz in un articolo sul Guardian intitolato “gli attivisti di Internet dovrebbero stare attenti a quello che desiderano per la Libia. Le richieste per una no-fly zone sulla Libia non tengono conto dei pericoli di un intervento. Soluzioni a lungo termine non sono semplici come un click."
Hilary scrive:
Una no-fly zone porterebbe quasi certamente ad un ulteriore intervento militare della Nato in Libia, sostituendo la rappresentanza del popolo libico con il controllo di quei governi che hanno finora mostrato poco interesse per il suo benessere. Finché scorreva il petrolio, i governi occidentali non si sono fatti scrupoli a sostenere dittatori che trattavano le libertà del loro popolo con il pugno di ferro. Ma è improbabile che i libici saranno felici di essere bombardati dagli stessi paesi occidentali che cercano di imporre una no-fly zone. In realtà, un tale intervento non farebbe che favorire Muammar Gheddafi, giustificando la sua retorica sull’intervento estero, per non parlare del danno causato alle nascenti rivoluzioni nella regione, che verrebbero arrestate.
Chiaramente il concetto di no-fly zone, fa sembrare l’intervento straniero una cosa umanitaria – dato che l’enfasi è sul fermare i bombardamenti, anche se in realtà potrebbe causare un’escalation di violenza.
Non sorprende, quindi, che stia rapidamente diventando l’auspicio principale dei falchi da entrambe le sponde dell’Atlantico. Le gerarchie militari, che vedono i loro budget minacciati da tagli governativi, non credono alle loro orecchie – sono proprio quelli che generalmente si oppongono alle guerre a chiedere apertamente più intervento militare.
Per quando Hilary respingesse l’ipotesi di un intervento straniero reale come “pura retorica” senza rivelare che le “nascenti rivoluzioni” cui si riferiva erano state istigate/infiltrate/finanziate da interessi stranieri, Il suo articolo si conclude in modo profetico:
La richiesta di intervento militare è un passo cruciale – potrebbe essere in gioco la vita e la morte di centinaia di migliaia di persone. La differenza tra la facilità di un’azione e l’impatto delle sue conseguenze è enorme.
Durante la guerra civile spagnola molti uomini coraggiosi si sentirono coinvolti talmente profondamente da sacrificare la loro stessa vita in supporto della lotta contro il fascismo in quel paese. A meno di cento anni di distanza, quanto incredibile sarebbe loro sembrato che la gente avrebbero usato un click per inviare eserciti a combattere battaglie che potrebbero causare la morte di tanti altri.
Il direttore delle campagne di Avaaz, Ben Wikler, commentò in risposta all’articolo di Hilary. Le enfasi in grassetto sono state aggiunte da noi.
“Caro John,
“Grazie per l’articolo. Siamo spiacenti che tu ritenga che abbiamo sbagliato. Facciamo sempre del nostro meglio e certamente persone di buona volontà con valori simili possono talvolta non essere dello stesso avviso. Eccoti quindi i retroscena e la spiegazione della nostra decisione sulla no-fly zone.
Avaaz è un’organizzazione guidata dal basso. La comunità dei nostri membri decide la rotta. Utilizziamo le votazioni online per sondare l’opinione dei nostri membri; l’84% di loro era a favore di questa campagna, il 9% era contro. Dopo averla varata, abbiamo notato un intenso sostegno per la campagna in tutto il mondo.
Il nostro staff svolge anche un ruolo essenziale nelle consultazioni con i principali esperti del mondo (e gran parte del nostro staff ha esperienza politica e di militanza) in ognuna delle nostre campagne, e la la Libia non fa eccezione.
In un certo senso, lavoriamo in modo molto simile a quello di giornalisti come te, valutiamo i fatti in base al dialogo con le persone ed arriviamo a conclusioni. Ma in più, le conclusioni personali del nostro staff devono anche passare il vaglio dei forte sostegno dei nostri membri a qualsiasi posizione scegliamo di prendere.
Siamo pienamente coscienti della tua come di altre obiezioni a questa campagna. Queste sono le principali questioni sollevate, e dove ci poniamo a loro riguardo:
L’imposizione di una no-fly zone equivarrebbe in realtà ad un intervento militare occidentale motivato dal petrolio?
Se le potenze occidentali dovessero utilizzare la no-fly zone come un pretesto per un’azione militare nei propri interessi, Avaaz sarebbe tra i primi a fare campagna contro – come Avaaz ha fatto campagna per porre fine al conflitto in Iraq ed assicurare che i diritti sul petrolio dell’Iraq siano riservati al popolo iracheno.
La richiesta di una no-fly zone è partita dai libici – inclusi il governo provvisorio di opposizione, l’ambasciatore della Libia presso l’ONU (che ha disertato), i manifestanti, e le organizzazioni giovanili.
Gli stessi gruppi libici si sono opposti con forza a qualsiasi presenza militare occidentale sul suolo libico. Ovviamente non ritengono che una no-fly zone sia equivalente a un passo verso l’invasione. Lo staff di Avaaz è in stretto e costante contatto con attivisti in Libia ed è stato loro spesso chiesto di proseguire con questa campagna.
Nel contempo, a livello degli stati, gli Stati del Golfo hanno richiesto la no-fly zone, ed il governo USA, ben lungi dal mostrare impazienza nel proseguire, sembra essere profondamente diviso riguardo all’idea.
Inoltre la nostra azione è stata a sostegno di un’autorizzazione del Consiglio di Sicurezza ONU ad una no-fly zone, non di una qualsiasi coalizione di nazioni occidentali. Puoi facilmente immaginare come Cina e Russia non darebbero mai il consenso ad una no-fly zone se pensassero che si tratti di una copertura occidentale al controllo del petrolio.
L’imposizione di una no-fly zone potrebbe sfociare in un conflitto globale conclamato?
Le no-fly zone possono avere una serie di conseguenze differenti. Alcuni analisti ed alti militari hanno argomentato che ciò richiederebbe un attacco preventivo alle batterie antiaeree. Altri, però sostengono che il semplice fatto di far volare gli aerei da combattimento sulle aree controllate dai ribelli assicurerebbe che Gheddafi non usi i suoi jet per attaccare la Libia orientale, perché conscio della debolezza della sua forza aerea in confronto a quella dell’Egitto e della NATO. La migliore soluzione è quella che riduce il numero di morti civili al massimo con il minimo di violenza. Le cose potrebbero non andare come ci aspettiamo, ma se il pericolo di un conflitto globale è solo potenziale, esistono pericoli certi per i civili se si continua senza una no-fly zone.
È vero che Gheddafi ha ucciso civili con le sue forze aeree?
Sulla base dei rapporti dei nostri partner sul campo, della Croce Rossa, e di vari rapporti di informazione sia locali che internazionali, siamo convinti che le ronde di bombardamenti di Gheddafi stiano effettivamente prendendo di mira civili. Le forze aeree di Gheddafi sono il suo vantaggio principale su coloro che lottano per rimuoverlo: finché continuerà ad avere il controllo dei cieli, è probabile che questi attacchi continueranno per mesi o anche di più, con conseguenze disastrose per la popolazione civile.
Una risoluzione dell’ONU per la no-fly zone non sarebbe una violazione della sovranità statale?
Siamo convinti che la comunità internazionale abbia la responsibilità di proteggere i civili quando i rispettivi governi nazionali mettono a rischio i loro diritti umani fondamentali.
La sovranità nazionale non dovrebbe essere una legittima barriera all’intervento internazionale quando vengono commessi crimini contro l’umanità. Se questo ti disturba, allora potresti trovarti in disaccordo anche con altre campagne di Avaaz.
Tutto sommato, è stata una decisione difficile.
Lo è sempre quando si richiede qualsiasi forma di intervento militare. I membri di Avaaz hanno anche caldeggiato per settimane una serie di opzioni non-militari, come un sequestro dei beni, sanzioni mirate, e procedimenti giudiziari contro gli ufficiali implicati nella violenta repressione dei dimostranti.
Ma a parte qualche piccolo progresso ottenuto con queste misure, il bilancio dei morti continua a crescere. Ancora una volta, una persona consapevole potrebbe non essere d’accordo – ma nel caso della comunità di Avaaz, solo il 9% delle persone consapevoli si sono opposte a questa posizione – il che è ancora più sorprendente considerando che in passato abbiamo praticamente sempre fatto pressione per metodi pacifici di risoluzione dei conflitti. Riteniamo che si tratti della migliore posizione da prendere sulla base della convergenza tra le opinioni degli esperti, il supporto popolare e, soprattutto, i diritti e la volontà chiaramente espressa del popolo libico.
Con rispetto,
Ben Wikler
Ok, andiamo passo per passo. Nella replica di Avaaz Wikler afferma che:
“Avaaz è un’organizzazione guidata dal basso. La comunità dei nostri membri decide la rotta. Utilizziamo le votazioni online per sondare l’opinione dei nostri membri; l’84% di loro era a favore di questa campagna, il 9% era contro. Dopo averla varata, abbiamo notato un intenso sostegno per la campagna in tutto il mondo.”
Occorre chiedersi perché “un intenso sostegno per la campagna in tutto il mondo” da parte di un’organizzazione co-fondata da MoveOn che, come dichiarato nel 2002, è rivolta a un pubblico composto “prevalentemente da borghesi occidentali altamente scolarizzati, informatizzati...e disposti a sganciare grano” dovrebbe prevalere sui diritti di uno stato sovrano contro le interferenze esterne? In che modo scatenare un’operazione militare in Libia potrebbe incidere sulla vita di un elettore di Avaaz che frequenta Harvard? In realtà, la fascia demografica di Avaaz è piuttosto abituata a non pensare – solo a cliccare. Anzi, il pensiero critico va a tutto detrimento e costituisce una minaccia per l’intero fenomeno Avaaz. Di certo c’è che la “volontà” di un intervento estero e di una no-fly zone (più comunemente note come guerra e bombardamenti) dovrebbe essere considerata solo se viene da coloro che verranno direttamente toccati da una tale campagna militare. Come dichiarato da Avaaz, i membri libici erano solo 3,167 – e c’è da domandarsi in che modo Avaaz possa considerare i 3,167 “membri” di Avaaz come rappresentativi del “popolo libico” in un paese che (prima dell’invasione) contava una popolazione di circa 6 milioni.
“Questo mondo esiste solo per soddisfare i bisogni — in particolare i bisogni sentimentali — degli occidentali e di Oprah.” —Teju Cole
La verità è che il popolo libico in quanto tale non aveva alcuna rappresentanza nella campagna di Avaaz che richiedeva di infliggere l’intervento estero sulla società tribale della Libia. A dispetto della ridicola retorica di Wikler, resta il fatto che i cittadini libici avevano ben poca rilevanza per Avaaz. Avaaz, simbolo iconico delle bianche torri d’avorio della giustizia, ha seguito il percorso di altre ONG internazionali nell’inquadramento ideologico che il sistema di valori difeso dalla “classe media” “scolarizzata” nei paesi ricchi sia di gran lunga superiore a qualsiasi principio ed ideologia delle società tribali/civili africane ed arabe. Solo l’opinione delle persone appartenenti a queste classi privilegiate conta, e da qui la vittoriosa proclamazione del supporto dell’84%. La posizione di Avaaz è ancora più problematica se si considerano le seguenti questioni.
Cosa significa essere un “membro” di Avaaz? Come per altre ONG di “attivismo online”, l’effettiva appartenenza si presta a varie interpretazioni. Ad esempio GetUp, un’associata di Avaaz, proclama, “Unisciti al movimento di 589,261 Australiani. Entra anche tu a farne parte oggi.” In realtà questa cifra è presa dall’intero database delle petizioni GetUp firmate, per cui basta firmare una volta per essere automaticamente inclusi tra i “membri”. [6] Poiché Avaaz è modellata su GetUp e MoveOn, e considerato che le affiliazioni aumentano vertiginosamente nello spazio di 60 secondi, si può presumere con certezza che l’”affiliazione” ad Avaaz viene concessa istantaneamente a ciascun individuo che firmi una petizione. Questo trucchetto serve come un ottimo metodo per dissimulare la provenienza di gran parte della generosità (o piuttosto degli investimenti), ossia il complesso corporativo, perché permette di rafforzare la falsa impressione che i loro fondi provengano dalla base.
(L’ultima tra le ONG commerciali buoniste —prima menzione nei media il 29 novembre 2011, primo “tweet” il 4 novembre 2011—, ed ennesimo incubo di ogni persona pensante si chiama SumOfUs, e conta già 262,950 membri in tutto il mondo. Da dove spuntano fuori tutti questi membri? Magari dalle liste delle ONG affiliate?)
Se qualcuno ha firmato una petizione di Avaaz nel 2007, prima di rendersi conto di quali siano gli interessi veramente rappresentati da questa organizzazione, la stessa persona viene ancora considerata un membro nel 2012? Se 3,167 libici membri di Avaaz avevano firmato una petizione nel 2008 per salvare gli elefanti in Africa, questi non costituiscono una maggioranza di libici che richiedono un intervento militare nel 2011.
Wikler afferma: “Il nostro staff svolge anche un ruolo essenziale nelle consultazioni con i principali esperti del mondo (e gran parte del nostro staff ha esperienza politica e di militanza) in ognuna delle nostre campagne, e la la Libia non fa eccezione.”
Ma la domanda è, chi sono esattamente questi esperti di cui Avaaz continua a parlare? Avaaz non rivela da nessuna parte chi siano questi “esperti”, né le loro affiliazioni. E quali istituzioni e società hanno informato le loro politiche ed esperienze di militanza?
Wikler afferma: “Se le potenze occidentali dovessero utilizzare la no-fly zone come un pretesto per un’azione militare nei propri interessi, Avaaz sarebbe tra i primi a fare campagna contro.”
Eppure esiste già una quantità impressionante di prove che dimostrano inequivocabilmente che questo è stato esattamente il pretesto utilizzato. “Un’azione militare nei propri interessi” è esattamente ciò che si è verificato, il che solleva la questione – che ne è stato dell’impegno di Avaaz di essere “tra i primi a fare campagna contro”? Un’azione militare nei propri interessi: Madeleine Albright nella trasmissione televisiva 60 Minutes, Durata 23s: http://www.youtube.com/watch?v=FbIX1CP9qr4]
Non solo Avaaz si contraddice rispetto a quest’affermazione, ma non ha fatto proprio NULLA per informare il pubblico dei fatti che attestano la distruzione deliberata della Libia dietro la facciata di un “intervento umanitario.” Ad oggi, non solo non esiste NESSUNA PROVA a favore di questa invasione (resa possibile dalla cooperazione di altre 77 ONG) ma piuttosto c’è un’enormità di prove contrarie. Si è trattato di un progetto di destabilizzazione deliberata e premeditata, che ha scatenato l’inferno in una nazione sovrana – senza che questa avesse attaccato o invaso un altro paese. Avaaz non ha mai pubblicato alcuna critica dei crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi dalla NATO e dalle milizie ribelli da essa supportate. E Avaaz non ha neanche condiviso con i suoi sostenitori gli orribili crimini razziali e la pulizia etnica perpetrati dai ribelli, che la NATO ha fatto finta di non vedere, nonostante fossero stati documentati integralmente durante tutta l’invasione della Libia. Riguardo le scioccanti atrocità razziali filmate e documentate in Tawergha, le torri d’avorio del potere non hanno nulla da dire. Ma anche senza considerare le prove ci si aspetterebbe che gli “esperti “ di Avaaz, prima e dopo l’invasione della Libia, abbiano avuto modo di acquisire consapevolezza di come le campagne di destabilizzazione vengano strategicamente pianificate e condotte dalle potenze imperialiste sulla base della storia passata e recente. E ovviamente, considerando il curriculum dei fondatori di Avaaz, si capisce che lo sapevano bene.
Video: Humanitarian War in Libya: There is no evidence! (Durata: 19:42)
https://www.youtube.com/watch?v=pU9IzXsALwo
Wikler afferma: “La richiesta di una no-fly zone è partita dai libici – inclusi il governo provvisorio di opposizione, l’ambasciatore (che è scappato) della Libia presso l’ONU, i protestanti, e le organizzazioni giovanili.”
Per quanto riguarda l’ambasciatore (disertore) libico all’ONU: “Pochi giorni dopo l’inizio delle proteste, il 21 febbraio, il vice Rappresentante Permanente presso l’ONU, Ibrahim Dabbashi, prima di affrettarsi ad abbandonare la Libia affermava: ‘Ci aspettiamo un autentico genocidio a Tripoli. Gli aerei continuano a sbarcare mercenari negli aeroporti.’ Come una matriosca: una leggenda composta da miriadi di leggende. Con questa affermazione si collegavano tre grandi leggende – il ruolo degli aeroporti (da qui la necessità di quella “droga di passaggio” dell’intervento militare che è la no-fly zone), il ruolo dei “mercenari” (in genere, semplicemente gente di colore), e la minaccia di un ‘genocidio‘ (che ha ispirato il linguaggio della dottrina della Responsibilità di Proteggere delle Nazioni Unite). Per quanto maldestra e priva di fondamento, la sua dichiarazione metteva furbamente insieme 3 brutte leggende, una delle quali basata su ideologie e pratiche razziste che perdurano tuttora, mentre le atrocità commesse contro libici ed migranti africani di passaggio in Libia si moltiplicano ogni giorno. E non era il solo a rilasciare dichiarazioni di questo tipo.” [Fonte: TOP TEN MYTHS IN NATO’S WAR AGAINST LIBYA]
Sostenere che fosse desiderio dei libici imporre l’occupazione militare del proprio paese è semplicemente oltraggioso. Per di più, l’ambasciatore disertore era certamente al servizio delle potenze imperialiste. E chi erano poi questi dimostranti ed organizzazioni giovanili di cui parla Avaaz? Sono tutti qua i libici che costituiscono i 3167 membri di Avaaz in Libia? Sono forse gli stessi gruppi giovanili creati dal fondatore e socio di Avaaz, il Soros Open Society Institute? Sono magari collegati a Otpor, che è finanziato dagli americani, o sponsorizzati da qualche altra ONG al soldo dell’amministrazione americana? Queste informazioni non si trovano da nessuna parte. E ancora, siamo sicuri che i 3167 membri libici di Avaaz vivano poi davvero in Libia. E che tutti e 3167 abbiano firmato la petizione di Avaaz, chiedendo in pratica di trasformare il loro paese in una zona di guerra?
Wikler afferma: “Gli stessi gruppi libici si sono opposti con forza a qualsiasi presenza militare occidentale sul suolo libico. Ovviamente non ritengono che una no-fly zone sia equivalente o un passo verso l’invasione. Lo staff di Avaaz è in stretto e costante contatto con attivisti in Libia ed è stato loro spesso chiesto di proseguire con questa campagna.”
Che instaurare una no-fly zone in un paese ricco di petrolio avrebbe aperto le porte ad avvoltoi di ogni genere è fin troppo evidente. Chi ha detto a questi cosiddetti “Gruppi Libici” (chiunque essi siano non è neanche chiaro) una cosa talmente ridicola come “una no-fly zone non è il primo passo verso un’invasione”? Si deve presumere che quest’informazione sia stata passata ai “Gruppi Libici” dai famosi “esperti” di Avaaz, dato che a detta loro lo staff di Avaaz era “in stretto e costante contatto con gli attivisti in Libia.” Inoltre, nel caso di un’ipotetica no-fly zone, Wikler continua dicendo che “esistono potenziali pericoli di una guerra internazionale...” Come mai Winkler è conscio del rischio di una guerra internazionale in caso di no-fly zone, mentre i “Gruppi Libici” credono (a detta di Avvaz) che “una no-fly zone non sia il primo passo verso un’invasione”?
Wikler afferma: “Nel contempo, a livello degli stati, gli Stati del Golfo hanno richiesto la no-fly zone, ed il governo USA, ben lungi dal mostrare impazienza nel proseguire, sembra essere profondamente diviso riguardo all’idea.”
Ma mentre Winkler persuadeva ed assicurava i lettori del Guardian che gli USA erano riluttanti ad “intervenire” in Libia, due cacciatorpediniere e diversi sottomarini lanciamissili americani erano già stati mobilitati e in viaggio verso le coste libiche. 9 giorni più tardi, il 19marzo 2011, le stesse cacciatorpediniere lanciarono risolutamente 110 missili Tomahawk, nel quadro dell’operazione militare chiamata “Odyssey Dawn.”
“La marina britannica acquistò nel 1995 65 Tomahawks al prezzo di $1 milione (£650,000), tutti dall’azienda di armamenti americana Raytheon Systems. Furono mobilitate due cacciatorpediniere americane le U.S.S Barry e Stout. Secondo fonti del Pentagono, ciascuna può trasportare fino a 96 missili Tomahawk.” [Fonte]
19 marzo 2011: “Missili Cruise lanciati da sottomarini e fregate americane hanno sferrato l’attacco al sistema anti-aereo. Un alto ufficiale della Difesa, parlando ufficiosamente, ha affermato che gli attacchi ‘apriranno il campo per poter imporre una no-fly zone da est a ovest in tutta la Libia.’”
Wikler afferma: “...esistono pericoli certi per i civili se si continua senza una no-fly zone.”
Forse Wilkler si riferiva ai pericoli che correvano i cittadini americani ed europei se Gheddafi fosse riuscito a sostituire il dollaro americano e l’euro con il dinaro africano, garantito dall’oro, per costruire l'unità e l’autonomia delle nazioni africane. Forse si riferiva ai cittadini all’interno di un sistema economico che dipende dal continuo sfruttamento e saccheggio delle risorse economiche di altri paesi. Poiché la Libia era un paese senza debiti, con tassi di interesse inesistenti, un sistema scolastico e sanitario gratuito, una rete idrica all’avanguardia e il più alto tenore di vita in Africa, non si capisce cos’altro i libici potessero temere con esattezza a parte un’imminente invasione imperialistica.
Wikler afferma: “Sulla base dei rapporti dei nostri partner sul campo, della Croce Rossa, e di vari rapporti di informazione sia locali che internazionali, siamo convinti che le ronde di bombardamenti di Gheddafi stiano effettivamente prendendo di mira civili.”
Wikler usa intenzionalmente parole vaghe. Di che rapporti parla? Quali partner?
Briefing del Pentagono 1 marzo: D: Siete in possesso di prove che [Gheddafi] abbia effettivamente sparato alla popolazione dai cieli? Esistono dei rapporti in proposito, ma avete conferme indipendenti? Se sì, quali?Segretario alla Difesa – ROBERT GATES: R: “Lo abbiamo appreso da fonti giornalistiche, ma non abbiamo conferme,” Presidente dei Capi di Stato Maggiore – Ammiraglio MICHAEL MULLENR: “Corretto. Non abbiamo alcuna conferma.”
Nel video seguente , il Generale Wesley Clark spiega l’invasione della Libia, della Siria e della Somalia, tutte progettate anni prima: http://youtu.be/fSNyPS0fXpU
Wikler afferma: “Siamo convinti che la comunità internazionale abbia la responsibilità di proteggere i civili quando i rispettivi governi nazionali mettono a rischio i loro diritti umani fondamentali.”
Qui Wikler riprende l’attuale dogma ribadito costantemente dall’amministrazione americana e i loro lacchè dei media corporativi. Se Avaaz avesse davvero “esperti” al servizio degli interessi dei cittadini in grado di surclassare quelli al servizio del capitale, allora dovrebbe dirci che si tratta soltanto di un linguaggio creato per facilitare l’accettabilità sociale della guerra presentandola come “intervento umanitario” e “responsabilità di proteggere”. Prima che fosse stata inventata questa elegante terminologia, si chiamava semplicemente “il diritto di intervenire.”
Wikler afferma: “Ancora una volta, una persona consapevole potrebbe non essere d’accordo – ma nel caso della comunità di Avaaz, solo il 9% delle persone consapevoli si sono opposte a questa posizione – il che è ancora più sorprendente considerando che in passato abbiamo praticamente sempre fatto pressione per metodi pacifici di risoluzione dei conflitti. Riteniamo che si tratti della migliore posizione da prendere sulla base della convergenza tra le opinioni degli esperti, il supporto popolare e, soprattutto, i diritti e la volontà chiaramente espressa del popolo libico.”
Questo mette in luce un pericoloso esperimento, e oggi precedente, messo in atto da Avaaz. Vikler dice apertamente di essere sorpreso dal fatto che solo il 9% dei loro “membri” (in base ai loro sondaggi) fosse contrario alla no-fly zone. Quando Wikler afferma che questa posizione era “ancora più sorprendente considerando che in passato abbiamo praticamente sempre fatto pressione per metodi pacifici di risoluzione dei conflitti”, ciò è in sé una presa d’atto che questa nuova direzione è tutt’altro che pacifica. Bisogna tener presente che tutte le ONG si avvalgono di sondaggi e direttori del marketing per ideare e progettare tutte le loro campagne e strategie. Avaaz non fa eccezione, anzi, rappresenta piuttosto la regola per eccellenza.
L’integrazione di Avaaz con il militarismo è resa evidente dai continui sondaggi che illustrano a grandi linee cosa suscita la sensibilità dei cittadini e cosa invece sono disposti a tollerare. In un sondaggio globale del 13 gennaio 2010, ai partecipanti veniva chiesto di valutare 6 priorità in ordine di importanza. Le priorità tra le quali scegliere includevano: diritti umani, tortura e genocidio (#2), movimenti democratici e regimi tirannici (#3), guerra, pace e sicurezza (#4), e corruzione ed abuso di potere (#5). Tra parentesi, al numero 1 era il cambiamento climatico, ma dopo il fallimento dei negoziati sul clima di Copenhagen, questo non era più un argomento vincente per il branding delle ONG, e quindi la campagna sul clima è stata per lo più abbandonata del tutto. Tutte le altre “opzioni” proposte sono elementi chiave o comunque associati con il militarismo.
Come facciano Wikler e i suoi compari di Avaaz a dormire la notte, sapendo che la campagna Avaaz ha contribuito a uccidere almeno 100.000 civili libici ed a scatenare una guerra razziale, è ancora un mistero. Per quanto certamente aiuti essere circondati da persone che la pensano allo stesso modo e rafforzano la stessa visione distorta del mondo, rassicurandosi a vicenda di essere i più intelligenti al mondo e che il fine giustifichi i mezzi. Questo è il bello e la forza del conformismo neo-liberista. Permette ad ognuno di comportarsi in modo abominevole, mentre tutti quelli indottrinati nello stesso sistema di valori, inclusi i media corporativi e sedicenti “progressisti”, ti dipingono come un eroe. La disponibilità delle oligarchie a mantenere questi ego ben gonfi e pasciuti è soltanto strategica. Serve ad assicurare che le loro illusioni narcisiste siano rafforzate mentre contemporaneamente qualsiasi dubbio viene neutralizzato. Nessuno vuole essere ostracizzato dal circolo dello champagne. Wikler si è successivamente da Avaaz per divenire Vice Presidente Esecutivo presso Change.org, un’altra delle ONG (a scopo di lucro) di Soros, mentre migliaia e migliaia di libici hanno pagato il prezzo più alto per la sua campagna, che nel sito di Avaaz viene elencata tra le recenti “vittorie”. Lo stipendio dichiarato da Ben Wikler’s come Direttore delle Campagne di Avaaz nel 2010 è stato di $111,384 (Modulo 990).
Ma non tutti sono così ingenui. Uno dei lettori (“derazed”) ha commentato sotto l’articolo del Guardian: “Finora avevo nutrito stima per Avaaz – avevo persino fatto donazioni allo scopo di procurare strumenti di telecomunicazione agli attivisti arabi. Ma quando è arrivata l’email sulla no-fly zone, ho creato anch’io la mia “no-fly” zone personale – chiudendo per sempre il mio rapporto epistolare con Avaaz. Internet e gli attuali avvenimenti mi hanno insegnato molto sui guerrafondai con maschere virtuali.
[19 marzo 2011: In un rapporto intitolato “Libya’s Test of the New International Order” – della Brookings Institution, un organismo sponsorizzato da Fortune-500, la guerra viene platealmente smascherata non come qualcosa di natura “umanitaria”, ma di finalizzato esplicitamente ad instaurare un nuovo ordine globale ed il primato del diritto internazionale.]
I Gatekeeper di Avaaz
Le informazioni che seguono in questa inchiesta devono essere considerate come la punta dell’iceberg. Si tenga presente che quasi tutte, se non tutte le organizzazioni finora discusse sono, almeno in parte ma più spesso interamente, finanziate se non addirittura facenti capo all’“Open Society Institute” di George Soros.
Co-fondatore e Direttore Esecutivo di Avaaz: Ricken Patel
[caption id="attachment_12759" align="alignnone" width="300"] **COMMERCIAL IMAGE** In this photograph taken by AP Images for Avaaz, UN Secretary-General Ban Ki-moon, center left, accepts the 'End the War on Drugs' petition from Avaaz Executive Director Ricken Patel, center right, accompanied by Richard Branson, right, and Fernando Henrique Cardoso, left, at the United Nations Headquarters in New York, Friday, June 3, 2011. (Charles Sykes/ AP Images for Avaaz)[/caption]
La dolce vita nella parrocchia dello champagne. In questa foto di AP Images per Avaaz, il Segretario Generale ONU Ban Ki-moon, al centro a sinistra, riceve la petizione ‘Porre fine alla Guerra contro la Droga’ dal Direttore Esecutivo di Avaaz Ricken Patel, al centro a destra, accompagnato da Richard Branson, destra, e Fernando Henrique Cardoso, sinistra, presso la sede delle Nazioni Unite a New York, venerdì 3 giugno 2011.
Profilo:
AccessNow: Membro del Comitato Consultivo Internazionale
Avaaz International: Co-fondatore
Avaaz International: Direttore Esecutivo/Presidente
CARE International: Consulente
CeaseFireCampaign.org (cessata): Co-fondatore
CeaseFireCampaign.org (cessata): Direttore Esecutivo
DarfurGenocide.org: Co-direttore
DarfurGenocide.org: Co-fondatore
Faith in Public Life: Membro del Consiglio di Amministrazione
Faith in Public Life: Co-fondatore
Faithful America: Membro del Consiglio di Amministrazione
Faithful America: Co-fondatore
Gates Foundation: Consulente
Università di Harvard: Consulente
International Center for Transitional Justice: Consulente
International Crisis Group: Consulente
J Street: Membro del Comitato Consultivo
Namati: Membro del Consiglio di Amministrazione
Res Publica: Presidente/Direttore Esecutivo
Res Publica: Co-fondatore
Rockefeller Foundation: Consulente
Nazioni Unite: Consulente
Percorso accademico:
Harvard University Kennedy School of Government
University of Oxford
Queen’s University
Retribuzioni da Avaaz (Moduli 990):
2006: $61,650 (Res Publica)
2006: $120,000
2007: $120,000
2007: $10,000 (Res Publica)
2008: $126,000
2009: $120,000
2010: $183,264
Residente a New York
Ricken Patel è co-fondatore e direttore esecutivo di Avaaz International. Patel ha servito come consulente alle Nazioni Unite, alla Rockefeller Foundation, all’International Crisis Group, e alla Harvard University, CARE International, and the International Center for Transitional Justice.
La consulenza di Patel alle Nazioni Unite non dovrebbe sorprendere Come Avaaz, le Nazioni Unite sono ormai diventate nient’altro che uno strumento al servizio di interessi imperialistici. Anche questo non dovrebbe sorprendere, dal momento che sono state le stesse oligarchie a fondare l’ONU. Sono ormai decenni che i paesi schiacciati dalla morsa dell’imperialismo hanno chiesto riforme all’interno dell’ONU. Questo fatto è ben documentato da una lunga lista di discorsi accorati da parte di leader di nazioni sovrane costantemente in lotta contro l’oppressione e l’intervento straniero. Tali discorsi non sono quasi mai pubblicizzati dai media, che siano corporativi o “progressisti” (che poi sono finanziati dalle stesse élite). Non a caso il complesso industriale non-profit non fa praticamente nulla per aiutare quegli stati che continuano a combattere per la loro autonomia e indipendenza, che sarebbe possibile solo rompendo le catene dell’imperialismo. Questo era esattamente ciò che la libia stava cercando di Aiutare l’Africa ad ottenere prima che fosse presa di mira e distrutta.
Patel è stato nominato “miglior innovatore politico” nel 2009 dall’Huffington Post (acquisito da AOL Time Warner nel 2011), e battezzato come “giovane leader globale” dal famigerato Davos World Economic Forum. Quando un “attivista” riceve l’encomio di entità corporative internazionali ed i media corporativi, nella società civile dovrebbero suonare mille campanelli d'allarme e sirene di allarme rosso.
Patel si è laureato alla Kennedy School dell’Harvard University e ad Oxford, e viene considerato in certi circoli elitari alla stregua di un “Balliol” [ex-alunno del college più di élite di Oxford, n.d.t.]:
Oxford: “Istituzioni tra le più disparate, come il Workers Educational Trust, il National Trust, Amnesty International, Ashoka (l’associazione mondiale degli imprenditori nel campo sociale), ed Avaaz (che è oggi il principale gruppo di attivismo al mondo) sono stati tutti istituiti da ex-alunni di Balliol.”
L’International Crisis Group, nel quale Patel ha servito in qualità di consulente, è un altro istituo amministrato da George Soros. Nel 2008, ICG ha contribuito ad istituire il Global Center for the Responsibility to Protect, oltre a Human Rights Watch, Oxfam International ed altre importanti ONG del network di Soros. Ad aprile del 2011, ICG era una delle 31 organizzazioni membre facenti parte dell’International Coalition for the Responsibility to Protect. Con un bilancio annuale di $17 milioni(2011), ICG riceve donazioni da governi, fondazioni di beneficenza, società private, ed individui. Tra i principali sponsor dell’organizzazione sono la Rockefeller Foundation, la Ford Foundation, la Bill & Melinda Gates Foundation, la William & Flora Hewlett Foundation, la David and Lucile Packard Foundation, la Carnegie Corporation of New York, la Compton Foundation, e la Flora Family Foundation. Nel 2008 l’Open Society Institute di George Soros si è impegnato a versare $5 milioni a ICG.
L’International Crisis Group ha avuto un ruolo cruciale nelle “rivoluzioni.” In un articolo del gennaio 2001 intitolato “All is not what it seems in Egyptian Clashes,” si rivelava che il leader dei dimostranti egiziani Mohammed ElBaradei “era in realtà un fedele agente occidentale, membro da tempo dell’International Crisis Group beniamino di Wall Street e Londra” [Fonte: Land Destroyer].
Patel è anche co-fondatore e direttore esecutivo di Res Publica, che è stato ufficialmente varato nel 2003. Res Publica ha sede a New York.
Res Publica è uno dei principali fondatori di Avaaz e MoveOn. L’obiettivo dichiarato di Res Publica è di “trovare soluzioni innovative all’ingiustizia globale e a minacce alla sicurezza.” Res Publica “è stato lanciato comeprogetto pilota” in Sierra Leone nel 2001-2002 e conta su tre fellow a tempo pieno, Ricken Patel, Tom Perriello e Tom Pravda. Res Publica è supportato da una vasta rete di “Amici di Res Publica” ed un Comitato Consultivo Internazionale. Non è dato sapere chi faccia parte della rete di “Amici di Res Publica”.
29 dicembre 2004: “Nel giro di due giorni, all’inizio di dicembre, una quarantina di attivisti religiosi si sono incontrati negli uffici di Washington del Center for American Progress, un think-tank formato di recente con a capo l’ex-capo di gabinetto di Clinton John Podesta. Le priorità spinte da Res Publica durante gli incontri a porte chiuse includeva sessioni sulla ‘costruzione di infrastrutture dei movimenti’ e ‘obiettivi, strategie e temi centrali’.”
Perriello (oggi Presidente e CEO del Center for American Progress) ha descritto Res Publica come un’“incubatrice di imprenditoria sociale.”
L’indirizzo email di Res Publica è respublica@avaaz.org.
Patel è stato almeno fino al 2008 membro del Consiglio di Amministrazione di Faithful America del quale è anche stato uno dei fondatori (fondato nel 2004, avviato nel 2006) insieme all’ex delegato americano (2009-2011) Tom Perriello. L’obiettivo di “Faithful America” era creare “una versione religiosa di MoveOn.org.” Sia Patel che Perriello sono stati tra i primico-direttori del progetto. Questa ONG è stata poi acquisita da Faith in Public Life, dove, nel 2008, Patel era anche membro del consiglio. Il 13 aprile 2008, Faith in Public Life, in partnership con ONE Campaign e Oxfam America, ha organizzato il “Forum della Compassione” dei candidati democratici, durante il quale i media corporativi associati CNN e Newsweek hanno ospitato una serata con Hillary Clinton, Barack Obama, ed altri “leaders.” Faith in Public Life ha ricevuto $400,000 dall’Open Society Institute nel 2007 e nuovamente nel 2008.
Patel è stato co-direttore di DarfurGenocide.org, un’organizzazione che ha contribuito a fondare insieme a Perriello ed il dipartimento di Stato USA.
Patel fa anche parte del consiglio d'amministrazione di Namati, un’organizzazione “che offre assistenza tecnica ad organizzazioni di sostegno allo sviluppo, governi, e a soggetti della società civile interessati ad accrescere il potere di alcuni aspetti legali di progetti esistenti, o ad avviare nuove iniziative di conferimento di poteri legali.” I suoi partner includono UKAid del Dipartimento di Sviluppo Internazionale; AusAid, il programma di aiuti esteri del governo Australiano; UNDP, Il programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite; e la Open Society Foundations di Soros. Patel preside anche il comitato consultivo dell’organizzazione J Street insieme a Eli Pariser, co-fondatore di Avaaz ed attuale direttore esecutivo di MoveOn.
Patel è inoltre membro del Comitato Consultivo Internazionale di AccessNow.org, un’organizzazione di cui ci occuperemo più avanti in questa inchiesta. [Fonte: Source Watch]
La scalata di Patel al rango di una superstar nel mondo corporativo è avvenuta grazie al fatto che la sua specialità sia la “propaganda elettronica” e la creazione di movimenti su Internet – la chiave per assicurare il controllo di tutti i “consumatori”, tutti i “movimenti” ed essenzialmente tutte le informazioni del pianeta.
Co-fondatore di Avaaz Tom Perriello
Profilo:
AccessNow: Membro del Comitato Consultivo Internazionale
Afghanistan Watch: Analista
Avaaz International: Co-fondatore
Avaaz International: Segretario nel 2008
Avaaz International: Amministratore fiduciario 2006, 2007
Catholics in Alliance for the Common Good: Co-fondatore
CeaseFireCampaign.org (cessata): Co-fondatore
Center for a Sustainable Economy, oggi inglobato a “Redefining Progress”: Vice Direttore
Center for American Progress Action Fund (CAPAF) — la base di ThinkProgress e ramo promozionale di Center for American Progress (CAP): Presidente e CEO
Consulente per le campagne giovanili ed ambientali.
E-Mediat Jordan: Amministratore nazionale
Faithful America: Co-direttore
Faithful America: Iniziatore di concetto.
International Center for Transitional Justice: Consulente
International Center for Transitional Justice: Dipendente di
J Street: Membro del Comitato Consultivo
Namati: Membro del Consiglio di Amministrazione
National Council of Churches of Christ: Consulente
National Council of Churches of Christ: Socio
National Security Consultant
Albo degli avvocati dello Stato di New York: Membro
Open Society Institute: Socio docente
Res Publica: Co-fondatore
The Century Foundation: Socio
The Century Foundation: Analista di sicurezza nazionale
The Century Foundation: Consulente speciale/portavoce
Nazioni Unite: Consulente speciale del Procuratore Internazionale per i Crimini di Guerra
Incarichi politici negli Stati Uniti Deputato democratico della Virginia 2008-2010
Dipartimento di Stato USA Funzionario della
Camera dei delegati della Virginia: Comitato Legislativo
Yale Law School: Socio docente
Yale Scroll and Key: Membro della società segreta
Retribuzione da Avaaz:
2006: $48,000
Percorso accademico: Università di Yale
Residente in Virginia, U.S.A.
Tom Perriello è un collaboratore di vecchia data di Ricken Patel. Insieme hanno fondato Avaaz.org, Res Publica e FaithfulAmerica.org.
Perriello è un ex deputato del Congresso americano (ha rappresentato il 5o distretto della Virginia tra il 2008 e il 2010) e membro fondatore del gruppo di lavoro sulla sicurezza nazionale del capogruppo della maggioranza.
Perriello è stato anche co-fondatore di Catholics in Alliance for the Common Good. Ha lavorato con il Reverendo James Forbes su principi di “giustizia profetica”. Molte di queste organizzazioni sono state create allo scopo di creare un movimento “religioso di sinistra”.
Non per nulla Marx scriveva che “la religione è l’oppio dei popoli.” Nel 1974 Edward Goldsmith sosteneva che la religione dovesse essere considerata parte integrale di una cultura, il principale meccanismo di controllo che assicuri la stabilità di un sistema sociale. Goldsmith notava come infatti in nessuna delle società tradizionali sembra esistere una parola per la “religione”, mentre “solo quando la religione si separa dal resto del modello culturale di una società e cessa di esserne l’effettivo potere dominante, allora la parola ‘religione’ diventa necessaria.” Nel 1974 Goldsmith avvertiva che, contrariamente a quanto comunemente ritenuto, le persone oggi sono più che mai depresse, aggiungendo che ricorrono a moltissime forme diverse di fuga dalla realtà come dipendenza e suicidio. Goldsmith riteneva indispensabile creare con urgenza nuovi sistemi di valori per “ricreare una società disciplinata tenuta insieme da una cultura religiosa chiaramente definita.” Goldsmith sosteneva che stavano già iniziando a proliferare dei movimenti che si prefiggevano questo scopo. Possiamo solo supporre che questa fosse l’ideologia dietro i gruppi religiosi che Patel e Perriello avevano iniziato a lanciare. L’unico problema per Patel, Perriello, Pravda e Soros era che l’approccio religioso non ha funzionato. Le masse non ci sono cascate.
Perriello hanno Patel anche fondato e diretto DarfurGenocide.org ufficialmente varato nel 2004. “DarfurGenocide.org è un progetto di Res Publica, un gruppo di professionisti del settore pubblico dedicato alla promozione del buon governo e di un cultura civica virtuosa.” Oggi questa organizzazione è nota come “Darfurian Voices”: “Darfurian Voices è un progetto di 24 Hours per Darfur.” Il Dipartmentimento di Stato americano e l’Open Society Institute erano solo due dei fondatori e partner collaboratori dell’organizzazione. Altri partner di Darfurian Voices sono Avaaz, il National Endowment for Democracy (NED), International Centre for Transitional Justice, Darfur Rehabilitation Project, Humanity United, Darfur People’s Association of New York, Genocide Intervention, Witness, Yale Law School, Il Sigrid Rausing Trust e la Bridgeway Foundation.
A prescindere dal linguaggio costruito ad arte e dalle immagini che fanno sciogliere il cuore, queste ONG sono state create ed esistono solo per uno scopo – proteggere e favorire la politica e gli interessi americani, con il pretesto della filantropia e dell’umanitarismo. Ad eccezione di una che ha sede a Londra, tutte le organizzazioni nella lista dei partner di DarfurGenocide.org sono americane con sede negli USA:
“La maggior parte di noi ha un background in politica o diplomazia, oltre ad essere attivisti, quindi la speranza è di poter fare queste cose in importanti contesti diplomatici.” — Tom Perriello su Avaaz, 5 febbraio 2007, in conversazione con The Nation
Si consideri l’esplosiva inchiesta investigativa intitolata “Burying the Darfur Genocide Myth”, pubblicata da Pravda il 16 agosto 2011. Qui alcuni estratti:
“In primo luogo, la mia indagine ha rilevato che le vittime del conflitto di Darfur erano beneficiarie dell’operazione umanitaria più grande e meglio organizzata della storia.. Questo è un dato di fatto, ripetutamente dimostrato dalla situazione sul campo a Darfur, e qualsiasi operatore umanitario onesto e consapevole a Darfur può confermare che il presidente sudanese Omar Al Bashir ha avuto un ruolo chiave nel successo dell’operazione umanitaria, e che senza l'egida ed il sostegno del presidente Bashir la missione di Darfur non sarebbe stata possibile.
Le accuse di genocidio mosse contro il presidente Bashir da, tra gli altri, anche il Tribunale Penale Internazionale dell'Aia sono fondate su rapporti di provenienza estremamente dubbia, principalmente “fonti” dell’ONU di origine decisamente discutibile....
Il mito del genocidio di Darfur è stato promosso da ONG “umanitarie” occidentali, che hanno raccolto donazioni per oltre $100 milioni alla rubrica ‘Basta’ e ‘Preveniamo il genocidio.’ Le argomentazioni sul suicidio si basano su stime del numero di morti che si andavano man mano rapidamente gonfiando man mano che cominciavano ad arrivare i dollari. Prima si trattava di 100,000, poi 200,000, poi 300,000 e alla fine, con un’affermazione talmente ridicola che persino l’organo di vigilanza del governo britannico ha dovuto rimuovere la notizia, 400,000 persone sarebbero state vittime del genocidio di Darfur....
L’occidente, e in particolare gli USA, sono determinati a mantenere l’Africa in uno stato di perenne crisi, per poterla meglio sfruttare. E la lobby del ‘salvare Darfur’ serve soltanto a portare più violenza in Africa sotto le spoglie di ‘interventi umanitari’, e ben pochi di quei $100 milioni raccolti hanno mai raggiunto la popolazione di Darfur a cui erano destinati.”
Video: Keith Harmon Snow, ricercatore dei diritti umani e pluri-premiato giornalista, parla di propaganda e ONG (Durata: 2:56)
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=7-EZK-pC2pQ&w=820&h=487]
[youtube https://www.youtube.com/watch?v=k6l0zsdf2Zc&w=820&h=487]
Il Tribunale Penale Internazionale (ICC) (presieduto da Luis Moreno Ocampo) è ampiamente screditato in Africa. Fin dai suoi inizi nel 2002 l’ICC ha preso di mira soltanto leader africani e di altri paesi in via di sviluppo. Jean Ping, presidente dell’Unione Africana: “Noi africani e l’Unione Africana non siamo contro il Tribunale Penale Internazionale. Siamo contro Ocampo che amministra una giustizia con doppi standard.” l’ICC ha avuto molte occasioni per incriminare criminali di guerra occidentali (Bush, Blair, Cheney), ma ovviamente non lo ha mai fatto.
Prima di co-fondare Res Publica, Perriello è stato Consulente Speciale del Procuratore del Tribunale Speciale per la Sierra Leone, un tribunale delle Nazioni Unite, e ha avuto un incarico di insegnamento in Africa Occidentale presso la Yale Law School/Open Society Institute. Perriello è membro dell’Ordine degli avvocati dello Stato di New York.
L’organizzazione di Perriello fondata nel 2005 “Catholics in Alliance for the Common Good” (CACG) dichiarava che il concetto di “bene comune” avrebbe avuto origine dal Center for American Progress, fondato dal co.presidente dalla squadra di transizione del presidente Obama John Podesta, che successivamente ha contribuito a formare alleanze tra CACG ed organizzazioni simili. A presiedere questa organizzazione è Elizabeth Frawley Bagley: “Bagley fa parte dello studio legale Manatt, Phelps & Phillips. Fa anche parte del Foreign Relations ed il U.S. Advisory Commission on Public Diplomacy. Tra 1997–2001 ha servito come consigliere anzianodel segretario di stato.” Nella lista di consulenti di CACG si trovano i collaboratori di Clinton Paul Begala e John Podesta e l’ex addetto stampa di Clinton Mike McCurry.
Perriello ha lavorato per il Dipartimento di Stato USA, e come consulente per l’International Centre for Transitional Justice, altre al National Council of Churches of Christ. Perriello è stato analista per Afghanistan Watch, e consulente speciale/portavoce ed analista di sicurezza nazionale per The Century Foundation nel quale è “Fellow.” Il link di Afghanistan Watch reindirizza adesso a The Century Foundation. Prima della laurea in legge, Perriello ha lavorato come Vice Direttore del Center for a Sustainable Economy (oggi inglobato a “Redefining Progress“) e come consulente per le campagne giovanili ed ambientali.
Perriello ha lavorato come consulente indipendente per la sicurezza nazionale in Afghanistan del sud. Nel 2005 e nel 2007 ha trascorso del tempo a valutare “la rinascita dei Talebani e le strategie (soprattutto politiche) per ripristinare il controllo.” Perriello ha svolto ricerche in sette province diverse e ha gestito una squadra di 60 operatori in tutto il paese. Sotto gli auspici della sua stessa organizzazione (Res Publica) ed altre, Perriello dava istruzioni ad ambasciatori di stanza a Kabul, capi missione dell’ONU e varie agenzie dell’amministrazione Bush. Forniva inoltre resoconti di base ai media, a rappresentanti americani e vari think tank come il Center for American Progress, del quale è oggi CEO e presidente. Ha anche collaborato ad iniziative di sicurezza nazionale in Sierra Leone (United Nations Special Court), Liberia, Kosovo, e Darfur. Perriello ha lavorato come cooperante umanitario e consulente di sicurezza nazionale, e siede nel consiglio di amministrazione di Namati.
Perriello ha una relazione di lunga data con Human Rights Watch e l’International Crisis Group, sponsorizzati dall’Open Society di Soros, che continua tutt’oggi. Anche Amnesty International è finanziato dall’Open Society Institute di Soros. Tutte queste organizzazioni sono state strumentali nel preparare il terreno all’ivasione straniera in Libia ed oggi in Siria.
Estratti dall’articolo “International Crisis Group Sweating over Syria,” pubblicato Land Destroyer Report il 3 maggio 2011:
“L’International Crisis Group (ICG) è stato fin dagli inizi al centro della ‘Primavera Araba’ in corso. Mohamed ElBaradei, membro del consiglio di amministrazione di ICG, guidava la rivoluzione colorata praticamente dalle strade del Cairo insieme al suo subalterno, il dirigente di Google Wael Ghonim. L’ICG ha anche recentemente lanciato un appello, ascoltato, per un intervento in Costa d’Avorio.
Dell’ICG fanno parte George Soros e Zbigniew Brzezinski, due uomini che si sono macchiati per le loro ingerenze extraterritoriali e per aver fomentato rivoluzioni colorate nei posti più remoti. Per capire perché sono sempre pronti a ficcare il naso in paesi sovrani, saccheggiarli, abbatterli e ricostruirli, basta dare un’occhiata alla lista di sponsor di ICG. Fra questi troviamo organizzazioni ignobili come Chevron, Morgan Stanley, e Deutsche Bank Group, con scopi ugualmente ignobili che si possono tranquillamente esplicitare nelle nefaste priorità di ICG.”
L’International Crisis Group (ICG) è stato fondato nel 1995 dal Vice-Presidente della Banca Mondiale Mark Malloch Brown, l’ex diplomatico americano Morton Abramowitz and Fred Cuny, specialista in soccorsi internazionali in caso di calamità scomparso in Cecenia nel 1995. Il Crisis Group raccogle fondi principalmente da governi, fondazioni, aziende e finanziatori occidentali. Nel 2006 il 40% dei finanziamenti proveniva da 22 governi, il 32% da 15 organizzazioni di “beneficenza”, ed il 28% da individui e fondazioni private. Soros, che presiede l’Open Society Institute, fa parte del consiglio di amministrazione. Il comitato consultivo dell’ICG include società come Chevron e Shell.[Fonte] Il Consiglio di Amministrazione, Comitato Esecutivo ed i Consiglieri Anziani del Crisis Group sembrano il Gotha delle élite politiche e del cartello bancario. Del comitato esecutivo di ICG fanno parte Kofi Annan, ex Segretario-Generale delle Nazioni Unite, Lawrence Summers, ex direttore del Consiglio Economico Nazionale e Segretario del Tesoro, e Javier Solana, Segretario-Generale della NATO e Ministro degli Esteri spagnolo.
Nel 2007 ICG e Human Rights Watch hanno avuto un ruolo cruciale nella creazione del Global Center for the Responsibility to Protect in collaborazione con importanti ONG, governi ed istituti accademici.
Estratti dall’articolo del 15 febbraio 2012 “‘Human Rights’ Warriors for Empire,” pubblicato da Black Agenda Report:
“Amnesty International e Human Rights Watch si danno ai bagordi con i loro compari. Questi soldati dei “diritti umani”, acquartierati nel ventre di imperi passati e presenti, con al petto le medaglie luccicanti guadagnate con il servizio di propaganda reso alle superpotenze durante l’aggressione della Libia, donano al progetto imperialista la legittimità della ‘sinistra’.
Amnesty International e Human Rights Watch hanno scelto di stare dal lato della belligeranza avallata da Washington – il la to dell’Impero. In quanto gruppi prevalentemente associati con la (sedicente) sinistra nei paesi in cui hanno sede, sono preziosissimi alleati dell’attuale offensiva imperialista....
C’è una grande ambivalenza – per dirla nel modo più gentile possibile – nei presunti progressisti in America e in Europa verso i bombardamenti NATO e l’assoggettamento della Libia. E oggi un’altra volta, di fronte alle minacce imperialiste all’esistenza di Siria e Iran, la sinistra perde tempo a discutere di diritti civili, mentre ‘la più grande macchina da guerra esistente al mondo’ si apre nuovi orizzonti di distruzione.
Un attivista pacifista che non sia anche anti-imperialista è necessariamente un controsenso. L’unica cosa che un anti-imperialista può fare nel ventre della bestia è disarmarla. Senza di ciò, è totalmente inutile.
Come si usa dire: O sei parte della soluzione – o sei parte del problema. Amnesty International e Human Rights Watch sono parte del problema.”
L’Open Society Foundation di George Soros è il principale finanziatore di Human Rights Watch, avendo contribuito $100 milioni dei $128 milioni di contributi e sovvenzioni ricevute da HRW nell’esercizio finanziario 2011.
Perriello è un fautore della “Guerra al terrorismo”, una psyop costruita ad arte che era e continua ad essere una componente essenziale per scatenare una nuova ondata di guerre, invasioni e occupazioni. Serve a far spaventare la gente, perché accetti l’autorità.
“Per quanto concerne la guerra dell’America contro il terrorismo il deputato appoggia incondizionatamente Barack Obama.” — website personale di Perriello.
La visione di Perriello su Israele ha dell’allucinante. Secondo lui Israele è la “creazione più sensazionale ed entusiasmante della comunità internazionale” del XX secolo ed esiste una relazione morale e strategica permanente tra gli USA ed Israele.”
Nel maggio 2009, 60 membri del Congresso votarono contro lo stanziamento di ulteriori $97 miliardi per le guerre in Iraq ed Afghanistan.” Perriello votò a favore.
Il 16 giugno 2009, 202 membri del congresso votarono contro quello stesso finanziamento di guerra (maggio 2009) insieme ad un imponente salvataggio dell’FMI per le banche dell’Est europeo. [Per autorizzare appropriazioni integrative e di revoca per il Dipartimento di Difesa per un totale di $80.93 miliardi tra cui $29.51 miliardi per operazioni ed interventi, inclusi $3.61 miliardi per il Fondo delle Forze di Sicurezza in Afghanistan; e $400 milioni per il Fondo Anti-sommossa in Pakistan; $25.3 miliardi in appalti; $18.73 miliardi per personale militare; $2.87 miliardi per edlizia militare; $1.12 miliardi per il Fondo comune contro gli ordigni esplosivi improvvisati; $1.06 miliardi per il programma sanitario della Difesa; $9.7 miliardi al Dipartimento di Stato, all’Agenzia Americana per lo Sviluppo Internazionale, e ad altre agenzie per spese associate all’assistenza internazionale, inclusi $4.65 miliardi di assistenza economica bilaterale, $2.97 miliardi al Fondo di Assistenza Economica; $2.18 miliardi a supporto della sicurezza internazionale, $1.29 miliardi al Programma di Finanziamento Militare Estero; $1.94 miliardi in Programmi Diplomatici e Consolari.] Perriello votò in favore di entrambi. (Votazione finale | HR 2346)
il 26 giugno 2009, Perriello votò a favore del disegno di legge Waxman-Markey, l’iniziativa che lanciò la finta soluzione del tetto per le emissioni e scambio di quote. Questo disegno di legge era fermamente contrastato da diversi gruppi di protezione ambientale, mentre grosse società sedicenti “verdi” facevano incessantemente pressione a favore In totale, sei delle maggiori società quotate in borsa nel 2009 erano a favore della legislazione “cap and trade”: JP Morgan Chase (#1), Bank of America (#2), General Electric (#3), Shell (#8), British Petroleum (#10), e Walmart (#14). Dei sei, tre erano membri dei U.S.CAP. Durante quell’anno le organizzazioni ambientali americane hanno ottenuto entrate per $1.7 miliardi. Di questi, $12.8 milioni sono stati spesi in attività lobbistiche, la maggioranza dei quali concentrati sulla legislazione “cap and trade”. [7] (Votazione finale | HR 245)
L’8 ottobre 2009 Periello ha votato in favore di un bilancio della difesa che autorizzava stanziamenti militari per $681.02 miliardi. $639.32 miliardi in stanziamenti del Dipartimento della Difesa per il bilancio 2009-2010, $24.75 miliardi in edilizia militare, $16.94 miliardi di stanziamenti per la sicurezza nazionale al Dipartimento per l’Energia, $309 milioni per ricerca e perizie, approvvigionamenti, o il dispiegamento di un sistema di difesa anti-missilistica e l’autorizzazione ad incrementare il numero di truppe in servizio attivo per l’esercito americano oltre il numero altrimenti permesso per legge, fino al valore iniziale del 2010 più 30,000 truppe, e $136.02 miliardi per il personale militare nel bilancio del 2010. (Votazione finale | HR 264)
A marzo del 2010, due tra le maggiori società “verdi”, la “League of Conservation Voters” ed il Fondo d’intervento “Environmental Defense”, hanno dato un ricevimento di raccolta fondi per la rielezione di Perriello al Congresso. MoveOn.org ha raccolto $100,000 per la campagna elettorale di Perriello.
Il presidente Barack Obama ha fatto un’apparizione nel distretto elettorale di Perriello, l’unico candidato per cui ha fato una cosa del genere. (Per di più, nonostante l’intensa campagna elettorale, Perriello non riuscì a farsi rieleggere)
Il 10 marzo 2010, 65 senatori hanno votato per porre fine all guerra in Afghanistan. Perriello votò per farla continuare.
L’8 ottobre 2009 Periello ha votato in favore di un bilancio della difesa che autorizzava stanziamenti militari. Di questi, $32.42 miliardi erano destinati al programma sanitario dell’esercito, $3.42 miliardi per veicoli anti-mina a prova d'imboscata (MRAP), $3.46 miliardi al Fondo comune contro gli ordigni esplosivi improvvisati e $71.2 milioni per il funzionamento della casa di riposo per le forze armate. (Votazione finale | HR 5136)
Il 1 luglio 2010, 100 senatori votarono per finanziare soltanto la ritirata dall’Afghanistan. Perriello votò contro questo emendamento. Anzi, Perriello era a favore di un emendamento che chiedeva al presidente di elaborare autonomamente un piano di uscita (uno qualsiasi) per l’Afghanistan. Questo emendamento non prevedeva nessuna scadenza né tantomeno alcun obbligo di esecuzione. In pratica non era altro che un artificio retorico per pacificare una popolazione che stava iniziando a destarsi alle conseguenze di un governo sempre più corporativizzato: debito alle stelle, pignoramenti, guerre per l’accaparramento delle risorse e corruzione – ad un livello mai raggiunto prima nella storia del paese, mentre i ricchi si arricchivano sempre più. Quindi Perriello ha votato a favore così come per il cosiddetto “Piano di responsabilità per terminare la guerra in Iraq” – un piano ancora meno efficace del trattato concluso da George Bush. (Votazione finale | HR 4899)
Il 27 luglio 2010 Perriello si è opposto al ritiro delle forze armate americane dal Pakistan. (Votazione finale | H Con Res 301)
Il 27 luglio 2010, 115 senatori (12 repubblicani e 103 democratici) votarono contro un disegno di legge supplementare che lo stanziamento di $33.29 miliardi di dollari per un’escalation della guerra in Afghanistan. Tom Perriello votò invece a favore. Quando un gruppetto di cittadini incontrò Perriello prima del voto, Perriello si rifiutò di rivelare la suo opinione in proposito (sempre che ne avesse una).(Votazione finale | HR 489)
Il 30 luglio 2010, Perriello votò contro i “Regolamenti per le trivellazioni offshore ed altri emendamenti legislativi energetici” (Votazione finale | HR 3534) e votò a favore della fine di una “Moratoria sui requisiti di sicurezza delle piattaforme petrolifere in alto mare” (Votazione finale | H Amdt 773).
Il 6 ottobre 2010, Perriello ha ricevuto l’appoggio dei Veterani di guerre estere per la sua candidatura come riconoscimento del “pieno supporto ai veterani, alla sicurezza e difesa nazionale, e alle questioni di interesse del personale militare.”
Il 29 ottobre 2010, “War Is A Crime” riportava: “136 membri del Congresso hanno sottoscritto una lettera impegnandosi a non tagliare la copertura sociale. Perriello no.”
Eppure, nonostante queste posizioni in favore della guerra, la sinistra liberale e i loro media cosiddetti “progressisti” continuavano a puntare i riflettori su Perriello e a dipingerlo come un progressista modello.
Così come la guerra che è pace nella visione di Orwell, le superstar della sinistra liberale tenevano comportamenti sempre più “di destra” mentre i sinistri professionisti continuavano a dipingerli come “progressisti,” Ma questo scenario in rapido mutamento non ha zittito tutti. David Swanson, fondatore di warisacrime.org scrive:
“Siamo contrari? Beh, alcuni di noi lo erano. Quando il nostro deputato era un Repubblicano, denunciavamo nei media questa linea di condotta, telefonavamo al suo ufficio, organizzavamo contestazioni nel suo ufficio, e siamo anche finiti in galera per aver presidiato il suo ufficio. Ma durante lo scorso anno e mezzo, mentre sia il bilancio militare che quello di guerra sono aumentati, non abbiamo detto quasi nulla. Un piccolo gruppo di noi abbiamo organizzato delle proteste presso l’ufficio del nuovo deputato Democratico, ma siamo i soli a farlo. Per due volte abbiamo passato un tempo considerevole nel suo ufficio, e credo che il telefono abbia suonato non più di due volte. Nessuno lo chiama. E chiunque non lo chiami sta tacitamente avallando il massacro di esseri umani, persone straordinarie e speciali.
Il 15 dicembre 2011, il Center for American Progress ha annunciato nuovi ruoli di primi piano per il suo ramo di propaganda politica. L’ex-deputato Tom Perriello (D-VA) è stato nominato Presidente e CEO di CAP Action e Consulente politico presso CAP.
Nel numero dell’inverno 2012 del Democracy Journal, Perriello scrive grottesco e delirante articolo intitolato: “L’intervento umanitario: Capire quando, e perché, può funzionare”:
“L’uso della forza comporta sempre gravi pericoli e costi umani, e soprattutto dopo la guerra in Vietnam i progressisti sono stato contrari ad usarle, anche per prevenire o porre fine ad atrocità di massa, repressioni, e sistematiche sofferenze umane. Un leader saggio resterà sempre cauto nei confronti della guerra. Ma la saggezza implica anche il riconoscimento di due radicali cambiamenti nella capacità di utilizzare la forza a scopo di bene. Innanzi tutto, nell’arco dell’ultima generazione, la capacità di intervenire senza perdite pesanti si è notevolmente accresciuta. Inoltre, il ventaglio di strumenti diplomatici e legali per legittimare questi interventi si è estesa altrettanto....
Gli sviluppi operativi dalla fine della Guerra fredda hanno decisamente migliorato la capacità di condurre operazioni militari intelligenti, limitate nel tempo e nello scopo e con l’utilizzo di forza precisa e schiacciante. Ciò offre ai progressisti un’opportunità – che però troppo spesso è vista come una disgrazia – di allargare l’uso della forza per difendere i nostri valori...."
Sebbene il Consiglio di Sicurezza ONU rimanga il punto di riferimento più formale per la legittimità internazionale, molti paesi lo considerano meno rappresentativo di organismi regionali e meno reattivo di quanto a volte le situazioni richiedano. Oggi gli Stati Uniti dispongono di una vasta gamma di opzioni per legittimare l’uso della forza militare per questioni umanitarie.
Dopo aver sottolineato il “successo” ottenuto in Libia, Perriello continua dicendo:
“Oggi, morto Gheddafi, il popolo libico dispone della prima chance in decenni per un governo democratico e rappresentativo…. Non ci sono state vittime americane. Gli insorti e la stragrande maggioranza della popolazione hanno salutato questa vittoria come una liberazione, ed anche coraggiosi siriani, che subiscono quotidianamente minacce di morte per la loro opposizione ad un regime oppressivo, hanno acquisito speranze dalla caduta di Gheddafi. Questi risultati non sono casa da poco per chi ci tiene alla dignità umana, alla democrazia e alla stabilità....
I progressisti spesso ci chiedono di fare qualcosa di fronte alla miseria e alla sofferenza umana, ma la storia recente ci insegna che in certi casi condanne morali, sanzioni economiche o tribunali ex-post non bastano a salvare vite. Solo la forza può aiutare.”
Per concludere, Perriello dichiara:
“Dobbiamo tener presente che l’uso della forza è solo una delle componenti di una coerente strategia di sicurezza nazionale e di politica estera. Dobbiamo essere consci della realtà – a prescindere dall’accettazione o meno dei suoi meriti – che altri paesi saranno più inclini a percepire i nostri motivi come egoistici piuttosto che basati su dei valori. Ma in un mondo in cui esistono vergognose nefandezze e gravi minacce, e dove il Kossovo e la Libia ci hanno mostrato ciò che è oggi possibile, l’impiego di questo potere di prossima generazione può essere visto come un’opportunità storicamente unica di ridurre le sofferenze umane.”
Non fatevi illusioni – è questa l’ideologia che guida Avaaz.org.
Nel dicembre 2011, Perriello ha rivelato di aver servito come consigliere speciale del Procuratore Internazionale per i Crimini di Guerra ed ha passato gran parte del 2011 in Egitto ed in Medio Oriente per svolgere ricerche sulle Primavere Arabe. Pertanto, già sulla base di questa rivelazione, non c’è dubbio che la precisa strategia promossa da Avaaz non può essere basata su qualsiasi genere di ignoranza o ingenuità.
Un evento privato del 12 gennaio 2012 intitolato “Reframing U.S. Strategy in a Turbulent World: American Spring?” ospitava relatori come Charles Kupchan del Council on Foreign Relations, Rosa Brooks della New America Foundation, e niente meno che Tom Perriello, CEO del Center for American Progress Action Fund. Perriello ha ulteriormente portato avanti la sua “ideologia” in questo discorso.
L’indottrinamento dei giovani è cruciale
Il 18 gennaio 2012, Perriello, in qualità di direttore delle campagne del Center for American Progress, presentava insieme a Mark Schneider, vice presidente senior dell’International Crisis Group e a Maria McFarland, vice direttore dell’ufficio di Washington di Human Rights Watch, una conferenza intitolata: “La ‘Responsabilità di proteggere’ dopo la Primavera Araba: Un dibattito” alla Georgetown University di Washington, DC con la seguente sinopsi: “Le risposte repressive dei governi alle sollevazioni sociali in Medio Oriente ed in Nord Africa hanno innescato un passaggio negli approcci internazionali verso la protezione dei civili e la prevenzione di atrocità di massa. La dottrina ormai matura di alcuni decenni della ‘responsabilità di proteggere’ ha avuto un ruolo centrale nelle reazioni internazionali a regimi repressivi. Tuttavia, tra i magri successi dell’intervento NATO in Libia e le flebili risposte della comunità internazionale alla violenza in corso in Siria, il futuro del R2P resta incerto.”
In questo video Perriello si presenta ai giovani impegnati in un’organizzazione di addestramento chiamata “e-mediat Jordan” i quali, dichiara Perriello, sono pronti a fare “sacrifici per il loro paese.” Perriello è elencato come direttore: “Direttore Regionale E-Mediat Jordan – Onorevole Tom Perriello.” Si tratta di un’organizzazione sita in Giordania, in Medio Oriente e confinante con Siria, Arabia Saudita, Mar Rosso, Palestina, Israele, e Iraq. La ONG si auto-definisce un centro di “Strumenti, Tecnologia e Addestramento”. L’addestramento dei giovani è diventato essenziale per far avanzare il progetto imperialista. A ben guardare, i giovani sono gli agnelli sacrificali delle classi dominanti nel 21o secolo.
Perriello sicuramente crede al mito dell’eccezionalità americana. Il suo punto di vista patriottico è rafforzato da persone che la pensavano come lui nell’amministrazione Bush, nell’amministrazione Obama, e dalla miriade di organizzazioni che “comprendono” la “necessità” di espandere l’idea americana di “democrazia e “prosperità economica” ovunque nel mondo. E quanto più le amministrazioni imperialistiche, il complesso industriale non-profit e i media corporativi spingono questi miti, tanto più i diritti civili in America vengono erosi.
Riferimenti bibliografici
[1] Fonte: http://www.wiserearth.org/group/AvaazDotOrg. Informazioni raccolte/create il 7 aprile 2010 ed aggiornate il 9 febbraio 2012.
[2] “Finanziamento dell’Independent Media Institute: i fondi per AlterNet provengono da fondazioni private, pubblicità sul sito, e contributi individuali.” “Molti nostri finanziatori preferiscono restare anonimi”
[3] Fonte: http://www.avaaz.org/en/report_back_2
[4] Fonte: http://www.anmag.org/issues/25/02/250207.php
[5] “Con le organizzazioni partner di ONE, Avaaz.org, Jubilee U.S.A ed Oxfam International, oltre 415,000 firme in tutto saranno consegnate domani al Ministro delle Finanze canadese Jim Flaherty, che questa settimana ospiterà il meeting G7 dei ministri delle finanze.” http://www.one.org/c/us/pressrelease/3242/
[6] Nel rapporto annuale di MoveOn per il 2008-09, il numero totale di finanziatori individuali (non membri, dato che lo status di membro è automaticamente stabilito quando si “clicca” su una petizione) era di 17,295.
[7] http://climateshiftproject.org/report/climate-shift-clear-vision-for-the-next-decade-of-public-debate/#convergence-on-cap-and-trade