04/03/22

Fermarsi davanti al precipizio




Il pubblicista e ricercatore indipendente Tanner Greer, collaboratore di Foreign Policy,  sul suo sito The Scholar's Stage, offre interessanti spunti di riflessione sul processo decisionale nella politica estera occidentale degli ultimi decenni, che gli appare come guidato più da imperativi moralistici che da lucide e dettagliate riflessioni razionali. Anche negli ultimi precipitosi eventi in Ucraina le decisioni politiche dell'Occidente sembrano più informate a giudizi di valore e al bisogno impellente di "fare qualcosa" che ad una attenta valutazione delle conseguenze delle proprie scelte. Certamente questo aspetto morale e valoriale delle decisioni politiche è e dovrebbe essere sempre presente. Il problema si pone - come pare in questo caso - quando ci si costruisce degli imperativi morali senza mantenere solide basi di realtà.
Grazie a @BuffagniRoberto per la segnalazione. 


di Tanner Greer, 28 febbraio 2022


La risposta occidentale all'invasione russa arriva con violenza e rapidità. Le azioni dell'UE, delle nazioni dell'Anglosfera e del Giappone sono sia straordinarie che consequenziali: diversi stati della NATO hanno sfacciatamente dichiarato la loro intenzione di armare le forze ucraine con armi convenzionali e di precisione e persino aerei militari. Lo spazio aereo europeo è chiuso a tutti gli aerei russi. Le capitali occidentali non hanno solo annunciato sanzioni agli oligarchi del Cremlino, ma anche restrizioni alla banca centrale russa. Le istituzioni russe vengono rimosse dal sistema SWIFT. I norvegesi, con una manovra che sarà sicuramente imitata, hanno scaricato tutti gli asset russi dal loro fondo sovrano. Olaf Scholz  ha ripudiato in un discorso tutto l'ultimo decennio della politica energetica e di difesa tedesca. E ora si parla di far entrare Svezia e Finlandia nella NATO.

Nessuna di queste azioni è audace quanto l'invasione russa che le ha provocate. Sono una risposta naturale, proporzionata e persino prevedibile alla decisione di Putin di risolvere la questione dell’Ucraina attraverso la forza delle armi. Eppure è proprio alla naturalezza della nostra politica che dobbiamo stare attenti. Una reazione giusta può essere pericolosa. Gli imperativi dell'azione nascondono un'amara verità: nel campo della politica della forza sono i risultati, non le intenzioni, che contano. L'incapacità di frenare ed esaminare attentamente i presupposti e le motivazioni alla base delle nostre scelte può portare a decisioni che sul momento sembrano giuste, ma non riescono a salvaguardare i nostri interessi, a garantire i nostri valori o a ridurre il bilancio in vite umane della guerra a lungo termine.

Di fronte a una nuova crisi geopolitica, i miei pensieri si rivolgono spesso al libro di Michael Mazarr del 2019, Leap of Faith: Hubris, Negligence, and America's Greatest Foreign Policy Tragedy. Il libro di Mazarr è uno studio del processo decisionale alla base dell'invasione dell'Iraq del 2003. Per scoprire come gli Stati Uniti si siano precipitati a capofitto nella catastrofe, Mazarr ha letto tutte le memorie dell'amministrazione, ha rintracciato tutto il materiale open source disponibile sui dibattiti prebellici e ha intervistato quasi tutte le persone coinvolte, tranne lo stesso George W. Bush. Il suo libro (e altri simili, come How To Start a War di Draper o Riseof the Vulcans di Mann) fa emergere alcuni dei comuni miti sulla spinta alla guerra dell'amministrazione Bush. L'amministrazione non ha intenzionalmente ingannato la nazione per indurla alla guerra; il ragionamento motivato, non l'inganno, deformava la loro comprensione degli eventi. Il petrolio non è mai stato al centro della campagna; quando se ne è parlato, nelle discussioni del consiglio di guerra, è stato solo con il roseo presupposto che le entrate petrolifere dell'Iraq sarebbero state sufficienti a coprire i costi della ricostruzione. Contrariamente all'opinione diffusa oggi in molti ambienti, l'invasione dell'Iraq non riguardava l’esportazione della democrazia liberale in Medio Oriente. Quella giustificazione per la guerra è arrivata principalmente nel 2004 e negli anni successivi, quando la minaccia delle armi di distruzione di massa era stata smascherata come una chimera. Il liberalismo non ci ha condotto in Iraq e nemmeno ci ha fatto rimanere lì.

Forse il fatto più sorprendente dell'invasione americana dell'Iraq è che il Consiglio di sicurezza nazionale non ha mai discusso formalmente la decisione di fare la guerra. "Uno dei più grandi misteri per me", ha scritto un direttore dell'NSC (Consiglio per la sicurezza nazionale) dopo aver lasciato l'incarico, "è il momento esatto in cui la guerra in Iraq è diventata inevitabile"(1). La sua confusione è comprensibile: non c'è stato un momento, un incontro, in cui i pro e i contro dell’invasione sono stati esposti per intero. Nessuno ha mai chiesto "dovremmo veramente invadere?". Invece discutevano su questioni come "se decidiamo di invadere, cosa dobbiamo fare per prepararci?" e "Quando invadiamo, quali devono essere i nostri obiettivi?" Mazarr spiega questa curiosa mancanza di riflessione sul punto principale, come l’origine della autopersuasione che ha prodotto sia valutazioni intellettuali imperfette che richieste di azione inutilmente affrettate, come sottoprodotto di imperativi morali. Ecco come introduce questo quadro:


“…il secondo fattore che sto cercando di evidenziare: un meccanismo di giudizio intuitivo ed emergente che è guidato principalmente da imperativi, la sensazione all'interno del gruppo dirigente di una nazione in un momento specifico che una determinata scelta sia "la cosa giusta da fare", nel senso che è più una scelta moralista che una scelta razionale in modo calcolato.

La maggior parte delle concezioni su ciò che viene chiamato processo decisionale "razionale" include alcune affermazioni essenziali sui modi in cui gli esseri umani affrontano le scelte. Una persona che agisce razionalmente sta cercando di massimizzare qualche guadagno e quindi valuta varie alternative per giudicare quale di esse consentirà il maggior valore. Tale concezione è quindi prevalentemente "consequenzialista". È ossessionata dai risultati, perché solo prendendo sul serio i risultati si possono anticipare benefici e costi. Viene anche definita "strumentale", nel senso che le azioni mirano a produrre un risultato che serva gli interessi del decisore.

Ma ci sono potenti modelli alternativi per il giudizio umano, modelli che enfatizzano i valori piuttosto che le conseguenze e descrivono un’immagine di decisori che servono un imperativo o una norma piuttosto che cercare di massimizzare gli obiettivi. Uno di questi è il concetto di razionalità del valore del sociologo Max Weber. Mentre la "razionalità strumentale" si riferisce agli sforzi per anticipare i possibili risultati e calcolare il vantaggio, la razionalità del valore descrive situazioni in cui le persone prendono decisioni, non sulla base di ciò che pensano possa loro giovare maggiormente, ma per compiere la cosa giusta da fare, cioè per fare qualcosa di giusto per se stessi. Sto sostenendo che, abbastanza spesso su importanti questioni di politica estera, i leader e gli alti funzionari vengono guidati proprio da tale pensiero basato sui valori, piuttosto che da un pensiero strumentale o orientato ai risultati. Piuttosto che quella che è stata definita una logica delle conseguenze (soppesare il valore e il costo dei risultati rispetto ai propri obiettivi), impiegano una logica di appropriatezza, una forma di giudizio in cui i decisori si preoccupano di fare ciò che è giusto o appropriato, dato il loro ruolo e le circostanze.

La mentalità che ne risulta assomiglia molto a un impegno verso quelli che alcuni studiosi hanno definito "valori sacri". Questi sono distinti dagli interessi materiali per il loro aspetto moralistico; sono, "o dovrebbero essere, assoluti e inviolabili". Non possono essere soggetti a compromessi o scambiati con altri valori; sono assoluti piuttosto che strumentali e devono essere perseguiti a prescindere dalle conseguenze. Nel perseguire tali valori sacri, i decisori attribuiranno "caratteristiche molto negative” a chi viola le norme, che saranno oggetto di rabbia e disprezzo, e sostegno entusiasta "per l'applicazione di punizioni" contro coloro che dubitano della linea d'azione; "censureranno" e "ostracizzeranno" coloro che non sono d'accordo. Anche i valori sacri possono promuovere calcoli utilitaristici, ma più spesso sono “derivati ​​da regole che prevedono determinate azioni indipendentemente dai risultati attesi o dalle prospettive di successo, e si agisce in accordo con esse perché sono la cosa giusta da fare”.

Gli esempi di un tale modo di pensare sono innumerevoli nella storia della politica estera degli Stati Uniti. L'impegno americano in Vietnam si basava in parte sull'idea che i valori strategici in gioco fossero inviolabili, che combattere il comunismo nel  sud-est asiatico fosse la cosa giusta da fare. L'attacco alla Cuba di Castro alla Baia dei Porci è nato da un simile senso di obbligo; doveva essere fatto, perché Castro doveva andarsene. Più recentemente, l'impegno americano per l'allargamento della NATO ha assunto un simile sapore moralistico: non può essere abbandonato e nemmeno condizionato perché i paesi in gioco hanno il diritto di fare quella scelta. Questi e altri esempi dimostrano come le preoccupazioni che restano politiche e strategiche possano comunque assumere l'aspetto di valori sacri, e presentarsi non come la scelta migliore o più utile, ma come quella “giusta”. 

 

La chiave per il consenso morale emergente nel 2002 è stata la natura rapida e intuitiva dei giudizi di valore che informano la politica:

 

Nel processo, il carattere di questi giudizi diverge  dai calcoli a volte quasi matematici del razionalismo classico. Emergono attraverso una sorta di immaginazione intuitiva, un salto creativo per dare un senso agli eventi, piuttosto che una valutazione dei guadagni previsti e dei probabili rischi... Henry Kissinger ha chiamato questa pratica, di creazione di significato immaginativa, "congettura". "La scelta tra... le politiche non risiedeva nei 'fatti', ma nella loro interpretazione", ha scritto. Il processo decisionale di politica estera richiede la "capacità di proiettare oltre il noto". E in quest'area, "c'è davvero poco a guidare il decisore politico, tranne le sue convinzioni".

Questo è vero per una ragione preponderante: la schiacciante complessità e incertezza che circondano le principali scelte di sicurezza nazionale. Ci sono semplicemente troppe variabili in gioco, troppa non linearità, per giudicare i risultati con un qualche grado di precisione. I decisori non hanno il tipo di informazioni complete assunte dalle teorie decisionali razionali e operano invece in un ambiente di "profonda incertezza". E così i decisori cercano regole decisionali semplificate, valori chiave o imperativi che possano aprire un varco nella complessità e offrire una chiara base per la scelta.

Di fronte a situazioni così complesse, i decisori non possono leggere la verità oggettiva da una situazione: devono costruire un significato dalla loro esperienza. E il risultato è che l'interazione dei decisori senior con questioni complesse è un'impresa fondamentalmente interpretativa e di fantasia. I fatti in un mondo del genere sono come le immagini in un dipinto astratto, o la nuvola di forme su una macchia di Rorschach: ambigui e aperti a comprensioni multiple. Gli osservatori stanno creando un significato, non semplicemente leggendolo o determinandolo...

Questo meccanismo di giudizio appare ai partecipanti come razionalismo, ed essi lo percepiscono come tale.  Ci sentiamo come se stessimo considerando gli obiettivi, come se fossimo diretti all'obiettivo, come se soppesassimo varie opzioni in base a quanto contribuiscono a interessi chiaramente identificati che stiamo cercando di massimizzare. In realtà, però, ciò che stiamo facendo è interiorizzare una massa di informazioni e consentire al nostro inconscio di fare un lavoro per lo più involontario esprimendo giudizi. Il filosofo Alfred Schütz definì questo approccio "un'anticipazione della condotta futura attraverso l'immaginazione". Il giudizio è un'impresa fondamentalmente immaginativa. Emerge come una visione, un'illusione, una narrazione inventata; una convinzione, un credo, tutt'altro che un calcolo formalmente ragionato.

Un simile approccio al giudizio ci permette di vedere la decisione irachena per quello che era: una sensazione strisciante (o improvvisa e potente) che una determinata linea di condotta fosse quella giusta, basata su regole semplici o convinzioni più moralistiche o normative che analitiche. E il fatto che la decisione avesse questo carattere ci permette di comprenderne meglio molti aspetti apparentemente confusi: il linguaggio moralistico che accompagnava il processo politico, la resistenza al dissenso e il rifiuto di prendere sul serio i rischi. I giudizi intrapresi in un tale stato d'animo hanno più l'impronta della fede che del processo decisionale consequenzialista, hanno qualcosa in comune con la rivelazione più che con il calcolo. Quando le persone applicano i valori sacri, arrivano ad avere una convinzione quasi sconsiderata su quello che stanno facendo. È giusto - sembra loro giusto, dal profondo del loro ben affinato giudizio intuitivo - e gli argomenti pratici hanno poco spazio in un tale processo di pensiero.

George Ball, il famoso dissidente sulle decisioni di escalation degli Stati Uniti in Vietnam, ha scritto del fatto che le argomentazioni analitiche semplicemente rimbalzavano su persone che credevano di "dovere" fare qualcosa. “Con mio sgomento”, ha scritto a proposito delle reazioni alle sue previsioni sul destino fallimentare della strategia statunitense in Vietnam, “non ho trovato nessuna simpatia per questi punti di vista. Sia McNamara che Gilpatric sembravano preoccupati dell'unica domanda: come possono gli Stati Uniti impedire che il Vietnam del Sud sia conquistato dai vietcong? Cosa proporre per evitarlo? La ”teoria del domino" era un'onnipresenza minacciosa. “Le dichiarazioni ufficiali sull'impegno degli Stati Uniti nel Vietnam del Sud”, prosegue Ball, "avevano il suono e la solennità di un giuramento religioso: 'Ora prendiamo la decisione di impegnarci nell'obiettivo di prevenire la caduta del Vietnam del Sud a causa del comunismo". La solennità di un giuramento religioso: è esattamente questo il modo, credo, di comprendere le convinzioni esplose dopo l'11 settembre.

 

Questo è uno schema potente per comprendere le crisi di politica estera. Il catastrofico errore di valutazione si basa sulla convergenza di due elementi: un senso emergente che esiste un imperativo morale ad agire, associato ad una rottura dei processi decisionali formali che costringono i responsabili politici a valutare attentamente le potenziali conseguenze delle loro decisioni. La combinazione di questi due elementi crea un "modello di errore di valutazione" che cambia il modo in cui i funzionari "valutano i costi e i benefici" delle loro decisioni, poiché passano da un approccio di "analisi dettagliata" ad "un impegno morale ad agire, quasi indipendentemente dalle conseguenze.” 

Il primo elemento della diade è inevitabile. La richiesta di "fare qualcosa" è la conseguenza di forti emozioni di pericolo e indignazione, siano esse emozioni provocate da un attacco terroristico nel cuore dell'America o da un'invasione nelle terre di confine dell'Europa. Il sistema di "interazione tra agenzie diverse" è stato in parte progettato con questa inevitabilità in mente. Quando funziona correttamente, porta i funzionari a confrontarsi con i propri presupposti ed emozioni. Ma il sistema non è infallibile. Per l'amministrazione Bush il difetto di intuizione era il prodotto di una squadra di sicurezza nazionale disfunzionale; l'acume burocratico e i conflitti interpersonali dei suoi massimi funzionari hanno distrutto tutte le linee guida procedurali che avrebbero potuto riportare l'amministrazione alla realtà. Subiamo ancora le conseguenze di quell'implosione procedurale.

Oggi il pericolo è diverso. Ci avviciniamo alla quinta alba di una guerra in rapida evoluzione; i decisori sono determinati a rispondere ad un evento che non si è ancora concluso. Questa fretta di agire mentre l'azione è ancora possibile significa che tutto il proceduralismo lento sarà necessariamente sospeso. Nei giorni a venire coloro che sono in posizioni elevate saranno costretti a fare affidamento su giudizi sbrigativi e risposte emotive che guideranno le loro decisioni.

Alcune realtà di terra rendono questo pericolo più urgente. Come mostra il drammatico capovolgimento politico a Berlino, questa guerra ribalta i vecchi presupposti che guidavano la politica estera in tutto il continente. Quali nuove ipotesi dovrebbero guidarci in futuro non è ancora stato chiarito. L'invasione dell'Ucraina è stata una violazione delle norme morali su cui si basa l'ordine europeo. Lo shock cognitivo e l'indignazione morale che proviamo sono approfonditi dalla relativa inutilità della nostra posizione. Se non si vuole correre il rischio di un'escalation nucleare, la capacità della NATO di prevenire la sconfitta ucraina è limitata. È una posizione umiliante per i più potenti statisti del mondo occidentale. Chiunque, costretto in tali circostanze, si sentirà obbligato a trovare un modo per riaffermare la sua azione. Le nostre emozioni ci richiederanno di fare qualcosa, se non altro per dimostrare a noi stessi che abbiamo ancora la capacità di agire.

Questo tipo di determinazione morale non è intrinsecamente negativa. È l'unica fonte di audacia o di  forza. Ma la nostra audacia deve accordarsi con i risultati che desideriamo! Molte delle politiche menzionate nel primo paragrafo di questa missiva hanno conseguenze che dureranno a lungo dopo la fine di questa guerra. Abbiamo davvero pensato a quali potrebbero essere?

Distruggiamo l'economia russa perché pensiamo seriamente che così facendo spodesteremo Putin, invertiremo la marcia del suo esercito in Ucraina o lo dissuaderemo da un simile ricorso alle armi in futuro? O lo facciamo perché dobbiamo fare qualcosa e la coercizione economica è l'unico strumento a nostra disposizione?

Abbiamo valutato gli effetti strategici della rimozione dei russi da SWIFT con la probabile creazione di un sistema SWIFT parallelo su cui avremo meno influenza?

Come avrebbe reagito l'America se i russi avessero armato apertamente e sfacciatamente gli insorti in Iraq e in Afghanistan? Questo genere di cose non ha precedenti nella storia delle relazioni russo-americane... ma ha delle conseguenze. Quale pensiamo potrebbe essere la risposta russa?

Si può fare una difesa convincente per ognuna di queste misure. È del tutto possibile che tutte, combinate con le altre opzioni attualmente in discussione nelle capitali occidentali, smorzeranno con successo l'aggressione russa, rafforzeranno la difesa a lungo termine della NATO o dissuaderanno paesi come la Cina dal ripetere la strategia russa in luoghi come Taiwan. È possibile. Eppure gli eventi stanno scorrendo veloci. Lo sviluppo vertiginoso di queste politiche non suggerisce una campagna di pressione attentamente calcolata, quanto un tentativo affrettato di soddisfare le richieste dei nostri stessi imperativi morali.

La logica dell'imperativo ha già portato l'Occidente al disastro. Dobbiamo essere vigili per non fare ancora una volta un salto nella catastrofe.

 

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