Una lucida sintesi sulle cause che hanno fatto dell'euro uno snodo cruciale dell'ondata liberista, nella postfazione di Alberto Bagnai a Europa Kaputt (di imminente pubblicazione) di A. M. Rinaldi: due vocidall'Italia da diffondere ...
(e dopo la postfazione arriva anche la prefazione, che trovate qui)
(e dopo la postfazione arriva anche la prefazione, che trovate qui)
Accolgo con piacere l’invito dell’amico e collega Antonio
Rinaldi a tirare le fila del discorso. Compito non semplice, data la
complessità e la varietà dei temi sollevati dal suo testo, che, pur essendo
agile, affronta comunque il tema della crisi sotto una varietà di
sfaccettature, tutte ugualmente rilevanti: l’aspetto tecnico-economico, quello
storico, quello politico, quello sociologico.
Nel farlo porterò all’attenzione del
lettore gli aspetti che ho trovato più significativi nel mio percorso di
lettura, necessariamente individuale e soggettivo. Sarebbe molto difficile
immaginare due studiosi dal percorso tanto diverso quanto il mio e quello di
Antonio: lui proveniente, dopo una solida formazione, da un percorso di
responsabilità ai vertici di importanti aziende, dove ha svolto un’attività
operativa che l’ha avvicinato a quella classe dirigente italiana che dipinge in
modo piuttosto disincantato (e dobbiamo pensare che lo faccia a ragion veduta);
io, invece, proveniente da un percorso di ricerca accademica, totale outsider, distante dai palazzi del potere e
dalle dinamiche politiche italiane, interessato per anni allo studio delle
economie emergenti.
Eppure, due persone così diverse si sono trovate in prima
fila sui media italiani nel dibattito sulla crisi, perché accomunate da due
motivazioni profonde: il rispetto verso gli insegnamenti dei nostri maestri
(Paolo Savona nel suo caso, Francesco Carlucci nel mio), fra i pochi economisti
italiani ad aver osato esprimere tempestive posizioni di critica verso la
follia dell’euro; e la preoccupazione verso i nostri figli, ai quali avremmo
voluto, per usare le belle parole di Antonio, “riconsegnare il nostro paese
come lo abbiamo ricevuto”. Ma da tecnici, entrambi, con grande amarezza,
sappiamo già che questo non sarà possibile, quale che sia lo scenario che si venga
a materializzare: il piano A, B o D, per usare l’efficace categorizzazione
proposta da Antonio. I danni sono fatti, e trascendono ormai ampiamente la
dimensione economica.
È ormai lo stesso processo di integrazione culturale,
sociale e politica europea a conoscere una grave e forse irreversibile battuta
di arresto, le cui cause erano ampiamente note agli economisti: già Nicholas
Kaldor nel 1971, e poi Dominick Salvatore nel 1997, con tanti altri ricordati
nel testo, avevano denunciato il fatto che far precedere all’unione politica
l’unione monetaria avrebbe compromesso la prima, senza assicurare il successo
della seconda. I motivi sono ormai chiari a tutti e ben riassunti da Antonio
nel terzo capitolo di questo libro (L’Euro
non è una moneta): la mancanza di un prestatore di ultima istanza credibile,
cioè sorretto da un’unitaria volontà politica, per i governi dell’Eurozona,
trasforma anche attività normalmente prive di rischio, come i titoli del debito
pubblico, in attività soggette al rischio paese, alimentando lo spread, quel
fenomeno perverso in virtù del quale in caso di crisi il denaro costa di più
dove più sarebbe necessario per rilanciare l’economia.
È difficile trasmettere ai “laici” (cioè ai non economisti) l’assoluta
e totale prevedibilità di questi esiti perversi, che la letteratura economica
aveva non solo analizzato in termini teorici da tempo, ma anche descritto in
termini empirici, avendoli riscontrati nelle tante crisi finanziarie che hanno
flagellato i paesi emergenti negli ultimi trent’anni. Ma appunto, ricorda molto
opportunamente Rinaldi nello stesso capitolo, il nodo sta qui: l’adesione
all’euro ha di fatto comportato la conversione dei debiti pubblici dei paesi
membri in una valuta estera. A titolo di esempio, per il Portogallo, oggi, indebitarsi
in euro è come per l’Argentina negli anni ’90 indebitarsi in dollari: in
entrambi i casi, il governo non ha il controllo della valuta nella quale è
definito il suo debito, e per questo elementare fatto si trova in balìa dei
mercati.
È proprio questo fatto ovvio, banale, che disvela la natura
ideologica di una scelta politica e le ragioni economiche del suo fallimento.
Il progetto “eurista”, unanimemente rivendicato o biasimato come tappa di un
percorso “europeo”, in realtà è, dal punto di vista ideologico, l’espressione
del più retrivo liberismo di stampo statunitense, della più ottusa e
integralistica fiducia nell’onnipotenza dei mercati, quella che s’identifica
nella scuola di Chicago e nel Washington Consensus. L’euro è quindi il segno
tangibile della colonizzazione culturale del continente europeo da parte di precetti
di origine americana, fieramente discussi ormai nel mondo intero, a partire dai
pragmatici Stati Uniti, sempre disposti a rimettere in discussione un modello
qualora non funzioni. Disponibilità assente a Bruxelles e all’Eurotower.
In effetti, con l’euro si è accettato di mettere i paesi in
mano ai mercati sulla base del presupposto che i mercati, cioè il settore
privato, fossero efficienti e infallibili, e che di converso il settore
pubblico andasse comunque compresso perché inefficiente. L’euro era uno snodo
essenziale di questo progetto mercatista per due ovvi motivi.
Il primo lo abbiamo già detto, ed era di natura
essenzialmente politica: perché metteva gli Stati in mano ai mercati, con
l’idea che la perdita di sovranità democratica che ciò comportava sarebbe stata
compensata da guadagni di efficienza, visto che il mercato avrebbe effettuato
un indiretto ma penetrante scrutinio dell’efficienza dell’azione pubblica. In
Italia la pillola amara della perdita di sovranità è stata fatta ingoiare anche
diffondendo sistematicamente, in un popolo già morbosamente propenso
all’esterofilia e all’autodenigrazione, l’idea che gli italiani fossero comunque
incapaci di governarsi da soli, e che i nostri governi corrotti, clientelari,
incapaci, necessitassero delle briglie del vincolo esterno e delle regole
europee. Un’idea alla base del rifiuto da parte di Guido Carli della clausola
di opting-out, come ricorda Antonio nel
primo capitolo. Uno sguardo alla realtà europea ci rivela però che corruzione,
nepotismo, incapacità, sono un male più comune di quanto non si creda, il che,
pur non essendo motivo di vanto, rende ingiustificata la percezione negativa
che il popolo italiano ha di sé. Percezione, duole dirlo, alimentata
sistematicamente dai messaggi di biasimo che la classe politica e i mezzi d’informazione
non ci lesinano, dipingendoci sistematicamente come un popolo di lazzaroni
corrotti, e mostrando già solo per questo motivo quanto distorta sia la loro
concezione dell’interesse e della dignità nazionale. È un grande pregio del
libro di Antonio il rivendicare con orgoglio la dignità dell’essere italiani, il
difendere l’onorabilità di un popolo che ha saputo risollevarsi dopo tragedie
immani e che anche nelle attuali condizioni mostra di avere una stupefacente
riserva di energie e capacità di sacrificio.
Il secondo motivo è più sottile. Qual era il razionale
economico dell’euro? Certo non la promozione del commercio! Gli stessi studi della
commissione (ad esempio il celeberrimo One
market, one money) avevano chiarito con dovizia di dettagli che l’impatto
della moneta unica sul commercio sarebbe stato minimo: un dato confermato
retrospettivamente da Volker Nitsch, e
spiegabile con l’ovvio motivo che dopo decenni di cambio fluttuante i mercati
valutari fornivano (e tuttora forniscono) efficientissimi strumenti di
copertura contro le oscillazioni dei corsi a breve (quelle alle quali sono
esposte le transazioni commerciali). L’euro serviva quindi a favorire la
circolazione dei capitali, abolendo definitivamente il rischio di cambio su
contratti a medio/lungo termine (come sono quelli di credito/debito).
Intendiamoci: questa evoluzione (la facilitazione dei movimenti
di capitale) non sarebbe stata necessariamente negativa, ma lo diventava nel
momento in cui si ignoravano due dati di fatto: i grandi divari di sviluppo fra
i paesi dell’Eurozona, e l’assenza di controlli penetranti sui mercati.
Quando il Portogallo e la Grecia sono entrati nell’Eurozona,
il reddito medio dei loro cittadini equivaleva a quello tedesco all’inizio
degli anni ’80. I paesi periferici erano di vent’anni indietro rispetto
all’economia leader, ed era chiaro che per creare un’area effettivamente
integrata avrebbero dovuto correre di più. Un processo, quello di “recupero” (catch-up), fisiologico e previsto dalla
teoria economica, che l’afflusso di capitali avrebbe dovuto facilitare. Il
punto è che, così come quando si corre è normale sudare, quando si cresce di
più è normale che vi sia un po’ più di inflazione. Se non si permette al tasso
di cambio di compensare, cedendo fisiologicamente, questo fenomeno, il paese
ingaggiato in un processo di recupero perde competitività. Succede così che i capitali
che all’inizio affluiscono per finanziare lo sviluppo, alla fine affluiscano
per finanziare i consumi, visto che i prodotti locali, per via della maggiore
inflazione, sono diventati meno convenienti. Un fenomeno che era stato
evidenziato fin dal 1957 dal premio Nobel James Meade.
A questo punto la mobilità dei capitali diventa una droga.
Le economie periferiche continuano a recuperare terreno, e il tenore di vita
dei cittadini ad aumentare, solo nella misura in cui il centro li finanzi. Chi
eroga il prestito sa che sta finanziando consumi anziché sviluppo, ma in
assenza di controlli sta bene così a tutti, nella speranza che il cerino acceso
rimanga in mano a un altro.
Ma non può durare per sempre. Quando i crediti diventano
inesigibili, e scoppia la crisi finanziaria, il meccanismo dello spread mette
rapidamente in ginocchio le economie dei paesi più deboli, distruggendo la
redditività delle imprese e rendendole facile preda di investitori esteri
desiderosi di acquisire marchi e know-how di prestigio, ambiti sui mercati
emergenti, come quelli espressi da molte piccole e medie imprese italiane.
Paradossalmente, il disporre di una valuta troppo forte espone il paese alla
svendita dei propri gioielli di famiglia. Una svendita che Antonio denuncia con
forza, individuandone correttamente l’origine nel fallimento di mercati
finanziari privati che mai hanno rinunciato a elargire cospicui benefit ai
manager che prestavano largamente, senza discernimento. Le stesse istituzioni
private e gli stessi manager che ora vengono salvati dalle tasche del
contribuente, o convertendo i loro debiti privati in debito pubblico.
La svendita quindi altro non è che il portato di una
mobilità dei capitali incontrollata, o meglio controllata a senso unico,
perché, come ricorda Antonio in questo e nel suo precedente testo (Il fallimento dell’euro?), nell’Europa
dei figli e dei figliastri i tentativi del capitale italiano di acquisire
aziende estere sono stati sempre prontamente ostacolati da una rete di
protezione degli altrui interessi nazionali.
È ormai diffusa, e sarà presto patrimonio condiviso, la
percezione che questa svendita delle nostre aziende costituisca un grave
pericolo per la nostra sopravvivenza, semplicemente perché, se e quando l’economia
italiana dovesse ripartire, buona parte dei redditi prodotti in Italia
verrebbero rimpatriati all’estero (come profitti di aziende di proprietà
estera) e quindi goduti non dai cittadini italiani, ma da quelli dei paesi ai
quali il sistema euro, come Antonio efficacemente esprime, ha facilitato lo shopping delle nostre imprese. Ma
questo, in Italia, ancora non si sente dire, se non da studiosi indipendenti
(ad esempio, Dominick Salvatore alla lezione Felice Ippolito, 24 giugno 2013,
Biblioteca della Camera dei Deputati).
Questa analisi tecnicamente ineccepibile contrasta,
ovviamente, con l’elogio acritico degli afflussi di capitali esteri fatto dai
nostri governanti e dai rappresentanti delle organizzazioni di categoria come
Confindustria. Soggetti che spesso sono contigui, quando non espressione
diretta, di quelle centrali finanziarie internazionali che dallo shopping hanno tutto da guadagnare (come
consulenti, come gestori), e che quindi sono in ovvio conflitto di interessi.
L’euro cadrà. Le affermazioni di Mario Draghi, secondo cui chi prende in considerazione questa ipotesi sottostima il capitale politico impegnato nel progetto europeo, sono futili. Un capitale politico ben più
rilevante era stato investito nell’Impero sovietico. Ma quando le leggi
dell’economia ne hanno decretato la fine, gli sforzi per prolungarne la
sopravvivenza si sono tradotti solo in un aggravio di inutili sofferenze per
popolazioni incolpevoli. Questo è lo stadio al quale siamo giunti. Ringraziamo Antonio
per questo testo che ci mette di fronte alla realtà, e ci consente di gestirla
delineando gli scenari possibili. Certo, la materia è problematica, è e sarà
oggetto di discussione. Ma nessuno potrà togliere ad Antonio, indipendentemente
dal merito specifico delle sue proposte, il merito ben più importante di aver
contribuito ad aprire un dibattito concreto, la cui assenza ha rappresentato
una grave lesione della democrazia nel nostro paese.
È atteggiamento adulto riconoscere gli errori, e l’euro è
stato un errore. Il perseverare, unica risposta che i nostri governanti e la
cosiddetta “Europa” ci forniscono, è atteggiamento puerile e suicida. Possa il
buon senso prevalere prima che la scure della storia si abbatta su una
costruzione resa antistorica, prima che antieconomica, dalla sua matrice
ideologica iniqua e sconfessata dai fatti, e prima che il nostro paese,
depauperato dall’azione poco lungimirante dei suoi governanti, perda le energie
necessarie per reagire con vitalità alle sfide che i mutati scenari gli
porranno.
È ormai diffusa, e sarà presto patrimonio condiviso, la percezione che questa svendita delle nostre aziende costituisca un grave pericolo per la nostra sopravvivenza, semplicemente perché, se e quando l’economia italiana dovesse ripartire, .....
RispondiEliminase e quando l’economia italiana dovesse ripartire,..
Se cominciano a dubitarne anche coloro che i meccanismi del giocattolo li hanno non solo capiti prima, ma pure previsti gli esiti nefasti ..beh temo che per noi non ci sia veramente più speranza.
Miseria e fercia stanno per calare su tutti noi.
I responsabili però la faranno franca?
Ed è moralmente lecito che non paghino per il disastro?
Bell'articolo, cercherò di procurarmi il libro di Rinaldi.
RispondiEliminaMa c'è una cosa che proprio non capisco: personaggi come Enrico Letta che cosa ci guadagnano a perseguire la follia dell'euro?
Si tratta forse di ambizione personale?
(in fondo, che importa ai vari Letta se l'Italia va a rotoli, quando loro hanno comunque ruoli e stipendi di primo piano?
Qualcuno potrebbe dirmi la sua opinione ed aiutarmi a capire?
mantengono la posizione di potere acquisita. la loro speranza è che la germania a un certo punto si desti e decida di tenere in vita l'eurozona accettando un'unione di trasferimenti, consentendo così di sopravvivere alla cosa, all'idea su cui tutto il centrosinistra italiano ha costruito la sua essenza politica dopo il crollo del muro: l'europa dell'euro.
Eliminahanno semplicemente sostituito l'URSS con la UE così degenerata.
è ovvio che, in caso di crollo del loro ideale principe, la loro posizione di potere ne verrebbe forse irrimediabilmente e drasticamente compromessa.
La loro potrebbe essere solo insufficienza di risorse personali, incapacità di vedersi protagonisti di un cambiamento, perché eticamente ed anche psicologicamente abituati a camminare entro i binari fissati da altri. Io non credo che per esempio un Letta abbia le risorse personali per opporsi seriamente DA STATISTA alle politiche e agli interessi della finanza europea. Semplicemente non ha le risorse di personalità e di autostima necessarie: è strutturalmente un mediocre.
EliminaMonti invece, per esempio, è un altra cosa. Lui ha il profilo del Killer.
Io magari la vedo da complottista o magari ho ragione nn so...questi signori sono pagati dalle banche o da personaggi che vogliono mantenere l'euro per sottomerci...quindi eseguono gli ordini!
Eliminadue persone perbene che dicono le cose come stanno...
RispondiEliminaEgregi Professori di economia, di microeconomia, di macroeconomia, di economia applicata...eccetera.
RispondiEliminaMA DA NOI VOI CHE COSA VORRESTE?
Che capissimo che l'euro è una truffa?
Lo abbiamo già capito.
Che avessimo la capacità di "rivendicare con orgoglio la dignità dell’essere italiani"?
Lo facciamo tutti i giorni (CON DOLORE) guardando il paesaggio e i monumenti che ci mostra la nostra finestra di casa.
Che capissimo l'attacco fascista del libero mercato rispetto alla COSTITUZIONE REPUBBLICANA?
E' il principale motivo del nostro dolore. Perché continuate a scrivere verità divenute ovvie proprio grazie ai vostri scritti?
Vorreste mica cercare di convincere i Letta i Draghi e i Napolitano?
Ci rivedremmo fra cent'anni quando loro e voi (e noi) non esisteremo più come Sato e come Nazione.
Se non avete la determinazione e il senso di responsabilità di farvi VOI CLASSE DIRIGENTE con tutto ciò che questo comporta (un'immane fatica), che senso ha che continuiate a scrivere verità per noi impraticabili?
Se i Savona, i Bagnai, i Napoleoni, i Borghi, i Zagrebelki e vedete voi chi altri volete metterci, che hanno le competenze, le idee chiare e le capacità intellettuali, e le autorevolezze, non tentano (CON RISOLUTEZZA) di innescare un processo di consapevolezza diffuso. Se queste persone "limitano la loro azione" alla critica teorica e alla pubblicistica.
Se da nessun angolo del paese si da voce organizzata alla pur diffusa opposizione sociale alle politiche di tracollo dell'economia e della democrazia imposte al paese dai partiti e dai "vincoli esterni". Mi spiegate a cosa servono i vostri libri e i vostri blog le vostre interviste, le vostre esattissime analisi?
A noi singoli, che pure esprimiamo e coltiviamo questa opposizione, resta un unica scelta di sopravvivenza: ANDARE VIA, EMIGRARE.
Cercare un altrove personale, che ci affranchi dal bisogno e dalla perdita di dignità, ma non dal dolore per ciò che poteva essere.
Questa perdita la porteremo con noi e con orgoglio. E non si farà mai nulla affinché si rimargini: Una sconfitta è una sconfitta.
Caro Tempesta 2013. La base tempi della storia non è la base tempi dell'uomo, e la società, notoriamente e' un mulo non un'automobile... Se la si spinge troppo, scalcia e disarciona chi la cavalca.
EliminaTempesta, comprendo quello che dici e mi commuove anche, però vorrei farti riflettere su una cosa. Nell'ultimo anno e mezzo circa, il clima in Italia per quel che riguarda l'informazione ha fatto dei cambiamenti incredibili. Poter solo concepire l'idea di uscire dall'euro era "impensabile", non esisteva neanche un minimo di apertura a una visione critica sui giornali, né tanto meno alla radio né alla TV...a cosa è dovuto secondo te questo cambiamento? Secondo me c'è stata un'opera gigantesca di informazione, rispettabile informazione, fatta dai prof più coraggiosi e senza peli sulla lingua, che ha sdoganato delle idee che rischiavano di essere etichettate (con il contributo attivo di qualcuno) come estremiste e pazzoidi.
RispondiEliminaPurtroppo c'è una forbice molto ampia tra i tempi fisiologici per la maturazione della coscienza del paese - quel che occorre per incidere nella politica con una nuova formazione - e i tempi di uscita dalla crisi, che sono già esauriti!
La mia speranza è che i nodi arrivino presto al pettine con la crisi di qualche paese too big too fail (noi, o la Francia), che conseguentemente il sistema dell'euro esploda, e con esso il partito cosiddetto "de sinistra" che l'ha sempre sostenuto. A quel punto, nel crollo, si farà lo spazio per una nuova formazione, che a quel punto sarà già semiorganizzata, avrà pasturato le coscienze (scusami il termine da pescatore) e avrà anche delle persone in gamba in grado di presentarsi al paese.
Non so se questi professori ci saranno, lo spero, perché ci vuole gente molto decisa.
Ho l'intuizione che partire prima sia inutile e rischi di bruciare delle persone e delle possibilità e che l'unica cosa da fare adesso sia resistere e fare buona informazione. Ma per certo non lo so, ovviamente.
Io posso esprimere la mia opinione che forse è quello che voleva dire tempesta...signori dopo la delusione del 5 stelle (almeno per me è stata una piccola delusione) abbiamo bisogno di persone preparate e con la buona dialettica che hanno questi signori e ne abbiamo molti altri...abbiamo bisogno di una forza politica un agglomerato di professori che sanno quello che dicono che si buttino in "politica" e noi da sotto dovremmo dargli forza sosteglio e partecipazione...forse solo così potremmo mai risolvere il problema!
EliminaPreciso una cosa che ritengo importante: ho grande stima e riconoscenza personale per quanti (professori, giuristi ed altri) in questi anni hanno fatto e continuano a fare informazione, alcuni in maniera veramente defatigante… questo è un assunto, per me, fuori discussione!
EliminaNon mi sento invece, di condividere la tua speranza. Temo che il potere costituito sia troppo pervasivo, troppo determinato per esercitare la sola arma della speranza.
Credo che senza punti di riferimento nuovi, "l'esplosione" rischi di trasformarsi in ulteriore sudditanza.
Puntiamo sulla speranza, sulla implosione dall’interno dell’euro? E se questa “strategia” dovesse risultare inadeguata?
Non sarà il caso, nel frattempo, di avviare (come si è fatto con i temi della macroeconomia), un serio confronto in rete e fuori rete sulla necessità per il paese, di una nuova espressione della politica, la cui assenza è (ormai), un emergenza nell'emergenza?
Caro tempesta, la speranza non è una strategia o un'arma, è solo l'aspettativa che le cose vadano nell'unica maniera che mi pare, allo stato attuale, possa offrire una reale chance di salvezza al paese.
RispondiEliminaPoi, ripeto...
Grazie per le risposte... al prossimo post.
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