04/06/12

Perché l'Unione Fiscale e di Bilancio non Funzionerebbe

Man mano che mi inoltro nelle letture consigliate, mi risulta sempre più chiaro il motivo per cui la crisi dell'euro non può essere risolta  con un'unione fiscale o di bilancio, come sembra cominciare a pensare generosamente la Germania, dopo che le sue esportazioni verso l'eurozona hanno iniziato il movimento discendente.
Per capirlo meglio, può essere utile ripercorrere un po' di storia del nostro controverso rapporto con l'area del marco. 

Johann Friedrich Overbeck, Italia und Germania. 1828. München, Neue Pinakothek.

Il Serpentone 
Nel 1973 l'Italia aderì al primo tentativo fatto in Europa di integrazione monetaria denominato "serpente monetario", dove i paesi aderenti si impegnavano a mantenere le proprie valute ancorate al marco entro una banda di oscillazione, e insieme fluttuare nei confronti del dollaro.
Le autorità di governo allora si accorsero abbastanza presto che la creazione di un sistema di cambi fissi tra economie non perfettamente integrate può fortemente danneggiare alcune delle economie avvantaggiandone altre, e che l'Italia non era in grado di migliorare nel breve periodo le debolezze strutturali della sua economia per adeguarne la competitività a quella dei partners più forti, quindi per evitare di mandare il paese in stagnazione, decisero velocemente di uscire dal serpente.



Le Svalutazioni Competitive
La Flessibilità del Cambio

Dopo l'uscita dal serpente, la lira e il dollaro in pochi anni (dal '73 al '79) riaggiustarono il loro prezzo relativo di oltre il 40% , e col marco Tedesco di oltre il 100%. Nel contempo, l'economia Italiana cresceva di circa il 5% all'anno, con un'inflazione annua media del 15%. L'inflazione aumentò soprattutto in seguito all'aumento drastico del prezzo del petrolio, e alla spirale prezzi salari favorita dal meccanismo della scala mobile, ma è vero anche che la svalutazione della lira comportava una certa dose di inflazione importata, a causa del minor prezzo della lira in rapporto al dollaro e del maggior costo del petrolio che già aumentava per conto suo.
Molti economisti allora  circolo vizioso svalutazione/inflazione, nel quale la svalutazione della lira faceva aumentare l'inflazione interna a causa del , e l'inflazione deteriorava di nuovo la situazione della competitività, cosicché le autorità di governo deprezzavano ulteriormente la valuta Italiana.


La Politica del Cambio Forte

Nel 1979 l'Italia aderì al Sistema Monetario Europeo (Sme), il secondo tentativo di creare una zona di stabilità dei cambi nel continente Europeo di allora, esclusa la Gran Bretagna (che aderì solo nel 1990), tra i sei paesi fondatori, più Irlanda e Danimarca.
    L'accordo legava le monete Europee in rapporti di cambio fissi, ma aggiustabili - con margini di oscillazione del + o – 2,25% rispetto alla parità centrale, e possibilità di riallineamento (svalutazione o rivalutazione) nelle situazioni di persistenti pressioni sul cambio. La lira, a causa della sua maggiore debolezza, adottò una banda più larga, del 6% sopra e sotto la parità.
    Nel periodo iniziale, sino a circa il 1983, ci furono parecchi riallineamenti, poi dal 1987 si giunse a cambi "irrevocabilmente fissi", su pressione dei paesi dell'area del marco che volevano evitare di vedere diminuita la loro  competitività a causa dei  riallineamenti dei paesi a più alta inflazione.
I paesi a più alta inflazione, d'altra parte, accettarono i cambi irrevocabilmente fissi, considerandola come una terapia shock attraverso la quale introdurre un vincolo esterno (il cambio fisso) capace di costringere le loro economie a una maggiore disciplina salariale e fiscale, e così fare pressione sui sindacati per moderare i salari, e sul governo per ridurre i deficit del bilancio pubblico e le politiche fiscali espansive.

Sicuramente nel breve e medio periodo questa scelta non ottenne nemmeno i risultati desiderati, oltre a provocare forti deficit commerciali.
Si verificarono infatti forti deficit commerciali nei paesi a più alta inflazione, e forti surplus nell'area del marco. Per mantenere il cambio fisso i paesi deficitari furono costretti a tenere alti i tassi di interesse per compensare la bilancia dei pagamenti con afflussi di capitali, ma il conseguente aumento del debito estero peggiorava ulteriormente le partite correnti dal lato dei redditi da capitale in uscita. Senza considerare che gli alti interessi portarono a un declino costante nella crescita del PIL, e a un'esplosione del debito pubblico a causa degli elevati oneri per servire il debito.
L'attacco speculativo contro la lira del settembre 1992 - che costrinse la lira a svalutare e ad uscire dallo SME - avvenne dunque in una fase in cui l'economia Italiana era già allo stremo, con un'inflazione che era il triplo di quella Tedesca e un cambio insostenibile.


La svalutazione del '92 tuttavia non portò inflazione in Italia. Anzi, l'inflazione diminuì rispetto al periodo precedente, l'Italia riequilibrò i conti con l'estero grazie alla ritrovata competitività, e il PIL riprese a crescere.


L'Euro

Nel 1992 era stato firmato il Trattato di Maastricht, che prevedeva l'istituzione dell'Unione Monetaria in tre tappe. La transizione all'ultima fase, nella quale i paesi aderenti avrebbero condiviso la moneta comune, l'euro, sarebbe iniziata nel 1999 ed era condizionata al rispetto di cinque criteri economici. I primi due riguardavano la situazione delle finanze pubbliche: il deficit annuale del bilancio dello Stato non doveva superare il 3% del PIL, e il totale del debito pubblico non doveva superare il 60% del PIL, oppure almeno essere avviato verso un deciso risanamento.
Gli altri criteri riguardavano il tasso di inflazione e il tasso di interesse, che dovevano convergere verso i livelli minimi dei paesi più forti, con un massimo di scostamento ammesso, e la stabilità del tasso di cambio nei due anni precedenti.

Dimentichi dei precedenti fallimenti, e forse pensando che questa volta l'Italia ce l'avrebbe fatta - forza dell'illusione - le autorità di governo trascurarono di verificare se la struttura produttiva Italiana avesse raggiunto lo stesso grado di sviluppo di quella dei paesi Europei più avanzati, e legarono di nuovo l'Italia all'area del marco, scegliendo ancora una volta la terapia shock rispetto a una terapia più gradualista, che mantenesse una libertà di movimento nel cambio per il tempo necessario a far convergere realmente la struttura della propria economia rispetto a quella dei paesi forti dell'area.


I nostri politici  imposero al paese grandi sforzi per soddisfare i criteri di Maastricht e poter entrare nell'euro. Furono messe in atto politiche di bilancio restrittive e fu mantenuto fisso il cambio. 

Abbiamo già descritto altre volte gli squilibri delle partite correnti indotti dall'euro, e la crisi che ne è seguita, per cui ne faccio un riassunto in questo box .

Con l'entrata nell'euro la politica monetaria unificata stabilì un tasso di interesse unico per tutti allo stesso livello, che di fatto risultò troppo basso per le economie periferiche, che mantenevano comunque un differenziale di inflazione rispetto all'area del marco: i tassi di interesse reali troppo bassi favorirono l'accesso ai flussi finanziari dall'estero, alimentando in maniera eccessiva, con l'indebitamento, la domanda del settore privato di Spagna, Grecia, Irlanda e Portogallo, e provocando una crescita dei salari nominali superiore alla media Europea, in conseguenza dell’accresciuta domanda di lavoro. La maggiore inflazione che ne conseguiva, generava una perdita di competitività, con minori esportazioni e persistenti disavanzi commerciali. 
 
Nel caso Italiano in particolare, la debolezza della domanda interna – dovuta alle politiche restrittive per entrare nell'euro - ha compensato la debole performance delle esportazioni, che hanno sofferto moltissimo della perdita di competitività di prezzo, sicché il saldo delle partite correnti non è peggiorato in maniera significativa.

La perdita della competitività di prezzo è dovuta alla diversa dinamica nell'andamento del costo del lavoro tra Germania, Austria da una parte e Italia e paesi periferici dall'altra.
Il costo del lavoro per unità di prodotto (Clup) nel periodo 1999-2008 è aumentato in media dello 0,4% all'anno in Germania, contro oltre il 2,5% all'anno in Italia e Spagna, comportando un forte deprezzamento cumulato del tasso di cambio reale.
Secondo la Commissione Europea, la quota dei salari ha avuto un calo significativo in tutta l'area dell'euro. Tuttavia, il calo è stato più marcato in Germania e in Austria – e questo tipo di politica economica da parte della Germania è stato definito “mercantilismo monetario”: una sorta di violazione dei “patti impliciti” Europei che prescrivevano un obiettivo comune di inflazione del 2%, mentre la Germania avrebbe perseguito una inflazione al di sotto di tale soglia, facendo „dumping salariale“.

Peraltro ciò che ha aggravato questi squilibri commerciali è stata la loro persistenza nel tempo, data la impossibilità di riallineamenti dei tassi di cambio nominali, che in circostanze diverse avrebbe impedito al divario di approfondirsi.

In questa situazione, il propagarsi della crisi finanziaria dagli USA ha bruscamente interrotto il flusso dei capitali. Le turbolenze finanziarie del 2008 e la conseguente profonda recessione nel 2009 hanno fatto sì che improvvisamente gli investitori corressero a rifugiarsi negli assets considerati più sicuri, e gli investimenti nella periferia della zona euro evidentemente non lo erano. Poiché al debito delle famiglie dei paesi periferici corrispondeva quello delle banche periferiche verso quelle Tedesche, gli Stati sono dovuti correre in soccorso dei conti disastrati delle banche, ed ecco che anche il debito pubblico è cresciuto. Nel frattempo, anche la recessione faceva crollare le entrate fiscali, spingendo i bilanci pubblici in rosso ancor più profondo.
E il risultato è stato un crollo della fiducia degli investitori nei titoli del debito pubblico dei paesi periferici.


Una particolare fragilità dell'eurozona sta nel fatto che i paesi che fanno parte dell’unione monetaria Europea non hanno gli strumenti che possono avere altri paesi per migliorare le loro economie ed evitare una vera e propria crisi fiscale: Giappone e Usa hanno una banca centrale che può acquistare titoli direttamente dallo Stato,  nel caso in cui i mercati rifiutino di farlo. Ciò consente di sostenere forti disavanzi facendo politiche di bilancio espansive per sostenere l'economia in tempi di crisi, senza incorrere in grossi problemi immediati di sfiducia dei mercati e insostenibilità del debito.
 
La Bce, per decisione statutaria, adotta invece una politica di tipo monetarista, secondo la quale la Banca centrale si deve limitare a seguire la semplice regola di fissare a priori il tasso di crescita della moneta che deve essere molto contenuto per evitare l’inflazione, e secondo cui la politica di bilancio non è in grado di correggere le fluttuazioni economiche, da qui l'impossibilità della monetizzazione del deficit e l'importanza assegnata al pareggio del bilancio. Quindi  gli Stati per finanziarsi non possono contare sulla banca centrale e devono ricorrere ai mercati, con tutto quel che ne può conseguire in termini di insostenibilità nelle fasi critiche dell'economia.

Questo spiega la percezione comune che la crisi dell'euro sia in effetti una crisi di debiti sovrani e  di stati spendaccioni, mentre in realtà, come hanno sostenuto da ben prima della crisi importanti economisti (Feldstein, Krugman, Dornbush, per nominarne solo alcuni), e come sta diventando sempre più evidente anche al pubblico, la crisi dell'euro era inevitabile per i profondi squilibri settoriali che necessariamente si verificano  in un'area valutaria comune tra paesi con economie troppo strutturalmente differenti. 

 
 I Perché di Questa Scelta e Perché l'Unione di Bilancio è Impensabile

La scelta di entrare nell'euro e di sottoporre l'Italia a questa terapia shock è stata giustificata con la motivazione che sarebbe stata necessaria per guadagnare in "stabilità", entrando a far parte di un'area valutaria forte. 
 
E' vero che le svalutazioni competitive portavano instabilità macroeconomica a causa del perverso meccanismo per cui da un lato la svalutazione migliora la competitività di prezzo e la bilancia corrente aiutando la crescita del paese, ma dall'altro generalmente, quando le svalutazioni sono ripetute,  importano inflazione, quindi fanno crescere i tassi di interesse, deprimono l'economia e peggiorano i conti pubblici. 
Inoltre, entrare in un'area valutaria forte ci avrebbe messo al riparo dagli attacchi speculativi e dalle svalutazioni imposte dall'esterno. In realtà, a giudicare dagli spread e dai rischi di crollo dell'euro, non è proprio così.

 
L'entrata nell'euro, così come l'entrata in un regime di cambi fissi,  provoca un tipo di instabilità, che è una instabilità macroeconomica dovuta a bassa competitività, per cui le importazioni aumentano a un tasso maggiore delle esportazioni e il saldo diventa sempre più negativo. Poiché nel breve periodo è molto difficile intervenire a migliorare le variabili che influenzano la competitività (qualificazione professionale, infrastrutture, servizi per le aziende, capacità di innovazione, burocrazia e privilegi, aspetti giuridici, ecc), l'economia del paese va in stagnazione. In questa fase la domanda interna potrebbe compensare la mancanza di competitività, se stimolata da una spesa pubblica convenientemente indirizzata a favorire la vendita di beni e servizi nazionali. Se però la spesa pubblica non può essere aumentata perché ci sono vincoli di bilancio stabiliti da accordi internazionali, allora il paese passa dalla stagnazione alla recessione. 

In questo quadro, pensare che un'unione di bilancio a guida Europea, e quindi a guida Tedesca,   possa risolvere la crisi degli squilibri settoriali dell'eurozona, non sembra né possibile né sano. 
Non c'è certamente da aspettarsi che la Germania monetarista si metta a finanziare politiche espansive per aiutarci a sostenere la domanda interna e attenuare la recessione.
La centralizzazione della politica di bilancio servirebbe a farci attraversare  senza rischio di sorprese (ci venisse mai l'idea di uscire dall'euro) quella lunga recessione che in "un'unione da mani legate" di questo genere è l'unica via per riequilibrare gli scompensi, la famosa svalutazione interna dei prezzi e dei salari.
Naturalmente, tutto questo non ci porterebbe alla fine, almeno, fuori dal tunnel, perché nel corso di questo impoverimento i paesi che dall'euro si sono rafforzati e arricchiti avrebbero tutta la possibilità di finire di comprare per due soldi le nostre migliori risorse, riducendoci a colonie e non dovendo più temere la nostra riacquistata competitività.

 
Perché l'Italia si costringa ripetutamente al confronto con l'area del marco, che le provoca ingenti danni, senza prepararsi adeguatamente, questo è un fatto che rimane difficile da tollerare. 


Occorre che noi, in Italia, troviamo i politici e gli amministratori capaci di attuare quegli interventi necessari per razionalizare e rendere efficiente la struttura produttiva del paese, e poter aumentare la competitività; ma nell'attesa che questi interventi producano effetti, dobbiamo evitare che il paese attraversi la recessione, e adottare una terapia gradualista che affianchi agli interventi strutturali una  flessibilità del cambio, sino ad arrivare a una struttura dell'economia che possa reggere il confronto con i paesi economicamente più forti, e magari, ma solo forse e solo allora, adottare una moneta comune.

Questo articolo si basa in gran parte sul testo di
Francesco Carlucci - L'Italia in ristagno - Franco Angeli editore  








7 commenti:

  1. Mi spiace ma tutto il discorso sulla svalutazione competitiva e l'inflazione è inesatto, non torna con i dati, e ingenuo. Sarebbe troppo lungo per un commento, e vi consiglio solo di leggervi un po' del blog di Bagnai, Goofynomics.
    Detto questo, mi spiace assumere questo tono didascalico, ma tutti noi (al di là delle divergenze su questa o quella cosa, vivaddio) abbiamo bisogno di comunicare con l'universo mondo.
    Allora parliamo e scriviamo in lingua italiana, universalmente comprensibile in questo paese.
    "Fisco" in italiano indica il sistema tributario, e "fiscale" indica le tasse. Non come in inglese, dove indica il Bilancio dello Stato, e nemmeno come in castigliano, dove "el fiscal" è il Procuratore della Repubblica.
    Immaginate in Spagna le risate se qualcuno facesse come in Italia e traducesse "fìscal" con "fiscàl" (accento diverso, in castigliano sulla "a").
    Qui nessuno ride, ma in compenso il 95% della popolazione italiana è convinta che "unione fiscale" significhi l'armonizzazione del modo di pagare le tasse. Una cosa generalmente considerata come positiva.
    Se vogliamo farci capire, traduciano "fiscal" in italiano, cioè con "di bilancio", come fanno i francesi, ad esempio.
    Non c'è nessun bisogno di imitare i gergalismi di quei trogloditi degli economisti italiani. Loro non hanno bisogno di farsi capire, tutt'altro.
    Noi sì.

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    1. Il discorso sulla svalutazione e l'inflazione è articolato e non schematico, e qui si afferma che sull'inflazione degli anni '70 hanno influito diversi fattori, non certo solo la svalutazione, ma in quel contesto la svalutazione era particolarmente insidiosa in quanto ripetuta e coincidente con l'aumento stellare del prezzo del petrolio.
      Conosco e apprezzo Googynomics, tanto è vero che i consigli di lettura da cui sono partita sono i suoi, e non penso di sbagliarmi se penso che quanto si dice qui sulla svalutazione e inflazione dei tempi della svalutazione competitiva non confligga affatto con le sue tesi, infatti Bagnai non nega del tutto la relazione tra svalutazione e inflazione, bensì il rapporto 1 a 1 che viene sbandierato in proposito.
      Per quanto riguarda il termine politica fiscale, è vero, l'hai già detto altre volte, può ingenerarsi confusione, anche se rientra nel linguaggio economico comune come sinonimo di politica di bilancio.
      Comunque per farti contento lo correggo, lo correggo...

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  2. Guarda, non è che fai contento me, è un problema di farsi capire. Fai una semplice indagine tra i tuoi conoscenti non economisti, e scoprirai quel che ho scoperto io, non sorprendentemente: quasi tutti, se non tutti, equivocano, e non è cosa da poco. Ho sentito con le mie orecchie anche un senatore della repubblica in un intervento al Senato.
    Quanto all'inflazione degli anni '70, una delle concause che citi è la scala mobile. Questa è stata abolita nel '92 (il provvedimento Craxi la congelò per una volta, cosa che non può influire sull'inflazione). Se vai a vedere i dati sull'inflazione, scopri che nel '92 era già calata da un pezzo, ed era al 4%. Dunque la scala mobile non può essere annoverata tra le concause dell'inflazione italiana, o meglio, del surplus di inflazione rispetto al resto del mondo.
    Credo che l'analisi della stagflazione (di questo stiamo parlando, un fenomeno globale) degli anni '70 sia un discorso piuttosto complesso (e ancora controverso), e credo che si debba stare molto attenti a non agitare, sia pure involontariamente, i classici spauracchi. Non c'è niente di competitivo nello svalutare a seguito di un differenziale di inflazione, e non vedo come possa provocare inflazione. Significa solo rimettere "a posto" le cose. Altrimenti l'inflazione sarebbe una manna dal cielo: posso andarmene in giro per il mondo a basso costo, comperando a prezzi stracciati con la mia moneta svalutata dall'inflazione ma non svalutata nominalmente nel cambio.
    Diverso è il discorso di una svalutazione realmente competitiva, per la quale io svaluto il valore reale (non nominale) della moneta.
    Vabbè, s'è fatta una cert'ora ...
    Le mie critiche sono amichevoli, e mosse dai comuni interessi, sia chiaro. A volte l'esigenza di sintesi può renderle brusche, cosa di cui mi dispiaccio e me ne scuso.
    Con tanta simpatia, dunque ...

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  3. Certo, il mio "ti accontento" voleva essere spiritoso, visto che tu sei sempre attento a questo aspetto...
    Comunque l'inflazione di cui parlo nel testo è proprio quella degli anni '70, e ne attribuisco le cause principalmente alla spirale prezzi salari prezzi (più che alla scala mobile in sè, ovviamente) e al petrolio. ..quindi non capisco la tua puntualizzazione. Anzi, si dice proprio che dopo la svalutazione del '92 non ci fu inflazione. E l'inflazione comunque comincia a scendere dall'entrata nello Sme e dagli alti tassi di interesse.
    Del resto io qui mi sono basata su Francesco Carlucci, L'Italia in Ristagno, che è una delle letture consigliate. Oltre che su Acocella. Non mi pare che ci siano qui spauracchi, ma discorsi equlibrati e ragionati.
    Comunque concordo che l'analisi della stagflazione degli anni '70 è un fenomeno complesso e globale.
    Anche le mie risposte sono amichevoli, anzi, grazie dei commenti.

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  4. Scusa Carmen, però svalutazionecompetitiva da te è una pugnalata alle spalle!

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  5. Azz! non mi sembrava così tanto una parolaccia...il ragionamento che fa Carlucci mi è parso corretto, quando dice che dopo l'uscita dal serpentone si è persa l'opportunità di migliorare la nostra struttura produttiva per affidarci unicamente alla competitività di prezzo...non ti pare, Alberto, che in Italia avremmo bisogno di meno burocrazia, di infrastrutture, ricerca, e tanto altro che non sto a dire e che non è stato fatto? Mi sembra che queste cose vadano dette, insieme a tutto il resto che dici bene tu, perché dobbiamo uscire dalla camicia di forza in cui ci siamo cacciati, ma abbiamo anche tanto bisogno di buona amministrazione e di buona politica! Quindi, in sostanza, libertà del cambio ma anche rimbocco di maniche per acquisire competitività di organizzazione e di qualità.
    Poi, se faccio confusione dimmelo, mi zittisco, vado a cuccia e mi metto a studiare di più.

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    1. Ok, mi correggo. Il paragrafo sulle svalutazioni competitive è stato giustamente rivisitato. Qui le come al solito preziose osservazioni di Bagnai:
      http://goofynomics.blogspot.it/2012/06/napoli.html
      e successivamente anche il mio commento.
      Leprechaun, perdonami per non averti dato retta subito, ma lo sai, del resto l'hai detto anche tu, la logica di Goofy si impone.

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