Grazie a http://tlaxcala-int.org per questo bell'articolo di Jacques Sapir che argomenta in modo efficace la crisi finale dell'euro, non solo economica, ma anche politica e simbolica. E' ora di uno smantellamento concordato dell'euro se si vuole ricostruire l'idea di Europa su altre basi...
Il processo definito “costruzione europea”,
con la situazione di stallo che si è venuta a creare sulla
pianificazione di bilancio dell’Unione europea per gli anni 2014-2020, e
in secondo luogo per il bilancio 2013, sta subendo un triplice
fallimento: economico, politico e simbolico. La questione simbolica è
certamente più importante. Questa situazione di stallo, ben che vada
durerà fino all’inizio del 2013, arriva dopo il blocco dell’inizio di
questa settimana sulla questione degli aiuti da accordare alla Grecia, e
dopo i negoziati estremamente duri relativi alla partecipazione
rispettiva degli Stati nell’ambito del gruppo aeronautico EADS, e di
conseguenza di una riduzione importante delle ambizioni dell’Europa
spaziale. È altamente simbolico che questi avvenimenti si siano
succeduti tutti in un periodo di otto giorni. Ciò sta a dimostrare
l’esaurimento definitivo dell’Unione europea nell’incarnare l’“idea di
Europa”.
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Un fallimento economico
La
questione del bilancio dell’Unione europea è economicamente importante.
Non tanto per le somme in gioco. Il contributo al bilancio dell’Unione
europea ha raggiunto l’1,26% del PIL dei differenti paesi. Quindi, per
il 2013 sono previsti 138 miliardi di euro. Ma è l’esiguità di questa
somma che pone dei problemi. Nel momento in cui l’Eurozona, un
sottoinsieme dell’Unione europea (UE), è in recessione, e questa
condizione si protrarrà certamente nel 2013 e nel 2014, la logica
avrebbe voluto che si fosse raggiunto un accordo su un bilancio di
rilancio, sia per promuovere la domanda che per favorire politiche
dell’offerta e della competitività in alcuni paesi. Ora, ciò che si è
prodotto va esattamente nella direzione contraria. È chiaro che ogni
paese tende ad andare in ordine sparso, pur dovendo sottostare alle
regole di austerità fiscale, per giunta istituzionalizzate dall’ultimo
trattato dell’UE, e questo non è il minore dei paradossi! Gli egoismi
vengono a galla da ogni parte e, in incontri come quello tenutosi nella
notte fra giovedì 22 e venerdì 23 novembre a Bruxelles, trovano il campo
chiuso ideale per i loro confronti e scontri.
Nella
situazione attuale, risulta evidente che la recessione non potrà essere
combattuta in modo efficace se non da una combinazione di politiche
volte a rilanciare la domanda e l’offerta. Queste politiche sono state
quantificate. Esse prevedono, solo per la ripresa di competitività, che
vengano impiegati nei quattro paesi dell’Europa meridionale (Spagna,
Grecia, Italia e Portogallo), circa 257 miliardi di euro l’anno, come è
stato stabilito in una nota precedente (1).
Se
si volesse essere coerenti, bisognerebbe effettivamente aggiungere
almeno 100 miliardi di euro a questa somma per finanziare grandi
progetti, permettendo così di armonizzare la competitività fra tutti i
paesi. Questa spesa aggiuntiva di 357 miliardi di euro, rispetto ad un
budget di circa 138 miliardi, è importante. Ciò implicherebbe che il
bilancio verrebbe aumentato dall’1,26% al 4,5%.
In realtà, il problema è ben più complicato.
I
138 miliardi previsti per il bilancio 2013 danno luogo a rimandi, più o
meno importanti, per tutti i paesi dell’UE. Sui 357 miliardi che
sarebbero necessari da impegnare in più, 257 miliardi sarebbero trasferimenti netti destinati
ai quattro paesi del Sud-Europa già citati. E però questi miliardi
dovrebbero essere forniti dagli altri Stati, che in buona sostanza non
potrebbero essere che la Germania, l’Austria, la Finlandia e l’Olanda.
Questo ci porta a concludere che dovrebbe essere la Germania da sola a
contribuire per l’ammontare dell’85%-90% di questa somma, il che
rappresenterebbe in trasferimenti netti fra l’8,5% e il 9% del suo PIL
annuo. Su un periodo di dieci anni si arriverebbe a 3570 miliardi di
euro del bilancio totale.
Quando
si parla, con la voce in singhiozzo e le lacrime agli occhi, di
“federalismo europeo”, è di questo che in realtà si sta parlando, perché
senza significativi trasferimenti niente federalismo!
Rispetto
a ciò, è da sottolineare che i dirigenti europei non sono riusciti a
mettersi d’accordo su una cifra di 978 miliardi di euro da spalmarsi su 7
anni (2014-2020), quando per il medesimo periodo si trattava di 2499
miliardi in più che avrebbero dovuto finanziare. Si misuri l’immensità
del compito e la sua impossibilità, nelle attuali circostanze. A questo
proposito, questo scacco, probabilmente temporaneo in quanto una
soluzione di compromesso non soddisfacente per nessuno e nulla
risolvente comunque si troverà entro la fine del gennaio 2013, assume il
suo pieno significato.
Se
i 27 paesi dell’Unione europea stentano così tanto ad accordarsi su una
somma, in definitiva modesta, non si vede come potrebbero decidere di
comune accordo su cifre che sono 2,5 volte più importanti. Insomma, la realtà dell’UE consiste nell’assenza totale di solidarietà nel suo interno,
perfino quando questa solidarietà sarebbe nell’interesse di tutti.
Quello che rivela questa situazione è che nell’ambito dell’Unione
europea non esiste il concetto di “cosa pubblica” (res publica).
Ciò si manifesta anche nel modo in cui è stato trattato (male!) il
caso della Grecia. È assolutamente evidente che il fardello del debito
genera debito. Nel caso della Grecia, la sola soluzione è un défault,
(una “ristrutturazione”), che vada a colpire la metà del debito detenuto
dagli organismi pubblici, così come un default equivalente è stato
imposto ai creditori privati. (2)
Ma
i paesi dell’Eurozona sono incapaci di affrontare questa realtà. Così
ridaranno dei soldi, con i pagamenti del debito da spalmarsi a breve
termine. Questo non risolverà nulla, e la maggior parte degli esperti se
ne rende conto. Tuttavia, oltre il fatto di intraprendere un’azione che
è solo un palliativo, gli stessi paesi non sono d’accordo nemmeno sulla
quantità di denaro da prestare a breve termine alla Grecia. Questo è
ciò a cui si è assistito all’inizio della settimana del 19 novembre.
Questi paesi preferiscono addossare la parvenza di responsabilità al
Fondo Monetario Internazionale.
L’autore
di questo documento ha scritto nel passato considerazioni estremamente
critiche e dure nei confronti di questo organismo.(3) Ma è chiaro che lo
statuto del FMI non consente al Fondo di prestare ad un paese che sia
decisamente insolvente. Da questo punto di vista, il FMI entra
perfettamente nel suo ruolo quando fa presente ai paesi dell’Eurozona
come sia necessaria una soluzione a lungo termine per la Grecia e che
questa soluzione non può altro che pervenire da un parziale default.
Per
altro, vengono scartate tutte le soluzioni razionali, a solo profitto
di quelle che servono agli interessi immediati di questo o di quello.
Questa inconseguenza è il prodotto di una incoerenza di base: si vuole
evitare il default, ma ci si rifiuta di pagarne il prezzo! Dunque, non
c’è da stupirsi che i paesi europei non abbiano potuto addivenire ad un
accordo, qualsiasi che sia, sulla programmazione dei bilanci con
l’orizzonte il 2020, o su un piano realistico di salvataggio della
Grecia.
Questo
doppio fallimento è rivelatore dell’esaurirsi dell’“idea di Europa”.
Perciò si vivrà di espedienti, e si andrà avanti sempre peggio fino al
momento in cui bisognerà affrontare la realtà.
Un fallimento politico
Il
problema posto è inoltre politico, ed è stato esposto in piena luce in
occasione del fallimento del Consiglio europeo, fra la notte del 22 e 23
novembre. Sorvoliamo del tutto sull’“alleanza” tra la cancelliera
tedesca, la signora Angela Merkel e il primo ministro britannico David
Cameron, un’alleanza che potrebbe comportare l’isolamento della Francia.
Comunque, questa “alleanza” è in realtà puramente congiunturale. La
Gran Bretagna persegue il suo vecchio obiettivo di ridurre l’Unione
europea ad una zona di libero scambio e ad un quadro normativo più
leggero possibile.
La
Germania, da parte sua, e a lei si uniscono su questo punto paesi come
la Finlandia, l’Olanda e l’Austria, è nettamente contraria a che i
trasferimenti diventino maggiormente impegnativi. È conosciuta
l’opposizione assoluta dei dirigenti tedeschi, di tutti i partiti, a
trasferimenti massicci, soprattutto nell’ambito dell’Eurozona.
Il
rifiuto dell’Unione dei Trasferimenti è un punto cardine della politica
tedesca, e questo si spiega sia per l’impatto che questi trasferimenti
avrebbero sull’economia tedesca (4), sia per i dati demografici di
questo paese, che indicano una riduzione progressiva della popolazione.
Ciò non implica che la Germania condivida il punto di vista della Gran
Bretagna sulla filosofia della UE. I leader tedeschi si rendono conto
che l’Unione europea deve essere tutt’altra cosa che una semplice zona
di libero scambio. Tuttavia i loro interessi si posizionano sulla stessa
linea di quelli dei Britannici nell’opporsi ad un impegno di fornire
ulteriori finanziamenti, nella misura in cui sono pienamente consapevoli
che diventerebbero, per forza maggiore, i principali contribuenti. È su
questa alleanza che si è andata a scontrare la posizione francese. Qui
dobbiamo dissipare l’illusione tanto diffusa nelle élite politiche
francesi. I dirigenti francesi pensano che si potrà, con concessioni su
alcuni punti, portare i leader tedeschi ad accettare di maggiormente
contribuire, visto il loro (relativo) ammorbidimento sulla questione
della crisi del debito nell’Eurozona.
Ricordiamoci
che in occasione delle prime riunioni sulla crisi, all’inizio del 2010,
la posizione tedesca era in netto contrasto con il salvataggio della
Grecia. In realtà i leader francesi commettono non uno, ma due errori
nel valutare la posizione tedesca. Il primo errore è quello di
confondere la crisi del debito con la crisi di competitività. Queste due
crisi sono distinte, anche se la seconda rialimenta di continuo la
prima. L’atteggiamento tedesco è stato quello di fare concessioni sulla
crisi del debito al fine di evitare una tempesta finanziaria che si
sarebbe abbattuta sull’Eurozona, ma di rifiutare qualsiasi concessione
relativa alla crisi di liquidità. I dirigenti tedeschi hanno le idee
molto chiare nel fare distinzioni fra queste due crisi. Essi considerano
che la crisi del debito sia un problema collettivo, invece la crisi di competitività sia di competenza dei singoli Stati!
Ne
consegue che non si può arguire dal loro cambiamento di atteggiamento
sulla crisi del debito un qualsiasi cambiamento di valutazione sulla
crisi strutturale, quella di competitività.
Il secondo errore consiste nel non capire che la scelta per la Germania non può ridursi al salvataggio a tutti i costi dell’Eurozona.
La Germania anela soprattutto allo status quo (che le permette di
realizzare le sue enormi eccedenze commerciali nella bilancia dei
pagamenti a scapito di altri paesi della zona euro). Per mantenere
questo status quo ha già accettato di aiutare, e ha già consentito
una mutualizzazione del debito – checché se ne dica - sotto forma di
acquisti sul mercato secondario da parte della Banca Centrale europea
del debito dei paesi in difficoltà. Infatti, la Germania è
co-responsabile del bilancio della BCE fin dal suo contributo iniziale a
questa istituzione. Ma non è pronta ad andare al di là di un contributo
annuo di circa il 2% del suo PIL (circa 50 miliardi di euro).
Se
si lancia la sfida alla Germania per il pagamento delle somme di cui
sopra, corrispondenti all’8% fino al 9% del suo PIL, al fine di rendere
l’Eurozona in grado di durare, la Germania preferirà la fine della zona
euro. Là dove i leader francesi vedono l’inizio di un processo, che
potrebbe essere allargato, in realtà è possibile riscontrare un impegno
strettamente limitato della Germania.
Dunque,
la crisi attuale non è solo economica, anche se questa dimensione da
sola è sufficiente per portarci al disastro. È anche politica. L’idea di
un’alleanza tra la Francia e la Germania, il Merkozy, che tanto
veniva difesa dal governo precedente, era basata sull’illusione, nutrita
da ignoranza o volutamente, che la crisi dell’Eurozona era unicamente
una crisi del debito.
Se
tale fosse stato il caso, è probabile che si sarebbe potuto trovare il
terreno per un’intesa stabile tra questi due paesi. Ma la crisi
dell’euro è in primo luogo una crisi derivante dalla eterogeneità delle
economie, eterogeneità che aumenta naturalmente in un sistema a moneta
unica e con una politica monetaria uniforme in assenza di flussi
massicci di trasferimenti, e che sfocia in una più grave crisi di
competitività, che a sua volta genera un aumento dei disavanzi di
bilancio.
Arrivati
a questo punto, le posizioni rispettive di Francia e Germania divergono
spontaneamente, e di questo il nuovo governo francese ne ha preso atto.
Ma quando ha tentato di radunare attorno a sé i paesi in difficoltà,
non ha fatto altro che provocare l’alleanza, seppur temporanea, ma
temibile, della Germania con la Gran Bretagna.
Infatti,
all’interno della zona euro, la Germania può sempre trovare alleati e
una strategia di uscita, almeno nel breve termine. È la Francia che si
trova, in fin dei conti, come dicono i piloti dei caccia “out of power, out of altitude and out of idea”
(che può essere liberamente tradotto con “senza potenza, in stallo, e
senza idee”). François Hollande deve capire che, nella situazione
attuale, l’unica possibilità che rimane per la Francia è quella di
rovesciare il tavolo, di porre la Germania davanti alla scelta di
procedere ad una dissoluzione ordinata dell’Eurozona in cui senza dubbio
perderà incontestabilmente alcuni dei suoi benefici, o ad una
esplosione disordinata in cui la Germania avrà ben più da perdere.
Un fallimento simbolico
I
fallimenti, tanto quello economico che politico della settimana scorsa,
sono, ovviamente, rivelatori di un fallimento simbolico più importante.
Attualmente, chi crede ancora nell’Unione europea?
L’analisi
degli ultimi sondaggi pubblicati nei mesi di giugno e novembre su
questo punto fornisce un risultato incontrovertibile. La perdita di
fiducia nella capacità dell’UE di produrre una qualsiasi cosa di
positivo per le popolazioni è enorme. Mai l’Euroscetticismo si è
portato tanto bene, non solo in Gran Bretagna, ma anche in Francia e
nella stessa Germania. Nell’Eurobarometro, sondaggio realizzato a
scadenza regolare in tutti i paesi dell’UE (5), la percentuale di
fiducia sull’Unione europea è crollata al 31%. Infatti, il 28% degli
interpellati hanno espresso un’opinione “molto negativa” sull’UE e il
39% non si sono pronunciati. La cosa più impressionante è l’evoluzione
nel tempo dei risultati. Le opinioni sfavorevoli sono passate dal 15%
dell’autunno 2009 al 28% della primavera 2012, mentre le opinioni
favorevoli sono passate nel medesimo periodo dal 48% al 31%.
Ma c’è di peggio: il 51% delle persone interrogate non si sentono prorio solidali con gli altri paesi in crisi.
In
generale, l’immagine che voi avete dell’UE è molto positiva, abbastanza
positiva, neutra, abbastanza negativa o molto negativa?
In
altre parole, la politica dell’UE ha provocato un aumento della
sfiducia reciproca, ciò che doveva di regola combattere. Ed è evidente
che la perdita di fiducia nella UE e nelle sue istituzioni tende a
generalizzarsi. Quali conclusioni possiamo trarne?
Dunque,
è la credibilità generale della UE ad essere in questione, e vediamo
allora che le strategie discorsive messe in campo dagli europeisti
saranno sempre meno efficaci.
Queste
strategie si fondano: a) su una delegittimazione delle opinioni
negative, associandole alla categoria degli “ignoranti” e quindi degli
incapaci di capire l’apporto positivo dell’Unione europea; b) sulla
giustificazione che questi risultati poco confortanti semplicemente sono
dovuti alle difficoltà materiali generate dalla crisi.
Sul
primo punto, ci sarebbe molto da dire. Immediatamente si scorge
l’affinità tra questo argomento e gli argomenti del XIX secolo a favore
del voto secondo il censo. Le persone con redditi modesti, che in genere
non compiono studi superiori, sono considerate intrinsecamente inadatte
a giudicare un progetto che viene presentato come “complesso”. In
realtà, questo argomento non è altro che una razionalizzazione del
percorso anti-democratico intrapreso nella costruzione europea dal 2005.
Il
secondo argomento contiene un pizzico di verità. È chiaro che l’impatto
della crisi ha modificato le preferenze degli individui. Ma questa
spiegazione si ritorce contro questi europeisti: perché l’Unione europea
non è riuscita a proteggere le persone dagli effetti della crisi? In
realtà, la crisi agisce come un indicatore che evidenza le carenze e le
lacune dell’UE.
Vi
è un terzo argomento, che viene utilizzato di volta in volta: l’Unione
europea ci avrebbe evitato il ritorno di conflitti inter-europei dei
secoli precedenti. Ma questo è falso, tecnicamente e storicamente.
Tecnicamente,
l’UE non è stata in grado di impedire i conflitti nei Balcani, e le
modalità della loro risoluzione si devono molto di più alla NATO che
all’UE. Storicamente, i due eventi più importanti che sono la
riconciliazione franco-tedesca e la caduta del muro di Berlino non sono
affatto il prodotto dell’Unione europea. Infatti, come possiamo ben
vedere attualmente, attraverso la sua odierna politica l’UE alimenta il
ritorno di vecchie contrapposizioni odiose, sia tra paesi (Grecia e
Germania, ma anche Portogallo o Spagna e Germania) che al loro interno
(Spagna, con i Paesi Baschi e la Catalogna, e il Belgio). Questo
fallimento simbolico è certamente il più grave a breve termine, in
quanto influisce sulle rappresentazioni dei popoli. Se il fallimento
politico e il fallimento economico dimostrano che l’Unione europea è a
corto di fiato, il fallimento simbolico, evidenziato dagli ultimi
sondaggi, apre la strada a radicalizzazioni nell’opinione pubblica in
tempi relativamente brevi.
Trarre insegnamenti dall’esaurimento di un progetto europeo
Ora
diventa opportuno impegnarsi in una valutazione intransigente del
progetto prodotto dall’Unione europea, e che a tutt’oggi si è
manifestamente arenato. Questo non significa che tutto il
progetto europeo sia destinato al fallimento. Ma ancora una volta si
dovrebbe tralasciare di identificare l’Europa con l’Unione europea.
Risulta palese che alcuni paesi esterni al quadro dell’UE hanno
interesse all’esistenza di una Europa forte e prospera. I casi della
Russia e della Cina saltano agli occhi. Per di più, la Russia è
anch’essa un paese europeo, anche se non unicamente europeo.
È
quindi possibile pensare ad un progetto europeo che includa tutta
l’Europa, compresi quei paesi che oggi non sono membri dell’Unione
europea, e nemmeno aspirano a diventarlo. Ma alla condizione di fare
delle nazioni europee, queste “vecchie nazioni” che restano ancor oggi
il quadro privilegiato per la democrazia, la base di questo progetto.
Questo progetto dovrà imperniarsi intorno ad iniziative industriali,
scientifiche e culturali, il cui nucleo iniziale potrà essere variabile,
ma per esistere avranno l’esigenza della rimessa in discussione di una
serie di norme e regolamenti della UE.
Più di ogni altra cosa, sarà necessario procedere allo smantellamento dell’euro.
Questa
dissoluzione dell’euro, se coordinata fra tutti i paesi membri
dell’Eurozona, sarà essa stessa uno strumento europeo, e potrà
immediatamente dar luogo a meccanismi di concertazione e di
coordinamento che faranno sì che i tassi di cambio delle monete
nazionali ritrovate non fluttino più in modo irregolare, ma in funzione
dei parametri fondamentali dell’economia.
Questo
percorso richiede del coraggio, perché gli attuali dirigenti di molti
paesi sono gli eredi diretti dei “padri fondatori” dell’Unione europea.
Ma ad un tratto tutta l’eredità deve essere liquidata! Rifiutarsi di
farlo significa per i paesi europei entrare in una nuova fase storica di
convulsioni violente, sia interne che esterne, fase che si sta
preparando.
Se
è vero che l’“idea di Europa” è portatrice di pace, il proseguire
dell’Unione europea nella sua forma attuale non può altro che essere
fonte di conflitti sempre più violenti.
Note
(1) Jacques Sapir, “Le coût du fédéralisme dans la zone Euro – Il costo del federalismo nell’Eurozona”, articolo pubblicato sul sito “Russeurope” e tradotto da vocidallestero
(2) Jacques Sapir, “Grèce: seule l’annulation de la dette peut apporter un début de solution –Grecia: solo la cancellazione del debito può dare inizio ad una soluzione”, articolo pubblicato sul sito “Russeurope”, il 20/11/2012, URL: http://russeurope.hypotheses.org/522
(3) Jacques Sapir, Le Krach Russe, La découverte, Paris, 1998. Idem, Les Économistes contre la Démocratie, Albin Michel, Paris, 2002. Idem, “Le FMI et la Russie: conditionnalité sous influences”, in Critique Internationale, n°6, Hiver 2000, pp. 12-19.
(4) Patrick Artus, “La
solidarité avec les autres pays de la zone euro est-elle incompatible
avec la stratégie fondamentale de l’Allemagne : rester compétitive au
niveau mondial ? La réponse est oui –La solidarietà con gli altri paesi
dell’Eurozona è incompatibile con la strategia di fondo della Germania:
rimanere competitivi a livello mondiale? La risposta è affermativa!”, Flash Économie, Natixis, n° 508, 17 juillet 2012.
(5) Eurobaromètre Standard 77, “L’opinion publique dans l’Union européenne”, Commissione europea, Direzione generale per la Comunicazione, luglio 2012,URL :http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/eb/eb77/eb77_first_fr.pdf
"Se è vero che l’“idea di Europa” è portatrice di pace, il proseguire dell’Unione europea nella sua forma attuale non può altro che essere fonte di conflitti sempre più violenti". Temo che questa affermazione sia drammaticamente vera e che la coabitazione coatta sotto la stessa moneta e la stessa crisi ci possa condurre a forme di violenza fra nazioni che ho timore a chiamare guerra.
RispondiEliminaRagazzi, quando linkate un articolo su un giornale online, o su un blog, dovete usare il link permanente, detto anche "Permalink". Se non lo fate, dopo un po' l'articolo non è più in prima pagina e non lo si trova.
RispondiEliminaInoltre non dovete ringraziare me per la traduzione, ma il traduttore Curzio Bettio e il sito tlaxcala-int.org.
Ehm...scusa la professionalità fa un po' acqua...spero che così vada bene.
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