Un bell'articolo del Telegraph segnalato anche da Claudio Borghi su Twitter, che mostra come L’Europa stia scivolando in una vera e propria trappola deflazionistica, in stile giapponese, con il
rapporto debito/PIL già al punto di non ritorno in una mezza dozzina di paesi, tra cui ...l'Italia...
Una volta che il debito raggiunge il 300% del PIL, la deflazione diventa letale. Il rischio è ormai presente in molti paesi dell’Europa dell’ovest. Foto: Reuters |
23
Ottobre
2013
Le autorità dell’Unione Europea farebbero bene a studiarsi il paper del professor Irving Fisher di “Econometrica” del 1933, La Teoria della Deflazione del Debito nelle Grandi Depressioni. L’argomento principale dovrebbe ormai essere chiaro a tutti, anche se alcuni a suo tempo ebbero problemi ad assimilarlo, così come succede ancora oggi. Se il livello dei prezzi scende – il “dollaro gonfiato” nell’America di Hoover – il reale peso del debito continua a salire.
La deflazione può anche sembrare positiva per paesi con
un basso debito pubblico in certi momenti storici, anche se probabilmente meno
positiva di quanto sostenga una classe di persone che vive di rendita. La gente
dimentica che essa è stata una delle principali cause della Rivoluzione
Americana, dal momento che la contrazione monetaria imposta dagli inglesi dopo
la Guerra dei Sette Anni causò una depressione economica, penalizzando i proprietari
di piantagioni della Virginia come Thomas Jefferson. Essa è stata anche la
causa della rivolta agraria degli anni 1880 e 1890, culminate nel grido dolente di William Jennings Bryan: “non saremo crocifissi a una croce dorata”.
Ciò che è chiaro è che quando il debito totale supera il 300% del PIL, la deflazione diventa letale. Il rischio è ormai presente in molti paesi dell’Europa occidentale.
Il tasso di inflazione nominale dell’eurozona sottostima questo rischio, specialmente per i paesi al centro della tempesta. Un indice Eurostat chiamato “HICP tasso d’inflazione a tasse costanti” che elimina le distorsioni create dall’austerità – l’aumento di tasse come l’IVA – mostra che l’inflazione è crollata allo 0,9% nell’intera eurozona in Settembre. Questo è il valore più basso registrato dalla crisi Lehman ed è un valore molto più basso dell’obiettivo BCE del 2%.
Negli ultimi 3 mesi il trend si è intensificato. Francia,
Italia, Spagna, Portogallo, Grecia, Cipro, Irlanda, Rep. Slovacca, Slovenia,
Estonia e Lettonia hanno visto i propri prezzi scendere, e hanno già un piede
nella deflazione. Una cosa analoga sta avvenendo nei paesi confinanti come
Bulgaria, Romania, Ungheria e Repubblica Ceca. La Polonia è a zero. La
Danimarca ci è vicina, e anche la Svezia, cosa che ha causato le dimissioni
rancorose del deputy governor di Riksbank, Lars Svensson, uno dei più grandi
economisti monetari del mondo. Egli stesso ha citato le teorie di Irving Fisher
riguardo il rapporto tra debito e deflazione nelle dispute coi suoi colleghi.
Il debito delle società europee è salito dal 2007, mentre quello delle americane è sceso. All'Eurozona basta uno shock per cadere nella sindrome giapponese, e perciò è in pericolo di esplosione dei suoi rapporti di
debito. Come l’allora capo della FED Ben Bernanke disse nel 2002 nel suo famoso
discorso: ”Deflazione: dobbiamo assicurarci che non succeda da noi”, è
imperdonabile per un banchiere centrale lasciare che ciò avvenga. “Una
deflazione prolungata può essere altamente distruttiva per un’economia moderna
e deve essere contrastata fortemente”, disse.
Zsolt Darvas del think tank di Bruxelles sostiene in un eccellente report, La passeggiata sul filo del rasoio dell’eurozona, che le dinamiche del debito sono molto sensibili alla più piccola variazione dell’inflazione. Egli avverte che l’attuale deriva verso il basso rischia di spingere Italia e Spagna in una “spirale di esplosione del debito”. Più ci si avvicina alla deflazione, più la situazione peggiora.
Il sig. Darvas dice che ogni punto percentuale perso di inflazione costringe l’Italia a incrementare il proprio avanzo primario di un ulteriore 1,3% di PIL per stabilizzare il proprio debito. Dal momento che l’Italia sta già perseguendo il 5% di surplus, tale diminuzione porta ad aumentare l’obiettivo al 6,3%, un compito impossibile. Nessuna nazione ad eccezione della Norvegia (grazie al petrolio) è mai riuscita ad ottenere tanto negli ultimi 50 anni.
Vedendo quel che è successo in Febbraio quando il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo ha preso più voti di tutti alla Camera del Parlamento Italiano con richiami (pur se incoerenti) a un possibile ritorno alla lira, e dato che circa il 60% degli elettori hanno votato per partiti contrari all’austerity, questo obiettivo sembra irraggiungibile. La disoccupazione giovanile è già del 40% circa.
Il sig. Darvas punta il dito sulla contraddizione principale che contraddistingue la strategia europea di uscita dalla crisi del debito. Gli stati coinvolti vengono costretti a tagliare i salari reali per recuperare la competitività perduta nei confronti del blocco tedesco attraverso una “svalutazione interna”, ma questi interventi penalizzano l’altro obiettivo del controllo del debito. Quindi la situazione è disperata se si riesce a seguire la strategia, e altrettanto disperata se non si riesce.
Il verdetto è già scritto. Il debito italiano ha già fatto un balzo dal 121 al 132% del PIL negli ultimi 2 anni (dati dell’FMI) nonostante misure fiscali draconiane e un avanzo primario. La Spagna è passata del 70 al 94%, il Portogallo dal 108 al 124% e l’Irlanda dal 104 al 123%. Questa è la maledizione dell’”effetto denominatore”. E’ quel che succede quando un debito aumenta più velocemente del PIL nominale. Sono le politiche europee che infliggono ultra-austerità senza compensarla con stimoli monetari. C’è da piangere.
La stesso circolo vizioso funziona sul debito privato,
che è altrettanto importante. Jamie Dannhauser del Lombard Street Research dice
che il rapporto netto di debito delle grosse aziende è salito di più del 100%
in Italia, Spagna, Francia e Portogallo dall’inizio della crisi, e ancor di più
per le aziende più piccole. I settori industriali sotto pressione non solo hanno
aumentato il proprio volume di debiti, ma hanno anche dato fondo ai loro asset
più liquidi per poter rimanere in affari. Qui si può trovare il cuore
spezzato dell’Europa. “La deflazione in stile giapponese è un disastro per gli
asset reali”, dice.
Incolpando erroneamente gli stati spendaccioni della
crisi dell’eurozona – la favola moralistica propagandata a Berlino, completamente
falsa ad eccezione del caso greco – e imponendo una tremenda dieta a base di
tagli fiscali nei paesi sbagliati, essi hanno fatto diventare il vero
problema del debito privato ancora peggiore. Al di là del fatto che si tratta di una politica brutale, essa è anche autodistruttiva in termini economici più ampi.
Mentre gli Stati Uniti stanno facendo rientrare i debiti privati molto velocemente,
in Europa i rapporti dei debiti privati hanno continuato a salire.
Il sig. Darvas dice che l’unica strada per uscire
dall’impasse è lasciar salire l’inflazione, lasciando salire i salari in
Germania. Il gap del tasso di cambio reale interno all’eurozona – probabilmente
intorno ai 20 punti percentuali – può quindi essere colmato lentamente, senza
bisogno di forzare i periferici in una spirale deflazionistica senza speranza.
“La BCE dovrebbe fare qualunque cosa sia necessaria, all’interno del suo
mandato, per assicurare che l’inflazione non scenda sotto il 2%”, dice.
La BCE invece sta seduta a guardare, anche se l’euro è
salito del 9% quest’anno, fino a 1,38 dollari. La crescita dell'aggregato monetario
allargato M3 si è arenata negli ultimi 4 mesi, e i debiti privati si
contraggono a un ritmo crescente del 2%. La BCE sta violando il suo stesso
mandato riguardo l’M3 e l’inflazione, e anche le sue linee guida pubbliche che
prescrivono che l’inflazione dovrebbe essere mantenuta abbastanza alta per
evitare il rischio di deflazione nei paesi più vulnerabili.
Come al solito, la BCE sta liberamente interpretando il
libro delle regole per ragioni politiche. Si potrebbe dire che esiste una
cronica influenza tedesca nelle sue decisioni. Essa ha spinto l’espansione
monetaria a 2 cifre per aiutare la Germania in crisi nei primi anni dell’euro,
favorendo una conciliante Bundesbank e condannando i paesi periferici
surriscaldati al proprio destino. Questa volta la Bundesbank ha un atteggiamento
da falco, convinta che i prezzi delle case a Berlino, Stoccarda e Monaco siano
sopravvalutati fino al 20%. Forse ha ragione, ma l’aumento medio in Germania è
stato del 2,8% all’anno negli ultimi 3 anni, senza alcun segnale che una bolla
stia per scoppiare. E se anche fosse, la Germania potrebbe limitare gli aumenti
disincentivando i mutui.
Sia come sia, la stessa inflazione tedesca a tasse
costanti è praticamente piatta da marzo. Il grande predicatore anti inflazione
potrebbe presto essere trascinato nella deflazione anch’esso: una vera e
propria ironia della sorte, ma non per questo meno pericolosa.
Come i lettori sanno, è da molto che sostengo che
Francia, Italia, Spagna e i loro alleati dovrebbero presentarsi uniti al tavolo del
direttivo BCE e dettare le condizioni, imponendo una politica di rialzo
dell’inflazione che la regione europea necessita disperatamente. Avrebbero i
voti per farlo. Hanno l’autorità legale e dei trattati a sostenerli. Molti
teorici monetaristi in tutto il mondo li sosterrebbero. Nonostante ciò sembrano
paralizzati, terrorizzati che la Germania si imbizzarrisca e torni al marco
tedesco. Dovrebbero ritrovare il coraggio e chiamare il bluff di Berlino. Se la
Germania dovesse realmente uscire – e infliggere perdite pesanti alle sue
stesse banche e assicurazioni nel farlo – questa sarebbe comunque un soluzione.
Facendo scoppiare la bolla, aprirebbe la strada a un ritorno alla crescita.
Invece l’Europa sembra avere abdicato alla leadership, aggrappata alla speranza
che un’altro decennio di crescita globale possa trascinarla fuori dalle secche.
Ciò potrebbe succedere, ma è tutt’altro che garantito, e non è una politica
degna di nazioni mature che rappresentano la seconda economia più grande del
mondo. Il cycle committee del Centro di Ricerche di Politica Economica ancora
si rifiuta di considerare l’eurozona fuori dalla recessione. La produzione
industriale ha ristagnato durante tutta l’estate.
Ci vuole solo qualche brutta sorpresa – e ce ne sono molte
all’orizzonte, in Cina e nei BRICS – e l’Europa perderà un appoggio monetario
sicuro. Come i giapponesi hanno imparato a loro spese, una volta che si lascia che
la deflazione prenda piede, poi occorre spostare cielo e terra per venirne fuori.
Approposito di Rivoluzione Americana cito da: J.K. Galbraith - Storia della economia - 1987
RispondiElimina" ... La percezione della moneta come forza stimolatrice propria della Frontiera [americana] non prevalse nelle colonie [inglesi del nord america] neppure dopo aver ricevuto l'approvazione di un personaggio del calibro di Benjamin Franklin. Nel 1751 il parlamento londinese, facendo propria l'opinione rispettabile, vietò ulteriori emissioni cartacee nel New England e circa un decennio dopo estese il divieto alle altre colonie. Fino a tempi recentissimi, questo è stato giudicato un atto di saggia, indispensabile limitazione. ... Davis Rich Dewey, un altro esperto monetario ... osservò che «una parte cospicua della popolazione, specialmente nelle maggiori città dell'Est, si tenne lontana dalla rivolta contro l'Inghilterra non tanto perché le fosse contraria, ma per il timore che l'indipendenza portasse con sé una eccessiva emissione di cartamoneta, con tutte le conseguenti perturbazioni negli affari [1928]»
ps una domanda facile: qualcuno (più di uno) sta scalciando la scala e non solo nel "parlamento londinese"
concordo, vedi http://alessandro133.blogspot.it/2013/10/inflazione-deficit-e-debito.html, ciò che mi stupisce è perchè il problema dell'inflazionesott il 2% non viene mai sollevato
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